Autore Topic: Autori con la pipa in bocca  (Letto 321786 volte)

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #45 il: 11 Marzo 2006, 23:51:27 »
Cronaca antica:

Il Grande Bardo ,un mito più che un uomo,che si è fatto da solo.(a quanto dice la CNN a volte anche in compagnia) :D  8)
http://archives.cnn.com/2001/WORLD/europe/UK/03/01/shakespeare.cannabis/index.html
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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #46 il: 12 Marzo 2006, 14:24:31 »
Ernest Hemingway (1899-1961)
E' lo scrittore simbolo del Novecento letterario, colui il quale ha saputo rompere con una certa tradizione stilistica riuscendo ad influenzare successivamente generazioni intere di scrittori.La pipa nei suoi scritti è soltanto per aggiungere una distinzione ad un personaggio,lui stesso fumava pochissimo avendo  la bocca occupata dal bicchiere.


Addio alle armi
 
 - Sei andato ancora molto a pesca? -
  - Qualche bel pesce l'ho preso. In autunno fa piacere quel che si prende. -
  - E il tabacco che t'ho mandato l'hai avuto? -
  - Sì. E lei ha avuto la mia cartolina? -
 Mi misi a ridere. Non era andata bene col tabacco. Gli avevo promesso del tabacco da pipa americano, ma avevano smesso di spedirmelo oppure era stato sequestrato, fatto sta che non l'avevo ricevuto.
  - Riuscirò a trovartene da qualche parte - dissi.  -  Senti. Hai visto due ragazze inglesi in città? Devono esser qui dall'altro ieri. -
  - Qui in hotel non ci sono. -
  - Due infermiere. Saranno in un altro albergo.


- Senti caro, sarò stupida ma perchè il barman resta nel nostro bagno? -
  - Sccc! Sta aspettando le valige. -
  - E' proprio gentile. -
  - E' un vecchio amico - dissi.  - Dovevo mandargli tabacco per la sua pipa, una volta. -

I 49 racconti

Macomber scoprì che di tutti gli uomini che aveva odiato, ed erano molti, Robert Wilson era quello che odiava di più.
«Dormito bene?» chiese Wilson con la sua voce gutturale, riempiendosi la pipa,
«E lei?»
«Ottimamente» disse il cacciatore bianco.
Bastardo, pensò Macomber, bastardo insolente.


Wilson si alzò e tirando boccate di fumo dalla pipa si allontanò, per dire qualche parola in swahili a uno dei portatori di fucile che, in piedi, lo stava aspettando. Macomber e sua moglie rimasero seduti. Lui fissava la sua tazza di caffè.
«Se fai una scenata ti lascio, tesoro» disse Margot a bassa voce.
«No, non è vero.»
«Provaci e vedrai.»

La donna urlò proprio nel momento in cui Nick e i due indiani seguirono suo padre e zio George nella capanna. Giaceva nella cuccetta inferiore, grossissima sotto una coperta. Aveva la testa voltata da una parte. Nella cuccetta superiore c'era suo marito. Si era tagliato un piede in malo modo con un'ascia tre giorni prima. Fumava la pipa. C'era una gran puzza, nella stanza.
Il padre di Nick ordinò di mettere dell'acqua sul fornello, e mentre l'acqua si scaldava gli parlò.
«Questa donna sta per avere un bambino, Nick» disse.


Due svizzeri erano seduti accanto alla stufa con la pipa e un bicchiere di torbido vino nuovo. I ragazzi si tolsero la giacca e si misero a sedere contro il muro di là dalla stufa. Nella stanza accanto una voce smise di cantare e una ragazza con un grembiule azzurro venne a vedere cosa volevano da bere.
«Una bottiglia di Sion» disse Nick. «Per te va bene, Gidge?»

Tirò fuori dalla tasca della giubba un libro coperto di carta e lo apri; poi lo depose sul tavolo e si accese la pipa. Si sporse sopra il tavolo per leggere e tirò qualche boccata di fumo dalla pipa. Poi chiuse il libro e lo rimise in tasca. Aveva troppe scartoffie da passare.


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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #47 il: 12 Marzo 2006, 15:01:42 »
Mi sono deciso ad affrontarlo oggi,non poteva assolutamente mancare.

Herman Melville (1819-1891)

Il mare, omerico e biblico, diventa il regno dei mostri, del terrore, delle immense profondità che sfuggono all'intelligenza umana. La balena bianca contro la quale lotta ostinatamente e inutilmente il capitano Achab è un abbagliante simbolo del male e dell'assurdità del mondo. La nave diventa un microcosmo della società, e la caccia maniacale alla balena riflette la determinazione dell'uomo a imporre la propria volontà sulla natura, di possederla. La conclusione tetra getta una luce fatale sul senso dell'avventura umana. La narrazione è densa di significati simbolici: essi scaturiscono a ogni passo dalla ricchezza del testo, mossi dalla visione tragica della vita che ebbe Melville, dal suo senso della disperante ambiguità del bene e del male, tra cui l'uomo oscilla senza possibilità di scelte definitive.

Moby Dick
 

«Ma credevo che lo sapessi... non ti ho detto che era fuori a smerciar teste? Be', un altro colpo di pinne, e torna a dormire. Queequeg, senti: tu capisci me, io capiscio te: questo uomo dorme te. Capisci me?

«Me capire molto,» grugnì Queequeg tirando alla pipa e alzandosi a sedere sul letto.

«Tu dentro,» aggiunse facendomi cenno con la scure di guerra e buttando da un lato la sua roba. E in realtà lo fece in una maniera non solo civile ma veramente cortese e caritatevole. Stetti a guardarlo un momento. Con tutti i suoi tatuaggi, era in complesso un cannibale pulito e di aspetto gradevole. Che è tutto questo chiasso che ho fatto, dico a me stesso: costui è un essere umano proprio come me, ed ha tanto motivo di temermi come io di temere lui. Meglio dormire con un cannibale sobrio che con un cristiano ubriaco.

«Padrone, digli di mettere via l'ascia o pipa o quello che sia, insomma digli di smettere di fumare e andrò sotto con lui. Non mi piace avere a letto uno che fuma. È pericoloso. Per giunta non sono assicurato.»

Glielo disse, e Queequeg subito consentì, e di nuovo mi accennò gentilmente di mettermi a letto, rotolandosi tutto da una parte come per dire: Non ti sfioro nemmeno una gamba.»

«Buona notte, padrone,» dissi, «puoi andare.»

Mi ficcai sotto: mai dormito meglio in vita mia.

 Ma sorvoliamo su tutte le stravaganze di Queequeg a colazione: come scansava il caffè e i panini caldi e concentrava tutta la sua attenzione sulle bistecche al sangue. Basti dire che, finita la colazione, si ritirò con gli altri nella sala comune, accese la sua scure-pipa, e rimase lì seduto a fumare e digerire beatamente col suo cappello inseparabile in testa, mentre io uscivo a farmi due passi.



 Allora cominciammo a sfogliare assieme il libro, e mi sforzai di spiegargli lo scopo dei caratteri a stampa e il significato delle poche vignette che c'erano. Così catturai presto la sua attenzione, e di lì passammo a ciarlare bene o male sulle varie cose che c'erano da vedere in quella famosa città. Gli proposi una fumata sociale; lui tirò fuori l'ascia e la borsa del tabacco e mi offrì tranquillamente una boccata. Dopo di che ci mettemmo a scambiare boccate da quella sua pipa selvaggia, facendola passare regolarmente dall'uno all'altro.
Adesso niente mi piaceva di più che vedere Queequeg che mi fumava vicino, anche a letto, perché allora mi pareva pieno di tanta serena gioia casalinga; ormai la polizza d'assicurazione del padrone di casa non mi preoccupava eccessivamente. Ero solo sensibile alla soddisfazione intima e intensa di dividere una pipa e una coperta con un vero amico. Coi nostri giacconi pelosi tirati sulle spalle facevamo circolare l'ascia, finché sulle nostre teste crebbe un pendulo azzurro baldacchino di fumo, illuminato dalla fiamma del lume che avevamo riacceso.

 Finita la sua storia con l'ultimo sbuffo della pipa, Queequeg mi abbracciò, pigiò la fronte contro la mia, e spenta la luce ruzzolammo via uno da un lato e uno dall'altro e ben presto ci addormentammo.

Queequeg colse uno di questi coglioncelli a fargli il verso alle spalle. Temetti che per quell'idiota fosse giunta l'ora del giudizio. Il robusto selvaggio si sbarazzò del rampone, prese l'amico tra le braccia e lo buttò in aria di peso, con un'abilità e una forza quasi da miracolo. Poi con una leggera bussata in poppa a metà del salto mortale, lo fece atterrare in piedi, coi polmoni che gli scoppiavano, mentre Queequeg voltandogli le spalle accendeva la sua pipa di guerra e me la passava per una boccata.

«Hapitano, hapitano!» strillò quel fesso correndo verso l'ufficiale. «Hapitano, hapitano, c'è il demonio!»

 Ma si è mai visto un uomo così incosciente? Non parve pensare affatto di essersi meritata una medaglia al valore civile. Domandò solo un po' d'acqua, dell'acqua fresca, qualcosa per levarsi di dosso il sale. Ciò fatto indossò vestiti asciutti, accese la pipa, si appoggiò alla murata, e dando un'occhiata tranquilla a chi gli stava attorno pareva dire a se stesso: «Questo mondo è una mutua, una società per azioni, sotto tutti i climi. E a noi cannibali tocca aiutare questi cristiani.»

Lasciai dunque, come dicevo, Queequeg a digiunare sulla sua pipa di combattimento, e Yojo a scaldarsi alla fiamma lustrale dei trucioli, e salpai per i moli. Dopo lunghi giri e rigiri e molte domande a destra e a manca, venni a sapere che c'erano in allestimento tre navi per crociere di tre anni: la Diavolessa, il Bocconcino e il Pequod. Diavolessa non so dove l'abbiano pescato; Bocconcino è ovvio; e Pequod, come ricorderete senza dubbio, era il nome d'una famosa tribù di indiani del Massachusetts, ora estinti come gli antichi Medi. Mi misi a girare occhieggiando e scrutando attorno alla Diavolessa, da quella feci una capatina al Bocconcino, e finalmente salii a bordo del Pequod, detti qualche occhiata attorno e decisi che questa era la nave fatta per noi.

 Queequeg, mentre raccontava queste cose, ogni volta che riceveva da me la pipa mannaia, ne faceva roteare quest'ultima faccia sulla testa di quello che dormiva.

«Perché fai così, Queequeg?»

«Molto facile ammazzare, oh, molto facile!»

 «Ohé!» esalò finalmente, «chi siete, pipaioli?»

«Dell'equipaggio,» dissi, «quando si parte?»

«Già, già. Partite con questa, vero? Salpa oggi. Il capitano è salito ieri notte.»


 Ciò che forse, tra l'altro, faceva di Stubb un uomo così strafottente e senza paure, che se la trottava con tanta allegria col peso della vita addosso, in un mondo pieno di merciai tetri, tutti piegati a terra dai loro fagotti; ciò che lo aiutava a portarsi attorno quel suo buonumore quasi empio, doveva essere la sua pipa. Perché, come il suo naso, la sua corta pipetta nera era una delle fattezze ordinarie della sua faccia. Era quasi più probabile vederlo saltar fuori dalla cuccetta senza naso, piuttosto che senza pipa. Lì dentro aveva tutta una fila di pipe cariche infilate in un portapipe a stretta portata di mano, e ogni volta che andava a letto le fumava tutte di seguito, accendendole l'una dall'altra fino al termine della raccolta, e poi ricaricandole perché fossero di nuovo pronte. Perché per prima cosa, quando Stubb si vestiva, invece di cacciare le gambe nelle brache, si cacciava la pipa in bocca.

Io credo che questo eterno fumare dev'essere stata almeno una delle cause della sua indole speciale. Ognuno sa infatti che a questo mondo l'aria, in terra o in mare, è terribilmente infetta dalle miserie indicibili del numero sterminato di uomini che sono morti cacciandola dai polmoni; e come in tempo di colera qualcuno va in giro con un fazzoletto canforato sulla bocca, allo stesso modo il fumo del tabacco di Stubb può avere operato come una specie di disinfettante contro tutti i triboli umani.


 Quando Stubb se ne andò Achab rimase per un poco curvo sulla murata; poi, come soleva fare di recente, chiamò uno della guardia e lo mandò giù a prendergli lo sgabello d'avorio, e anche la pipa. L'accese alla lanterna della chiesuola, piazzò lo sgabello a sopravvento e si sedette a fumare.

Al tempo degli antichi norvegesi i troni dei re di Danimarca appassionati di mare erano fatti, dice la tradizione, con la zanna del narvalo. Come si poteva guardare Achab, allora, seduto su quel treppiedi d'ossa, senza pensare alla regalità di cui quel sedile era simbolo? Un Khan del tavolato, un re del mare e un gran signore di balene: questo era Achab.

Passò qualche minuto. Il fumo denso gli usciva di bocca in sbuffi continui e fitti, che il vento gli risoffiava in faccia. Alla fine si levò la canna di bocca e cominciò a parlare da solo: «Ma come, il fumo non mi rasserena più. Deve andarmi proprio male, cara pipa, se il tuo incanto è sparito! Sono stato qui a stancarmi senza rendermene conto, invece di provare piacere. Proprio così, e per tutto il tempo ho fumato controvento come un idiota; controvento e tirando coi nervi, come una balena in agonia, ché le mie ultime sfiatate sono le più forti e le più tormentose. Ma perché uso questa pipa? È una cosa fatta per chi è sereno, per mandare il suo fumo bianco e gentile in mezzo a dei quieti capelli bianchi, e non tra ciuffi spelacchiati, grigi come il ferro, come questi miei. Non voglio più fumare...»

Buttò in acqua la pipa ancora accesa. La brace fischiò tra le onde. E nello stesso momento la nave, con un balzo, si lasciò dietro la bolla che la pipa fece affondando. Achab si tirò il cappello sul naso e cominciò a misurare il ponte come un ladro.

 Ma il terzo ufficiale Stubb non mostrava simili smanie di guardare al largo. Le balene potevano aver fatto uno dei loro regolari scandagli, non un tuffo momentaneo per semplice paura. E se era così, Stubb, al suo solito, era deciso ad alleviare con la pipa l'attesa snervante. Se la tolse dal nastro del cappello dove la teneva sempre infilata di sghembo come una piuma. La caricò, e ne pressò la carica con la punta del pollice. Ma aveva appena acceso il fiammifero sulla ruvida cartavetrata della mano, quando il suo ramponiere Tashtego, che aveva tenuto gli occhi piantati a sottovento come due stelle fisse, dalla sua posizione eretta ricadde sul banco di colpo, rapido come la luce, e gridò freneticamente: «Tutti giù, tutti giù, forza ai remi! Eccole!»

 «Signor Stubb,» dico, voltandomi a quell'illustre, che abbottonato nel suo giaccone impermeabile si fumava calmo la pipa sotto la pioggia: «Signor Stubb, se non sbaglio vi ho sentito dire che il nostro primo ufficiale, il signor Starbuck, è di gran lunga il più cauto e prudente tra tutti i balenieri che avete conosciuto. Immagino allora che buttarsi a piombo con tutte le vele spiegate su una balena che scappa, in mezzo alla tempesta e alla nebbia, è per un baleniere il colmo della prudenza.»


Ed ecco, a poca distanza a sottovento, nemmeno a quaranta tese, un capodoglio gigantesco andava rollando nell'acqua come lo scafo capovolto di una fregata, col vasto dorso lucido di un bel colore moro che scintillava come uno specchio ai raggi del sole. E mentre fluttuava così pigra nel trogolo del mare, e di tanto in tanto, tranquilla, sfiatava il suo zampillo di vapori, la balena somigliava a un solenne borghese che si fa una pipata in un pomeriggio caldo.

 «Laggiù coda!» si gridò, e subito Stubb tirò fuori un fiammifero e si accese la pipa, perché ora c'era un momento di riposo. Quando il tempo del tuffo fu passato, la balena riemerse. Adesso era davanti alla barca di Stubb il fumatore, e molto più vicina a essa che a tutte le altre barche: sicché Stubb contò sull'onore della cattura. Era ovvio, ormai, che la balena si era finalmente accorta degli inseguitori. Ogni cauto silenzio dunque non serviva più a nulla. Gettammo le pagaie e mettemmo rumorosamente in azione i remi. E sempre tirando alla pipa, Stubb incitava con grida la sua ciurma all'assalto.


 E il rampone partì. «Tutto indietro!» I rematori sciarono; nello stesso momento qualcosa sfilò caldo e fischiante sui polsi di ciascuno. Era la magica lenza. Un momento prima Stubb, svelto, le aveva dato altre due volte attorno al ceppo; e da questo, per il vorticare sempre più rapido, si levò un fumo azzurro di canapa e si mescolò alle spire che uscivano costanti dalla sua pipa.

E se non sarà alla fine sterminato nelle acque, finché l'ultima balena come l'ultimo uomo fumerà la sua ultima pipa e poi svanirà essa stessa nella boccata finale.


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« Risposta #48 il: 12 Marzo 2006, 21:08:58 »
Arnaldo Fusinato, "Il Cor Contento" (da Poesie Complete, Ed. Carrara di Milano, 1880 - frammento pubblicato da Andrea Stoppioni su Amici della Pipa anno XX n° 2, marzo/aprile 1997)

Cinquant'anni ho sulla schiena,
e sono grande, grasso e grosso;
ho un faccion da luna piena,
tondo tondo, rosso rosso,
e la gola ho seppellita
sotto un lardo alto sei dita.

Ogni dì, quando ho pranzato,
io mi sdraio un'ora buona
sul cuscino sprimacciato
di una morbida poltrona,
e al dormir l'occhio velando
la mia pipa vo fumando.
"Bohhh tieniti le tue adorate dunhill e pipe da snobe i tuoi tabacchi da bancarella del mercato" Cit. toscano f.e.

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« Risposta #49 il: 12 Marzo 2006, 21:14:59 »
Mallarmè:

Ieri, sognando una lunga serata di lavoro, quel bel lavoro d'inverno, ho trovato la mia pipa. Ho buttato via le sigarette, e con esse tutte le gioie infantili dell'estate, la memoria di foglie azzurrine illuminate dal sole, di abiti leggeri, e ho ripreso la mia pipa severa, da uomo serio che vuol fumare senza distrazioni, per lavorare meglio: ma non ero preparato alla sorpresa che stava approntandomi la povera abbandonata: avevo appena fatto il primo tiro, e subito dimenticavo i grandi libri da fare, stupito, intenerito, respiravo l'inverno passato che tornava..."
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« Risposta #50 il: 13 Marzo 2006, 08:43:10 »
La pipa come oggetto per allungare il tempo di una veglia,o di una attesa.

Giulio Verne

Viaggio al centro della terra

Mi misi al lavoro. Ripulii, misi
l'etichetta e disposi nella loro vetrina tutte quelle pietre cave, dentro le
quali vibravano minuscoli, infiniti cristalli. Ma questo lavoro non mi distraeva
dai miei pensieri. La faccenda di quel vecchio documento continuava stranamente
a preoccuparmi; mi ribolliva in testa, mi sentivo un non so che, presentivo una
catastrofe molto prossima.
Dopo un'ora i geodi erano perfettamente in ordine nella vetrina. Mi buttai
allora io, nella vecchia poltrona di Utrecht, con le braccia penzoloni e la
testa all'indietro. Accesi la pipa dal lungo cannello ricurvo, che aveva
scolpita sul cannello una voluttuosa najade sdraiata con indolenza; mi divertii
poi a seguire con lo sguardo la carbonizzazione che lentamente trasformava la
najade in una negretta. Ogni tanto mi mettevo ad ascoltare se si sentiva rumore
di passi su per le scale. Ma niente. Dove sarà stato lo zio in quel momento? Me
lo immaginavo mentre correva sotto gli alberi del bel viale di Altona.



James Joyce

Dubliners

    "No,  non direi che fosse proprio...  ma c'era qualcosa  di  strano...
    qualcosa di misterioso in lui. Vi dirò la mia opinione..."
    E  cominciò  a tirare boccate dalla pipa,  senza dubbio rimuginando la
    sua opinione tra sè e sè. Vecchio sciocco noioso! All'inizio quando lo
    avevamo conosciuto, aveva suscitato in noi un certo interesse parlando
    di scarti di distillazione e di  alambicchi,  ma  ben  presto  mi  ero
    stancato di lui e delle sue storie senza fine sulle distillerie.

    "Ho  una  mia  teoria  al riguardo," riprese.  "Penso sia stato uno di
    quei... particolari casi. Ma è difficile dire..."
    Ricominciò a fumare la pipa senza dirci  la  sua  teoria.  Lo  zio  si
    accorse del mio sguardo fisso e mi disse:
    "Be', così il tuo vecchio amico se ne è andato; ti dispiacerà"
    "Chi?" chiesi.
    "Padre Flynn."

    "Dio accolga la sua anima," fece la zia, pietosa.
    Il vecchio Cotter mi osservava.  Sentivo su di me lo guardo  acuto  di
    quegli  occhietti scuri e pungenti,  ma non gli diedi la soddisfazione
    di alzare i miei dal piatto.  Tornò alla sua pipa e infine  sputò  con
    disprezzo nel fuoco,

Nikolai Vasilievic Gogol

Racconti

Declamava magnificamente i versi del "Dmìtrij Donskòj" e di "Che disgrazia l'ingegno", possedeva l'arte speciale di emettere dalla pipa il fumo in forma di anelli con tanta maestria da poterne infilare lì per lì una decina uno dietro l'altro. Sapeva narrare piacevolmente la storiella della differenza che c'è fra il cannone e il rinoceronte. E' difficile, insomma, enumerare tutti i pregi di cui la sorte aveva dotato Pìrogov.

Intanto Pìrogov, fumando la pipa nella cerchia dei suoi compagni - giacché così ha disposto la provvidenza: che dove ci sono ufficiali, ci sono anche pipe - fumando dunque la pipa nella cerchia dei suoi compagni, alludeva significativamente e con un piacevole sorriso al suo intrigo con la graziosa tedeschina, con la quale, a sentire lui, era già prossimo a concludere, mentre in realtà aveva già quasi perduto la speranza di tirarla a sé.

In nessun posto al mondo si ferma tanta gente come davanti alla bottega di quadri dello Scukìn Dvor. Questa bottega conteneva infatti la più eterogenea collezione di cose strane e rare: i quadri per la maggior parte erano dipinti a olio, ricoperti da vernice verde cupo, inseriti in cornici pretenziose color giallo scuro. Un inverno con i suoi alberi bianchi; un tramonto tutto rosso, simile al bagliore di un incendio; un contadino fiammingo con la pipa e il braccio spezzato, più simile a un gallo indiano con i polsini che a un uomo.
"Eh," disse, puntando il dito su una tela dov'era raffigurata una donna nuda, "un soggetto, direi... giocoso. E perché qui è così scuro? Si rimpinzava di tabacco, forse?" "E' un'ombra," rispose severamente Cartkòv senza rivolgergli lo sguardo.
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« Risposta #51 il: 13 Marzo 2006, 16:11:17 »
I 49 racconti

Macomber scoprì che di tutti gli uomini che aveva odiato, ed erano molti, Robert Wilson era quello che odiava di più.

Per forza, gli trom...va la moglie! :D
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« Risposta #52 il: 13 Marzo 2006, 17:51:30 »
A volte succede.
 :D
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« Risposta #53 il: 14 Marzo 2006, 17:18:12 »
Jerome K Jerome (1859 - 1927)

Fu dapprima impiegato delle ferrovie, poi insegnante, attore, e giornalista. Nel 1892 fu tra i fondatori della rivista "The Idler" e nel 1893 del settimanale "Today". Nel 1888 si sposò ed ebbe una figlia. Conobbe il primo successo letterario nel 1889 con la pubblicazione di Pensieri oziosi di un ozioso e di Tre uomini in barca. Seguirono: Tre uomini a zonzo (1900), Loro e io (1909) e numerose opere per il teatro, tra le quali Il passeggero del terzo piano (1908).Fumò  la pipa ma in modo poco  serio,come tutto il resto.



Tre Uomini in Barca


Mi opposi al viaggio di mare con tutte le mie forze. Un viaggio di mare fa bene se può durare per un paio di mesi; una crociera di una settimana soltanto è una tragedia. Al lunedì tu parti con l'idea radicata nel cervello che vuoi divertirti. Accenni un disinvolto saluto agli amici sul molo, accendi la tua pipa più voluminosa e te ne vai a fare lo sbruffone in coperta, come se fossi un concentrato del Capitano Cook, di Francis Drake e di Cristoforo Colombo. Al martedì ti auguri di non esserti mai imbarcato. Al mercoledì, giovedì e venerdì preferiresti essere all'altro mondo. Al sabato riesci a mandar giù un po' di brodo magro, a star seduto in coperta e a rispondere con un sorrisino dolce e stanco alle persone gentili che vengono a chiederti se ora ti senti meglio. Alla domenica ricominci a passeggiare e a mangiare cibi normali. E al lunedì mattina tutto comincia a piacerti, ma tu, valigia e ombrello in mano, stai già presso il barcarizzo in attesa di sbarcare

Comunicai a George e ad Harris questa realtà e dissi loro che era meglio lasciassero a me il lavoro dei bagagli. Essi accettarono il mio consiglio con una prontezza che direi impudente. George si sistemò sulla sedia a sdraio e accese la pipa; Harris appoggiò i piedi sul tavolo e si accese un sigaro.

E' un posticino grazioso; una radura coperta d'erba che si stende lungo la riva del fiume sotto i salici. Avevamo appena attaccato la terza portata - pane e marmellata - quando arrivò un signore in maniche di camicia e con la pipa in bocca il quale disse che voleva sapere da noi se ci risultava che lì era vietato il transito. Gli rispondemmo che non avevamo considerato la cosa al punto da poter trarre una conclusione definitiva ma che, ad ogni modo, se lui sulla sua parola di gentiluomo ci avesse assicurato che lì il transito era proibito, noi gli avremmo prestato fede senza esitare.


Un'ora e mezzo dopo vi sentite in vena di andarvi a fare una fumatina di pipa nella serra. Lì c'è una sola sedia e su di essa c'è seduta Emilia mentre Gianni Eduardo, se si deve aver fiducia nel linguaggio dei vestiti, evidentemente era stato seduto per terra. I due non parlano ma vi lanciano uno sguardo che dice tutto quello che può essere detto tra persone civili, e a voi non rimane che battere in ritirata e chiudervi la porta alle spalle.

L'ordine della processione era il seguente:
Montmorency che portava un bastone tra i denti.

Due bastardi, spregevoli amici di Montmorency.

George, carico di coperte e pastrani, fumando la pipa.


Uomo di fatica, con valigia.

Amico inseparabile dell'uomo di fatica con le mani in tasca, e la pipa di coccio in bocca.


Secondo me lo stufato lo aveva messo di cattivo umore; egli non è abituato alla gran vita, e perciò io e George lo lasciammo nella barca per andarcene a spasso per le vie di Hanley. Lui disse che avrebbe bevuto un whisky, si sarebbe fatto una pipata e poi avrebbe messo in ordine tutto per la notte. Al ritorno avremmo dovuto gridare e lui sarebbe venuto a prenderci dall'isola con la barca.


Egli entra tranquillamente con il cappello in testa, si sceglie la sedia più comoda, accende la pipa e comincia a mandar buffetti in silenzio. Lascia che i giovani si sfoghino a dir spacconate per un poco e poi, durante una momentanea pausa si toglie la pipa dalla bocca e mentre scuote la cenere dal bocciuolo dice:

- Be'! martedì sera feci una retata di quelle che forse è meglio non parlarne con nessuno.
- Oh! e perché? - gli si chiede.
- Perché sono certo che se lo dicessi nessuno mi crederebbe, - risponde pacatamente il vecchio senza nessun accenno di amarezza nella voce. Poi si mette a ricaricar la pipa e chiede all'oste di portargli tre dosi di whisky con ghiaccio.


Entrammo nel bar e ci sedemmo. C'era solo un vecchio che fumava la pipa di gesso e, naturalmente, cominciammo a chiacchierare con lui.Ci disse che oggi era stata una bella giornata e noi gli dicemmo che ieri era stata una bella giornata e poi ci dicemmo l'un l'altro che credevamo che domani sarebbe stata una bella giornata; George aggiunse che il raccolto pareva promettere molto bene.
Dopo di ciò fra una chiacchiera e l'altra venne fuori che noi eravamo forestieri e che saremmo ripartiti il giorno seguente.


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Offline Aqualong

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #54 il: 14 Marzo 2006, 23:29:12 »
Ritorno su un autore che và trattato più degnamente,infatti più di cento anni fà ha descritto il futuro e tantissime invenzioni,allora fantastiche,che oggi sono di uso abbastanza comune,parlò di carri armati,energia nucleare,elicotteri etc.
Amò tantissimo la pipa,nei suoi romanzi c'è sempre un attimo dove è celebrata.

Giulio Verne

L'Isola Misteriosa



Oh,  me ne sono guardato bene.  Soltanto,  capirai, con tutti quegli
    scossoni che abbiamo subito,  è facile che un oggetto così piccolo  si
    sia smarrito.  Anche la mia pipa,  vedi,  è sparita. Maledizione! Dove
    può mai essersi cacciata quella diabolica scatola?
    - Guarda,  il mare sta ritirandosi.  Andiamo sul  posto  dove  abbiamo
    preso terra.

Ciò fatto piegò il foglio in forma di
    imbuto,  come  fanno  i  fumatori  di pipa per difendere la fiamma dal
    forte soffio del vento,  e  lo  cacciò  sotto  le  foglie  secche.  Si
    trattava  ora  di accendere quell'unico zolfanello.  Pencroff sospirò,
    prese un ciottolo ben  asciutto,  vi  sfregò  contro  piano  piano  lo
    zolfanello;  ma  la  fiamma  non sprizzò.  Il marinaio aveva tenuto lo
    zolfanello troppo  leggero,  timoroso  di  rovinare  la  capocchia  di
    fosforo.

Era la vera «terra di pipa»,  con la quale
    vennero fabbricate le pentole, le tazze, i piatti,  degli orci e delle
    anfore  per  l'acqua.  La forma di questi oggetti era piuttosto goffa,
    difettosa;  ma,  quando furono cotti a un'alta temperatura,  la cucina
    della  Camminata  si  trovò  ricca di una stoviglieria più preziosa di
    tutte le porcellane di Sèvres!
    Qui bisogna aggiungere che Pencroff,  curioso di controllare se quella
    terra  meritava  davvero  il  nome  di  terra  di pipa,  se ne costruì
    qualcuna, piuttosto grossolana ma che egli definì bellissima.  

Harbert - la scorza del bambù,  tagliata in liste flessibili,  serve a
    fabbricare dei panieri e delle ceste;  ridotta in pasta e macerata, ti
    dà la carta;  la parte superiore delle canne ti  dà  dei  cannelli  da
    pipa,  oppure  dei  condotti  per  l'acqua;  le  canne  grosse sono un
    eccellente materiale di costruzione,  che gli insetti non toccano mai.

- Un'idea,  signor Spilett,  non diciamo niente a Pencroff; prepariamo
    come si deve queste foglie, e un bel giorno presentiamo a Pencroff una
    pipa già carica di tabacco.
    - D'accordo, Harbert. E quel giorno, il nostro bravo compagno non avrà
    proprio più niente da desiderare quaggiù.
    Il giornalista e il ragazzo fecero un'abbondante provvista  di  quelle
    foglie,  e  tornarono  al  Palazzo  di  Granito  dove  introdussero di
    contrabbando, non visti da nessuno, il tabacco. Cyrus e Nab,  ai quali
    venne  comunicata  la  scoperta,  furono  d'accordo  nel  mantenere il
    segreto,  e Pencroff ignorò tutto per il tempo necessario a seccare le
    foglie,  a trinciarle,  a lasciarle esposte ai raggi del sole, distese
    sopra delle lisce pietre calde. Ci vollero,  insomma,  due mesi buoni;
    ma  Pencroff,  tutto  preso  nella  costruzione  del battello,  non si
    accorse di tutte quelle operazioni.

- Un momento, Pencroff. Non si scappa con tanta furia. Voi dimenticate
    la frittata.
    - No, grazie; io torno al lavoro.
    - Una tazza di caffè, almeno...
    - Nemmeno.
    - Una buona fumatina, allora...
    Pencroff si era alzato di scatto e  la  sua  onesta  faccia  impallidì
    quando  vide  che  il  giornalista  gli offriva una pipa ben carica di
    tabacco e Harbert uno zolfanello acceso.  Non riuscì ad articolare una
    parola;  ma,  ghermita la pipa,  se la cacciò in bocca,  poi, preso lo
    zolfanello, aspirò, una dietro l'altra,  cinque o sei boccate di fumo.
    Una nuvoletta azzurrina e profumata si levava dalla pipa,  e da questa
    nuvoletta uscì una voce rauca e delirante che mormorava strozzata:
    - Del tabacco! Del vero tabacco!
    - Sì, Pencroff; e del tabacco abbastanza buono.
    - Oh,  Provvidenza divina!  Oh,  divino Autore d'ogni cosa!  Che  cosa
    manca mai, ora, in questa nostra isola benedetta?
    E  Pencroff  fumava,  fumava fumava.  Poi volle sapere chi aveva fatto
    quella scoperta e quando seppe che era stato Spilett se lo strinse tra
    le braccia, sul largo petto, e il giornalista non aveva mai immaginato
    che si potesse essere stretti così...
    - Sì,  Pencroff - disse Spilett  quando  riuscì  a  divincolarsi  e  a
    riprendere la sua respirazione normale.  - L'ho scoperto io. Ma dovete
    essere riconoscente anche ad Harbert perché è lui che ha  riconosciuto
    questa  pianta,  e anche a Cyrus,  perché è lui che l'ha preparata;  e
    anche a Nab,  perché ha durato tanta fatica a  conservare  il  segreto
    fino a oggi...
    -  Amici miei - esclamò il marinaio,  - un giorno vi dimostrerò la mia
    gratitudine. Ormai, è per la vita e per la morte!

    Il 25 agosto, Nab chiamò a gran voce i compagni.
    - Signor padrone, signor Spilett, signor Harbert, Pencroff! Venite!
    I coloni,  che  si  trovavano  riuniti  nella  sala,  accorsero  nella
    stanzetta di Jup, dalla quale veniva quell'appello.
    - Che succede? - chiese il giornalista.
    - Guardate! - esclamò Nab, scoppiando a ridere.
    Guardarono. Jup stava fumando tranquillamente una pipa appoggiato alla
    porta del Palazzo.
    -  La mia pipa!  - urlò Pencroff.  - Ha preso la mia pipa!  Mio ottimo
    Jup, te la regalo, e fumaci tutto il tabacco che vuoi!
    Jup lanciava gravemente delle grosse nuvole di fumo e  pareva  che  ne
    godesse immensamente.  Da quel giorno, mastro Jup ebbe la sua pipa, la
    sua pipa personale,  quella che  era  stata  del  marinaio;  e  gliela
    appesero sopra la sua cuccetta,  nella sua stanzetta,  insieme con una
    buona provvista di tabacco. Aveva imparato a caricarla,  ad accenderla
    con un pezzo di carbone, e Pencroff ne era sempre più estasiato.
    - Sai - disse un giorno a Nab,  - e se fosse un uomo? Che cosa diresti
    se un bel momento si mettesse a parlare?
    - Io non mi stupirei - gli rispose il negro.  - Mi stupisce  piuttosto
    che non parli.
    -  Sai  che  emozione  se  lo sentissi dire: «Ehi,  mio buon Pencroff,
    vogliamo scambiare le nostre pipe?».
    - Proprio peccato che sia muto sin dalla nascita!

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« Risposta #55 il: 17 Marzo 2006, 21:39:28 »
Siamo sempre sul bozzettistico toscano, ma questo è di un mio concittadino. Libro raro e di recente ristampato in anastatica:
Giovanni Ugolini- Benvenuto, storie di caccia- Sansepolcro 2005.

Bista, che si era seduto su di un masso, domandò a Benvenuto se non sentisse freddo.
Questi intanto aveva acceso la pipa, una pipetta di radica dalla cannuccia ricurva, e sedutosi sui calcagni, dopo essersi legato il guinzaglio dei cani ad una gamba, mandava certe nuvole di fumo che si sentivano puzzare un miglio lontano. Un sorriso scosse la sua larga bocca, e senza smettere di fumare rispose:......
Amplius invenies in sylvis quam in scriptis

Offline Aqualong

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #56 il: 18 Marzo 2006, 13:31:10 »
Fucini Renato

Fucini assunse lo pseudonimo-anagramma di Neri Tanfucio, di professione muratore. Negli anni successivi ottenne prima un posto come insegnante e poi come ispettore scolastico, un incarico che gli permise di vagabondare per quei paesetti della Toscana che tanto amava e dai quali traeva ispirazione per i suoi bozzetti di vita campagnola.La pipa è amata e protagonista in quasi tutte le sue macchiette,come fù fedele compagna nella sua vita.

Le veglie di Neri


Il Matto delle Giuncaie

«Ah, sì ha ragione! c'è quelle donne; eppoi a quest'ora, verso le Svolte, troverà il Matto di certo.»
Una mezz'ora dopo, aiutandomi col forcino  a sfondare le foglie di copripentole e quei viluppi foltissimi di alghe d'ogni genere che nell'estate permettono appena la navigazione negli stretti fossi del padule, avevo già vuotato sul pagliòlo  una dozzina di libbre di pesce fra lucci, tinche e anguille, quando, non sapendo dove trovare chi mi indicasse il canale traverso, mi alzai in piedi per vedere se potevo scorgere anima viva da domandarglielo...
«Che ci ha una pipata di tabacco?»
A quella voce che si partiva da un folto cespuglio di salci, mi scossi quasi impaurito e, voltomi indietro, vidi una figura semiselvaggia che, mostrandomi una pipa spenta, aspettava la mia risposta.
«Tabacco non ne ho», risposi. «Se vuoi un sigaro...».
«E allora lo ringrazierò. Lo butti, lo butti.»
«Non vorrei che andasse nell'acqua.»
«O aspetti, veh.»
Così dicendo si alzò e reggendosi con la destra ad un ramo, si spenzolò tenendo nella sinistra il cappello, e:
«Lo butti, lo butti qui; se va nell'acqua lo ripiglio io».
Tirai il sigaro nel suo cappello; lo prese e mi ringraziò di nuovo, mettendosi subito a stritolarlo nella pipa.



La pipa di Batone

Lo scoppio d'una tempesta di grida e di tonfi sulla tavola, che partiva da un gruppo di quattro allegri giovinotti, l'uno figlio di Batone e gli altri amici di casa, era la chiusa obbligatoria d'ogni partita di calabresella; ma questa volta il baccano fu tanto forte che il vecchio Batone, mezzo addormentato nel canto del fuoco, fece un tale scossone che, battendo la nuca nella mensola della cappa, gli cadde la pipa che gli ciondolava dalla bocca, andando a rompersi in cento pezzi sul piano del focolare.
«Eh! maledetto voi altri e la vostra calabresella!», gridò Batone, buttandosi carponi a raccattare i frammenti della pipa; ma la sua imprecazione restò affogata sotto un nembo di:
«Tutte nostre, se buttavi l'asso quando ti ci ho chiamato!».
«E della napoletana a còri che te ne volevi fare?»
«Te, piuttosto...»
«Ha ragione lui!»
«Nossignore, perché quando gli ho calato l'asso terzo...»
«Ma allora mi ci dovevi battere!»
«Sì, sì!»
«No, no!»
E giù, un altro diluvio di tonfi, urli e imprecazioni più grosso del primo.
«Benedetto voi altri e le vostre gole intremotate! Vi volete chetare, sì o no? Ecco, guardate che bel sugo!», esclamò la Carlotta, nuora del vecchio Batone. «Questa povera creaturina dormiva che era un amore, e ora sentite che bella musica! E ninna e ninna e nanna...» E così canterellando si mise a cullare sulle ginocchia una bella bambocciona grassa e fresca come una rosa, la quale sbertucciandosi lo scuffiotto di lana gialla univa i suoi strilli alle grida dei giocatori, formando un casa del diavolo da sgomentare un campanaro di professione.
Finalmente si chetarono, ma dopo avere esaurito affatto la questione durante la quale ognuno aveva detto o creduto di dire un sacco d'eccellenti ragioni, lasciando però nella mente dei compagni precisamente il tempo che vi avevan trovato.
«O di che cercate costì nella cenere, babbo?», domandò Cencio che nel voltarsi aveva visto il vecchio razzolare a capo basso, inginocchiato sul sodo del camino.
«Di che cerco, eh?», rispose Batone, fra il desolato e lo stizzito, «di che cerco, eh? Eran diciott'anni che ci fumavo!»
«Vi s'è rotta la pipa! o come mai?», domandò uno degli amici.
«Diciott'anni!», brontolò Batone con un sospiro; «grumata che era una delizia!»
«Povero nonno! o com'è andata?», domandò anche la Carlotta, sospendendo la sua ninna-nanna.
«Com'è andata! È andata che se vi si seccasse la gola a quanti siete, non sarebbe il vostro avere... Eh, sie! Il pezzo più grosso eccolo qui! Va' all'inferno anche te!» E con un calcio mandò nel fuoco gli avanzi della pipa e si rincantucciò di nuovo taciturno nel fondo della sua panca.
La bambina aveva ripreso sonno, la ninna-nanna era cessata, ed al rumore di pochi momenti fa era succeduto un profondo silenzio. I quattro giovani si guardavano fra loro, guardavano il vecchio e quindi la Carlotta, quasi interrogandola con lo sguardo sulla catastrofe della pipa. Alle quali mute interrogazioni la Carlotta rispondeva con un movimento della testa e degli occhi che voleva dire:
«Non ne so nulla nemmen'io; stiamo zitti, se no si fa troppo dispiacere a questo pover'omo».
Tutti tacquero per alcuni altri momenti, e Batone mandò fuori a breve intervallo due lunghi sospiri, dopo i quali, quasi rispondendo a una domanda del suo pensiero, esclamò con tristezza:
«Se ci ero affezionato!». Eppoi rivolgendosi agli amici: «Vedete, giovinotti; se mi fosse cascato un tegolo sulla testa, sarei crepato, sì, ma avrei patito meno».
«Eh, lo capisco!»
«Io mi metto ne' vostri piedi.»
«Anch'io.»
«Figuratevi io!», rispondevano uno dopo l'altro i quattro giovani che, sentendo un certo solletico di riso, avevano però nel fondo dell'animo una certa compassione del vecchio, perché fino da bambini erano avvezzi ad amare quella mite e robusta natura di popolano, e perché, correndo col pensiero alla pipa che tutti avevano in bocca, comprendevano abbastanza il suo dolore.
«Non vi starò a dire, perché tutti fumate e ve lo figurerete», riprese Batone, «se in una pipa di diciott'anni ci si fuma bene! Ma quello che più di tutto m'addolora è di dover dire addio a un oggetto che mi rammentava troppe cose... troppe! La comprai l'anno della piena, e la rinnovai per l'appunto quella mattina... 'Gnamo, 'gnamo, guardate dove mi fate entrare; Noe, noe, via, lasciatemi stare; accidenti alla calabresella, a chi l'ha inventata e a' vostri urlacci dannati!»
«Giù, giù, Batone, raccontate, raccontate!», chiesero ad un tempo i tre amici.
«Che volete che vi racconti, ragazzi miei? Son vecchio, ecco quello che vi posso raccontare; son vecchio, e non son più bono a nulla. Ma quand'ero ne' mi' cenci... Un gigante non son mai stato, si vede ancora; ma con queste braccia che ora paion du' ossi vestiti di pelle, ho fatto qualche cosa anch'io, e a que' giorni, omo per omo, ve lo giuro sul capo di quella creatura, a Batone, non gli ha fatto mai paura nessuno, mai! Prepotenze no; ma mosche sul naso, per grazia di Dio e del mi' fegato, mi ce ne son lasciate posar sempre poche, ma poche davvero. E dite pure che quando voi altri sarete arrivati a fare la metà di quel che ho fatto io... Basta; ho fatto quello che ho potuto, e quel che ho fatto, Dio mi vede nel core, l'ho fatto sempre a bòn fine, e per aver voluto bene a tanti, che poi se m'hanno potuto far del male, se ne sono ingegnati». Si guardò le braccia, scosse la testa sorridendo malinconicamente, e con voce stanca continuò: «Mòio povero, ma se non mi fosse toccato altro, di questo me ne vanto, all'età di settant'anni sonati che mi trovo sul groppone, posso portare il cappello alto e dimolto; e tanti signori, ma proprio di quelli di garbo, quando m'incontrano per la strada non hanno scrupolo né punto né poco a fermarmi e a stringer la mano, come dicon loro, al vecchio galantòmo».
I quattro giovani a poco a poco si erano tirati con le seggiole intorno al focolare, fissando in silenzio con aria mista di curiosità e di trista compiacenza, l'abbronzata faccia del vecchio, ne' cui occhi, allorché riandava i tempi passati, guizzava agile e fiera un'ultima scintilla di fuoco giovanile. Ed anche la Carlotta, che dopo aver posata la bambina nella culla si era accostata al camino per mettere una palettata di fuoco nello scaldino, sentendo le ultime parole del vecchio, partecipò all'attenzione degli uomini, adagio adagio si pose a sedere sull'altra panca del camino, facendo macchinalmente la calza, e guardò il vecchio silenziosa ed attenta.
Batone, che aveva alquanto rallegrata la faccia rammentando gli anni della sua robustezza, ritornò cupo ad un tratto, e dopo esser rimasto alcuni momenti con la testa fra le mani, triste e silenzioso come coloro che si preparavano ad ascoltarlo, alzò la faccia sgomenta, e fissando lo sguardo sopra una seggiola disoccupata che era rimasta in un canto della stanza, parlò:
«L'Agnese voi altri l'avete conosciuta tutti».
«Se l'abbiamo conosciuta!»
«Era una buona creatura; ma si vede che era nata sotto cattiva luna. E su' primi tempi era stata anche fortunata. Sposò quel maniscalco, Giacinto delle Morette, che poi gli morì tisico: ma quando lo prese aveva fior di quattrini, salute da vendere e la bottega sempre piena, perché ferrava che, come lui, bisognava girare dimolte miglia eppoi fermarsi lì. E che bella sposa s'era fatta!»
«Bella!», disse Tonio.
«E che belle creature che aveva!», osservò la Carlotta.
«Povera figliola! era destinato che non se le dovesse godere», continuò Batone. «E quel che è vero bisogna dirlo, che per la su' bimbina maggiore ci aveva un gran debole; e si vede che Gesù benedetto la volle visitare, perché sul più bello, quando se la teneva come una reliquia, perché cominciava già a saper leggere quasi come il sor Annibale e a mettere in carta anche una lettera, la bolla gliela portò via come uno ruberebbe la pisside di sull'altare.»
Una zanzara s'era posata sulla fronte della piccina, la quale senza destarsi, alzò una manina e si percosse dove sentiva pinzare. E siccome la Carlotta si voltò a guardarla riscotendosi come se una vipera le fosse passata tra i piedi, Batone le disse:
«Dio voglia che tutti i su' mali somiglino a quello che gli ha fatto quell'animale».
«Dio lo voglia!», rispose la Carlotta, e si chinò sulla culla a respirare il fiato della sua creatura.
«Dunque, già», riprese Batone, «quella bambina gli morì... gli morì com'essere alle nove e mezzo di stamattina... Che giornata fu quella, ragazzi miei! voi altri eri a lavorare foravia e non ve lo potete mai figurare... Gli morì alle nove e mezzo, come dicevo, si messe subito a pulirsela e a vestirsela da sé, che Dio guardi a avergli detto: "Lasciate fare a noi"; alle due aveva finito d'accomodarla co' su' fiori del su' orto e ogni cosa, e mezzo minuto dopo la raccattavano giù nel mezzo di strada con la testa fracassata, che venne di sotto in un àmmenne a capo fitto a sbacchiare sulla breccia stesa d'allora. Il Signore abbia misericordia dell'anima sua!»
Batone tacque; nessuno degli ascoltatori disse parola, perché ognuno conosceva l'accaduto; soltanto si voltarono tutti in un tempo verso la porta contro la quale una folata di scirocco frustava la pioggia che veniva giù a torrenti. Si voltò anche Batone, e dopo aver dato un'occhiata alla solita seggiola:
«Era una serata come questa», proseguì. «Eccola laggiù! mi par d'averla sempre davanti agli occhi, Cencio, la mi' Rosa, la tu' povera mamma. Pareva che da un momento all'altro ci dovesse cascare la casa addosso... un vento! un'acqua! un buio!... Lei era lì in un cantuccio su quella seggiola laggiù colla spalliera troncata, che fra uno sbadiglio e l'altro dava de' punti alle toppe del mi' pastrano vecchio, e a ogni ventata più forte si scoteva e mi guardava e mi diceva: "Batone, o che sarà di noi? Dio ce la mandi bona! senti l'Arno come muglia! ho paura" E aveva ragione, poverina, perché in tempo che si discorreva aveva già strappato in du' posti e aveva già portato via la capanna di Natalino e tutte le cataste del sor Ippolito, che ci perse quasi più di trecento monete. "Lascia piovere, lascia", gli dissi; "siamo a mezzo novembre, e se non si sfoga ora sarà peggio poi. Piuttosto, guarda, mi viene in mente una cosa: se invece di rassettare cotesta calìa tu volessi ripigliar du' maglie alla bilancia, domattina di levata vorre' andar a far du' cale a bocca di rio per vedere se mi riesce buscare un par di paoli...". Allora c'era i paoli.
Si alzò, povera donna, prese la bilancia, si messe a riguardarla, e quando io che m'ero appisolato qui nel canto mi svegliai e sentii sonare la mezzanotte, lei era sempre lì che taroccava perché la rete era tanto vecchia che per ogni maglia ripresa gli se ne strappava due. "Lascia andare, Rosa", gli dissi, "se hai rassettato le buche più grosse me n'avanza; basta che mi regga le lasche d'oncia: in quanto alla frittura minuta, se ne piglierà quando avrò qualche paolo da comprare una bilancia nova." E ci avviammo a letto.
La mattina andai. Per la strada mi fermai all'Appalto a comprare una crazia di tabacco e quella pipa... Arrivo sul puntone, do un'occhiata all'Arno: faceva paura! Monto la mi' bilancia, accendo la mi' pipetta, e tutto contento mi metto a calare lì dalla farnia vecchia dell'arginello.
Avevo già fatto quattro o se' cale quando mi parve... Dio del cielo! altro che parere! Sentii una vocina sottile sottile come d'una ragazzetta che urlava: "Aiuto, aiuto! aff... affogo!" , e mi vedo venir contro, lesto come una saetta, un fagotto bigio che si svoltolava nell'acqua. Lasciare la fune della bilancia, levarmi gli scarponi e la cacciatora fu un baleno e, giù... Aaah! l'acqua era troppo ghiaccia. Per un momento mi sentii tutto come rattrappito dal granchio e almanaccavo di qua e di là, tanto per tenermi a galla, ma senza quasi sapere quello che mi facessi; quando a un tratto risento: "Aiuto, aiuto!", e ti vedo forse a un mezzo tiro di schioppo lei, in mezzo a un rèmolo che se la frullava in tondo come una penna, e che urlava da schiantare il core: "Oh, moio! oh, moio! mamma, mamma, moio!". Batone, hai sangue nelle vene? Tiralo fòri fino all'ultima gocciola perché ora è tempo.
Mi sentii una vampata al cervello; tutto il freddo che m'intirizziva si mutò in un bollore che mi pareva di prender foco, e mi sentii tornare nelle braccia la forza d'un liofante. Notavo com'un pesce e in quattro palate gli fui addosso. Lei che s'accorse d'avermi vicino, ricominciò a urlare più disperata che mai: "Salvatemi, salvatemi", e si storceva e allungava le mani per agguantarmi...».
«Vergine santissima!», esclamò la Carlotta rabbrividendo. Gli uomini tacevano e guardavano fissi la faccia del vecchio.
Nel calore del racconto, Batone si era alzato dalla sua panca e, ritto nel fondo del camino, sulla cui parete affumicata campeggiava la sua bruna figura scabra e robusta come il tronco d'un vecchio cerro, con una mimica più eloquente della rozza parola, così proseguiva il suo racconto:
«Subito che gli fui sopra: "Ferma!" gli urlai... "Ferma, ti salvo... Se non mi lasci andare, s'affoga... Per carità... ahi! ma fai male... mi strozzi!". Chi gli avesse dato quella forza non lo so. Con un braccio mi si avviticchiò al collo tanto strinta che mi faceva schizzar gli occhi di testa, e con quell'altra mano mi s'agguantò alla barba e me la tirava da farmi vedere le stelle. Per fortuna avevo sempre le braccia libere e alla peggio mi tenevo a galla.
In questo tempo la corrente ci aveva ripresi e ci volava via come fulmini. Io con quanta forza avevo, lavoravo per staccarmela, ma non c'era verso; la staccavo da una parte e mi si riattaccava da quell'altra; mi levava l'unghie dalla barba, e me le ficcava nelle gote e ne' capelli... A un tratto m'avvedo che la corrente ci portava a sbacchiare nella sassaia delle grotte! "Dio eterno! ecco la mi' ora, son morto, son morto!" E nello stesso tempo, come se fossi entrato nel ritrécine d'un mulino, mi sento svoltolato e sbatacchiato giù attraverso alle palafitte... E quella a stringermi più che mai! Nell'abbaruffarci mi s'imbrogliarono anche le gambe fra le sottane e in un batter d'occhio mi sentii tirare a capo fitto nel fondo, come se m'avessero legato una màcina al collo».
«Dio del cielo! e voi, babbo?», domandò Cencio spaventato.
«La disperazione mi prese; non vi saprei dire bene quello che feci; ma ho un barlume d'idea che gli strappai i vestiti, la morsi, mi spellai le mani e la faccia nelle pietre... A un tratto eccoci daccapo a galla! "Lasciami!" Dio eterno... nulla! Ebbi appena tempo di ripigliar fiato e daccapo giù... Quello che mi passò per la testa in que' momenti, non lo pòl sapere altro che chi ci s'è ritrovato. Mi pareva di scoppiare; sentivo un buratto negli orecchi e un frizzore negli occhi e nel naso come se mi ci fosse entrato dello zolfo. Pensai alla mi' Rosa, al mi' Cencio, al mi' cane, alla mi' bilancia, al mi' orto... Dio, Dio! che momenti, che momenti son quelli! Volevo urlare aiuto anch'io, ma tutte le volte che mi provavo mi pareva che mi tirassero una martellata nel capo, e sentivo la morte che veniva... Faccio un ultimo sforzo per liberarmi da quelle tenaglie... Angioli del paradiso! sento le braccia di quella creatura che m'abbandonano cionche...»
«Era morta?!»
«...e mi scivola via e non me la sento più accanto! Cercai, annaspai colle mani e co' piedi, ma nulla! Allora poi cominciai a sentire che non resistevo più; le forze se n'andavano, la memoria m'abbandonava e, Dio mi perdoni, non pensai più a lei; cercai di tornare a galla e mi riescì, ma rovinato e sfinito com'un moribondo, raccomandandomi l'anima perché ormai m'ero fatto perso.
A un tratto mi sento strisciar roba sul petto, l'agguanto, era un vergone di vétrice della ripa. Comincio a tirarmi su con quel po' di fiato che mi dava la disperazione quando mi vedo rammulinare d'intorno un ciuffo di capelli. Dio onnipotente! era lei, lì, a fior d'acqua, accanto a me! Agguantarla, rammucchiare quel po' di sangue che mi restava e tirarmela dietro sulla ripa fu tutt'una... Quello che feci dopo non lo so. La sera verso le sette mi trovai in casa di Bagnolino delle Steccaie sopra uno strapunto vicino al foco, e lì mi resero ogni cosa: le mi' scarpe, la cacciatora, la bilancia e quella pipa, ché avevan ritrovato tutto sul puntone, e mi dissero che era viva anche lei.»
«Ah! ma dunque?...»
«Era viva anche lei, povera Agnese!...»
«Agnese!»
«Lei; proprio lei! Che bella carità gli feci a salvarla, eh? Ma Dio c'è per tutti e avrà pensato anche a quell'anima sconsolata!», disse Batone, e ritornò a sedere in fondo alla sua panca, brontolando: «Com'è finita male! com'è finita male! e non se lo meritava... Il destino, il destino!». E per alcuni minuti rimase immobile col capo alto appoggiato alla mensola a guardare le faville che si perdevano crepitando su per il buio della cappa.
In questo tempo la Carlotta, dietro un cenno di Cencio, s'era alzata camminando in punta di piedi, e dopo aver messo sulla tavola sei bicchieri e un fiasco di vino, era ritornata al suo posto.
Batone la guardò, e:
«Carlotta, accèndimi il lume; voglio andare a letto».
«No, no!», dissero tutti insieme. «Un momento, Batone, cinque minuti soli; si vòl bere un bicchier di vino alla vostra salute, e voi dovete bere con noi, se no ci fate torto.»
E gli si accostarono porgendogli ognuno il proprio bicchiere colmo.
Batone non voleva parere, ma era commosso, e ricusò di bere finché, vinto dalla affettuosa insistenza dei giovani, prese in mano un bicchiere, lo alzò per guardarne la limpidezza attraverso al lume, ma il suo braccio tremava e nel portarselo alla bocca se lo versò mezzo giù per la barba.
«Ah! lo vedete?», disse indispettito, «non sono più bono a nulla. Lasciatemi stare, lasciatemi stare, giovinotti.»
«È allegria, Batone, è allegria! alla vostra salute!», e bevvero battendo insieme i bicchieri.
«Sì, sì; voi altri chiamatela allegria, e io la chiamo vecchiaia. Carlotta, il lume.»
Lo prese e, accompagnato dagli sguardi de' suoi giovani amici, con passo vacillante si allontanò nel fondo della stanza, grattandosi il capo e brontolando: «Eran diciott'anni che ci fumavo... E anche lei è finita... Com'è finita male! com'è finita male!».

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #57 il: 19 Marzo 2006, 13:03:37 »
Tolstoj Lev Nikolaevic

L'influenza di Tolstoj non solo come scrittore, ma come pensatore fù immensa. Comunità di "tolstoiani" si formarono allo scopo di vivere secondo i suoi precetti (ma saranno violentemente dispersi dopo la rivoluzione). In questo affresco sulle miserie della guerra la pipa rappresenta una breve parentesi di pace

I Racconti Di Sebastopoli

Un po' più in là si trova la grande piazza, sulla quale giacciono in disordine alcune travi di grosse dimensioni, supporti di cannoni, soldati immersi nel sonno; vi si trovano cavalli, carri, pezzi d'artiglieria verdi e casse di munizioni, cavalletti di fanteria; si muovono soldati, marinai, ufficiali, donne, bambini, mercanti; passano carri che trasportano fieno, sacchi e botti; qua e là passeranno un cosacco e un ufficiale a cavallo, un generale su una piccola carrozza. A destra la strada è cinta da una barricata, sulla quale, nelle feritoie, stanno ritti alcuni piccoli cannoni, e vicino ad essi siede un marinaio che fuma la pipa.
Forse incontrerete di nuovo, lungo questa trincea, una barella, un marinaio, dei soldati con badili, vedrete veicoli di mine, rifugi nel fango nei quali, chine, possono entrare solo due persone, e là vedrete i cosacchi esploratori dei battaglioni del Mar Nero, che vi si cambiano i calzari, mangiano, fumano la pipa, abitano.

Anzi, è molto probabile che l'ufficiale della marina, per vanagloria o semplicemente per togliersi una soddisfazione, vorrà sparare qualche colpo in vostra presenza. «Mandare l'artigliere e l'aiutante al cannone», e quattordici marinai, con sollecitudine, allegri, chi ficcandosi la pipa nella tasca, chi finendo di masticare una galletta, picchiettando con gli stivali ferrati sulla piattaforma, si recheranno al cannone e lo caricheranno.

All'uscita del padrone Nikita accese la pipa, chiese alla ragazza del padrone di casa di andare a prendere della vodka e, molto in fretta.

Vi trovò quattro soldati che fumavano la pipa, seduti su piccoli massi.
   «Che cosa fate qui?», gridò loro.
   «Stiamo portando via un ferito, vostra signoria, ci siamo seduti per riposarci un po'», rispose uno di essi, nascondendo la pipa dietro la schiena e togliendosi il cappello.

Ecco, l'audace soldato di fanteria, con la camicia rosa e il cappotto sulle spalle, accompagnato da altri soldati, che, mani dietro la schiena e volto allegro e curioso, stanno dietro di lui, si avvicina ad un francese e gli chiede del fuoco per accendersi la pipa.
   «Tabacco bun», dice il soldato con la camicia rosa, e gli spettatori sorridono.
   «Oui, bon tabac, tabac turc», dice il francese, «et chez vous tabac russe? Bon?».
   «Rus bun», dice il soldato con la camicia rosa, e alle sue parole i presenti scoppiano dalle risate. «Franse non è bun, bonžur, musjé», dice il soldato con la camicia rosa, esaurendo tutto il suo repertorio di conoscenze linguistiche, e dà colpetti in pancia al francese e ride. Anche i francesi ridono.
Tolstoj Lev Nikolaevic

L'influenza di Tolstoj non solo come scrittore, ma come pensatore fù immensa. Comunità di "tolstoiani" si formarono allo scopo di vivere secondo i suoi precetti (ma saranno violentemente dispersi dopo la rivoluzione). Resta tuttora uno degli autori più letti al mondo ,in questo affresco sulle miserie della guerra,la pipa significa un attimo molto breve di pace.

IRacconti Di Sebastopoli


Il soldato che passava scosse il capo pensieroso, fece uno schiocco con la lingua, poi prese la piccola pipa dal gambale, senza caricarla, grattò via il tabacco bruciato, accese un pezzettino di esca dal soldato che stava fumando e sollevò il berretto.
   «Non ci resta che Dio, signori! Addio!», disse e, dando uno scossone al sacco dietro la schiena, si incamminò per la strada.

L'attendente sedeva sotto il portico d'entrata e fumava la pipa. Andò a riferire al comandante del battaglione e introdusse Volodja nella camera. Qui, tra due finestre, sotto uno specchio rotto, stava un tavolo, riempito da carte dello stato, alcuni seggiolini ed una branda di ferro con lenzuola pulite e vicino un piccolo tappetino.

   «Dov'è il comandante del reggimento?», domandò Kozel'cov.
   «Nel rifugio, da quelli della marina, vostra signoria!», rispose il soldatino premuroso. «Prego, vi accompagno».
   Da una trincea all'altra il soldato condusse Kozel'cov al fossato di una trincea. Nel fossato sedeva un marinaio che fumava la pipa; dietro di lui si vedeva una porta, nella cui fessura si intravvedeva un lume acceso.
   «Si può entrare?»
   «Ora riferisco», e il marinaio oltrepassò la porta.
   Dietro la porta due voci parlavano. «Se la Prussia continuerà a restare neutrale», diceva una voce, «allora anche l'Austria...».
   «Ma che Austria», diceva l'altra, «quando i paesi slavi... su, prego».

   «Vlang, portatemi la mia pipa e riempitela», si rivolse allo junker, che subito corse con piacere a prendere la pipa. Kraut animò tutti, raccontò del bombardamento, domandò che cosa avessero fatto senza di lui, e chiacchierò con tutti.
               «Chiedete per voi Storno, Vladimir Semenyè», disse Vlang, tornato con la pipa di Kraut, «è un cavallo stupendo».

Volodja, invece, quando tutti i soldati si furono disposti lungo il muro sul pavimento, e alcuni ebbero acceso la pipa, piantò il proprio letto in un angolo, accese una candela e, dopo essersi acceso una sigaretta, si sdraiò sulla branda. Sopra il rifugio si udivano incessantemente gli spari, ma non molto rumorosi, a parte quelli di un cannone che era vicino e faceva tremare il rifugio in tal modo che dal soffitto cadeva la terra. Nel rifugio regnava il silenzio; solo i soldati, evitando ancora il nuovo ufficiale, di tanto in tanto si rivolgevano la parola, dicendosi di farsi da parte o chiedendo del fuoco per accendere la pipa; un topo raschiava da qualche parte fra le pietre.






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« Risposta #58 il: 19 Marzo 2006, 22:36:29 »
EDMONDO DE AMICIS

E anche se ormai il suo nome, nella mente di ogni lettore, è legato quasi esclusivamente al famigerato libro Cuore, De Amicis svolse anche una lunga e prolifica attività giornalistica, che lo portò ad analizzare con occhio attento e critico la realtà a lui contemporanea.
Una descrizione ed un'adorazione di pipe in bella mostra.

Costantinopoli

Per liberarsi da queste idee, non c’è che a svoltare nel bazar delle pipe. Qui l’immaginazione è ricondotta a desiderii più tranquilli. Sono fasci di cibuk di gelsomino, di ciliegio, d’acero e di rosaio; bocchini d’ambra gialla del mar Baltico, levigati e luccicanti come il cristallo, d’innumerevoli gradazioni di colore e di trasparenza, ornati di rubini e di diamanti; pipe di Cesarea, colla cannetta fasciata di fili d’oro e di seta; borse da tabacco del Libano, a losanghe di varii colori, rabescati di ricami splendenti; narghilè di cristallo di Boemia, d’acciaio e d’argento, di belle forme antiche, damaschinati, niellati, tempestati di pietre preziose, con tubi di marocchino scintillanti di dorature e d’anelli, fasciati nella bambagia, e perpetuamente custoditi da due occhi fissi, che all’avvicinarsi d’ogni curioso si dilatano come occhi di civetta, e fanno morir sulle labbra la richiesta del prezzo a chiunque non sia almeno vizir o pascià e non abbia dissanguato per qualche anno una provincia dell’Asia Minore. Qui non viene a comprare che il messo della Sultana che vuol dare un pegno di gratitudine al gran vizir arrendevole, o l’alto dignitario di Corte che, prendendo possesso della nuova carica, è costretto, per suo decoro, a spendere cinquanta mila lire in una rastrelliera di pipe; o l’ambasciatore del Sultano che vuol portare al Monarca europeo un ricordo splendido di Stambul. Il turco modesto dà uno sguardo malinconico e passa oltre, parafrasando, per consolarsi, la sentenza del Profeta: - il fuoco dell’inferno tuonerà come il muggito del cammello nel ventre di colui che fuma in una pipa d’oro o d’argento.

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« Risposta #59 il: 19 Marzo 2006, 22:51:14 »
Paolo Mantegazza

nacque a Monza nel 1831.
Studiò in un primo tempo a Milano, dove nel '48 partecipò alle Cinque Giornate. Seguì gli studi di medicina prima a Pisa, poi a Milano e quindi a Pavia. Una volta laureato viaggiò per l'Europa, poi nel 1854 si recò in Argentina dove esercitò la professione medica e dove si sposò.
Rientrato in Italia nel 1858, prestò dapprima servizio ospedaliero, e nel 1860, dopo un concorso per titoli ed esami, divenne ordinario di patologia generale presso l'Università di Pavia. Dieci anni dopo passò all'Istituto di Studi Superiori di Firenze come professore di antropologia, fondando il Museo antropologico-etnografico.
Nel 1865 fu eletto deputato al Parlamento e nel 1876 fu creato senatore del Regno.


Elogio della Vecchiaia

La pipa

Felice il vecchio, che non ha mai fumato e non invidia i fumatori; ma pur troppo gli amici del tabacco son molti, e tutta la popolosa schiera degli infelici, dei malcontenti, degli annoiati trova nella nicoziana un conforto, una sorgente feconda di piccole gioie.
Fra i fumatori, nessuno fuma meglio né con arte più epicurea del vecchio.
Se preferisce la pipa, ha per essa un culto, un'adorazione, che non si suole avere che per le cose più sante.
Nessuno l'ha a toccare fuori che lui, nessuno la deve ripulire e tener tersa e lucente fuor di lui.
La pipa è per lui quasi una creatura viva, appunto perché vive con lui, accompagnandone i pensieri, i ricordi, le voluttuose sonnolenze.
È anche per questo, che preferisce fumare nella solitudine della sua cameretta o della sua passeggiata.
Due quadri della vita umana ho veduto spesso, in apparenza molto diversi, in sostanza molto simili: una mamma che lava il proprio bambino, un vecchio che ripulisce la propria pipa.
E le mamme non gridino al sacrilegio, perché nel mondo dei viventi non v'ha fibra o cellula, che non si con leghi per nervi invisibili alle fibre e alle cellule le più lontane.
La mamma amorosa contempla il suo angioletto e lo ammira e ne segue con l'occhio e con la mano purificatrice i rosei contorni, palleggiandone le soavi rotondità, giuocherellando con le membra minute, che guizzano e saltellano nell'onda amica. È una tempesta di carezze e di baci che copre il ciangottar dell'acqua; è una profonda sensualità delle mani, che accarezzano, che palpano e direi quasi che parlano con le carni tenerelle e fresche. Carni belle e palpitanti di vita e che son carni della mamma, perché le ha fatte lei e le ricordano tutto un mondo di voluttà ardenti, di lunghi dolori, di lunghissime trepidazioni.
E il vecchio ha la sua pipa, che per quanto fragile, ha già dieci anni di vita vissuti senza ferite e senza accidenti, ma con molto onore; dacché le zone del tempo che fu vi hanno scritto la loro storia in tante ondette, che dal bianco dorato vanno fino al nero dell'ebano. Quanto fumo è passato attraverso i pori di quella lucidissima pietra e quante dolci meditazioni hanno accompagnato quel fumo! In quelle tinte di ambra, di magogano, di noce, il vecchio ripensa mille pensieri giocondi e le tante ore vissute senza dolore e senz'ira.
E quando la cava dal suo astuccio e la ripulisce cautamente, pazientemente, rispettando le carezze del tempo, ma levando ogni granello di cenere e passando e ripassando per il fornello, per il tubo e levigando l'ambra e rimettendola in assetto di guerra, prova un gran piacere, che ai non fumatori può sembrare puerile, ma ai veri artisti della nicoziana è tutto un poema.
Chi ha veduto nella buvette del Senato il generale Durando con la sua eterna pipetta di gesso in mano e l'ha seguito nelle amorose cure che le prestava, può intendere le infinite compiacenze del vecchio fumatore, i suoi tanti e lunghi colloqui con la sua cara compagna di schiuma o di gesso.
Anche per il sigaro il vecchio può aver moine e carezze, ma la poesia è molto minore, perché si rivolge a una creatura che vive un quarto d'ora.
Il sigaro è un amore di passaggio, la pipa è un'amante, anzi una moglie; ma una moglie rimasta sempre amante.
La mano alquanto tremula, che sfila un Virginia e vi passa e ripassa la fida paglia, che gli ha tenuto lunga compagnia, è una mano che gode.
La mano che taglia la punta di un biondo e nervoso Avana, è una mano felice, perché promette al vecchio epicureo sogni e profumi.
Ma Virginia e Avana sfumano fumando e di loro ahimé non rimane che un po' di cenere; mentre la pipa, dopo averci offerto l'olocausto del suo altare, rimane nel nostro taschino accanto al cuore; tiepida dell'ultimo fiato, promettitrice di altre gioie future, fino all'infinito.

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