La pipa nella letteratura > Gli autori ispirati dalle volute di fumo....

Autori con la pipa in bocca

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Aqualong:
Biografia di Giorgio Bassani
(1916 - 2000)
"Come scrittore ho sempre guardato più all'800 che al '900": in queste parole, è racchiusa la chiave di volta per accedere all'universo di Giorgio Bassani e, anche, per comprendere la non positiva accoglienza riservata da parte della critica ai suoi lavori, all'epoca dell'uscita. L'opera dello scrittore bolognese, infatti, nell'ambito della narrativa nostrana tra il 1945 ed i primi anni '60, segna l'inizio d'una fase di restaurazione, il transito dal modulo neorealistico al registro elegiaco: un ripiegamento nel privato, in definitiva, un tuffo nella nostalgia e nel ricordo, indice d'un palese distacco dalla dimensione dell'impegno.
 - ha inteso rappresentare abitudini e mentalità della comunità israelitica benestante di Ferrara. Detta località è centrale nei suoi scritti.
Grande fumatore di pipa.


"Il Giardino dei Finzi Contini"  



Quando, quel sabato pomeriggio, sbucai in fondo a corso Ercole I (evitati la Giovecca e il centro, provenivo dalla non lontana piazza della Certosa), mi accorsi immediata-mente che davanti al portone di casa Finzi-Contini sostava all'ombra un piccolo gruppo di tennisti. Erano in cinque, anche loro in bicicletta: quattro ragazzi e una ragazza. Le labbra mi si piegarono in una smorfia di disappunto. Che gente era? Tranne uno che non conoscevo neppure di vista, un tipo più anziano, sui venticinque, con pipa fra i denti, calzoni lunghi di lino bianco e giacca di fustagno marrone, gli altri, tutti quanti in pullover colorati e in pantaloncini corti, avevano proprio l'aria di essere frequentatori abituali dell'Eleonora d'Este. Arrivati da qualche momento, aspettavano di poter entrare. Ma siccome il porto-ne tardava ad aprirsi, ogni tanto, in segno di allegra protesta, cessavano di parlare ad alta voce e di ridere per mettersi a suonare ritmicamente i campanelli delle biciclette.

 Comunque sia, mai che le sue assenze durassero più di due giorni filati. E d'altronde era anche l'unico, lui, oltre a me, che a giocare a tennis non mostrasse di tenere eccessivamente (per la verità giocava piuttosto male), talora accontentandosi, quando compariva in bicicletta verso le cinque, dopo il laboratorio, di arbitrare una partita odi sedere in disparte con Alberto a fumare la pipa e a conversare.

Era un bel musone, va' là: e neanche tanto originale come aveva l'aria di ritenersi. Volevo scommettere che, opportunamente interrogato, a un certo punto sarebbe uscito fuori a dichiarare che lui in abiti da città si sentiva a disagio, ad essi in ogni caso preferendo la giacca a vento, le braghe alla zuava, gli scarponi degli immancabili week-ends sul Mortaione o sul Rosa? La fedele pipa, a questo proposito, era parecchio rivelatrice: valeva tutto un programma di austerità maschile e subalpina, tutta una bandiera.

Era un bel musone, va' là: e neanche tanto originale come aveva l'aria di ritenersi. Volevo scommettere che, opportunamente interrogato, a un certo punto sarebbe uscito fuori a dichiarare che lui in abiti da città si sentiva a disagio, ad essi in ogni caso preferendo la giacca a vento, le braghe alla zuava, gli scarponi degli immancabili week-ends sul Mortaio-ne o sul Rosa? La fedele pipa, a questo proposito, era parecchio rivelatrice: valeva tutto un programma di austerità maschile e subalpina, tutta una bandiera.

Stava sprofondato in una poltrona. Se ne sollevò puntando entrambe le mani sui braccioli, si mise in piedi, posò il libro che stava leggendo, aperto e col dorso in alto, sopra un basso tavolinetto accanto, infine mi venne incontro.
Indossava un paio di pantaloni di vigogna grigi, uno dei suoi bei pullover color foglia secca, scarpe inglesi marrone (erano Dawson autentiche, ebbe poi modo di dirmi: le trovava a Milano in un negozietto vicino a San Babila), una camicia di flanella aperta sul collo senza cravatta, e aveva fra i denti la pipa. Mi strinse la mano senza eccessiva cordialità. Intanto fissava un punto oltre la mia spalla. Cos'era ad attirare la sua attenzione? Non capivo.
«Scusa» mormorò.

Ciò nondimeno, a partire dalla prima volta che m'ero seduto dinanzi a lui, nello studio di Alberto, avevo avuto un desiderio solo: che mi stimasse, che non mi considerasse un intruso fra sé e Alberto, che infine non giudicasse mal assortito il trio quotidiano nel quale, certo non per sua iniziativa, si era trovato imbarcato. Credo che l'adozione anche da parte mia della pipa risalga proprio a quell'epoca.

Sono persuaso tuttavia che a diffondere nella stanza quel senso di vaga oppressione che vi si respirava fosse proprio lui col suo ordine meticoloso, con le sue caute iniziative imprevedibili, coi suoi stratagemmi. Bastava, non so, che nelle pause della conversazione cominciasse a illustrare le virtù della poltrona sulla quale sedevo, il cui schienale «garanti-va» alle vertebre la posizione «anatomicamente» più corretta e vantaggiosa; oppure, offrendomi aperta la piccola borsa di pella scura del tabacco da pipa, che mi ricordasse le varie qualità di trinciato a suo parere indispensabili perché dalle nostre Dunhill e GBD si ricavasse l'ottimo dei rendi-menti (tanto di dolce, tanto di forte, tanto di Maryland); ovvero che per motivi non mai ben chiari, noti a lui solo, annunciasse con un vago sorriso, alzando il mento verso il radiogrammofono, la temporanea esclusione del suono di qualcuno degli altoparlanti: in ciascuna di tali o simili circo-stanze lo scatto di nervi era da parte mia sempre in agguato, sempre lì lì per scoppiare.

«Comunque, quest'inverno niente» soggiunse sorridendo: «potrei anche giurartelo. Non ho fatto altro che studia-re e fumare, tanto che era la signorina Blumenfeld, proprio lei, a spronarmi a uscire».
Tirò fuori da sotto il guanciale un pacchetto di Lucky Strike, intatto.
«Ne vuoi una? Come vedi, ho cominciato dal genere forti.»
Indicai in silenzio la pipa che tenevo infilata nel taschino della giacca.
«Anche tu!» rise, straordinariamente divertita. «Ma quel vostro Crampi gli scolari li semina!»
«E tu che ti lamentavi di non avere amici a Venezia!» deplorai. «Quante bugie. Sei anche tu come tutte le altre, va' là.»

Mangiavamo sempre molto lentamente. Restavamo a tavola fino a tardi, bevendo Lambrusco e vinello di Bosco e fumando la pipa. Nel caso però che avessimo cenato in città, a un certo punto posavamo i tovaglioli, pagavamo ognuno il proprio conto, e quindi, tirandoci dietro le biciclette, cominciavamo a passeggiare lungo la Giovecca, su e giù dal Castello alla Prospettiva, oppure lungo viale Cavour, dal Castello fino alla stazione. Era poi lui, in genere sulla mezzanotte, a offrirsi di riaccompagnarmi a casa. Dava un'occhiata all'orologio, annunciava che era tempo di filare a dormire (anche se la sirena della fabbrica per loro «tecnici» non suonava che alle otto - soggiungeva spesso, solenne - i piedi giù dal letto bisognava sempre metterli alle sei e tre quarti «come minimo ....), e per quanto insistessi, a volte, per riaccompagnarlo io, non c'era mai modo che me lo permettesse. L'ultima immagine che mi rimaneva di lui era invariabilmente la medesima: fermo in mezzo alla strada a cavallo della bicicletta, stava lì ad aspettare che gli avessi chiuso ben bene il portone in faccia.

Fece con la mano un gesto vago, e uscì in una breve risata.
«Non pensare a me» soggiunse. «Va' pur su, che ti aspetto.»
Tutto si svolse molto rapidamente. Quando tornammo da basso, Malnate stava chiacchierando con la tenutaria. Aveva tirato fuori la pipa: parlava e fumava. Si informava del «trattamento economico» riservato alle prostitute, del «meccanismo» del loro avvicendamento quindicinale, del «controllo medico», eccetera e la donna gli rispondeva con pari impegno e serietà.
«Bon» disse infine Malnate, accortosi della mia presenza, e si alzò in piedi.
Passammo nell'anticamera, diretti verso le biciclette che avevamo accostato una sull'altra alla parete di fianco all'u-scio di strada, mentre la tenutaria, diventata ormai molto gentile, correva avanti ad aprire.
«Arrivederci» la salutò Malnate.
Mise una moneta sul palmo proteso della portinaia, e uscì fuori per primo.
Gisella era rimasta indietro.

Cristiano:

--- Citazione da: "Aqualong" ---Una faticaccia!
 :D  :D  8)
--- Termina citazione ---
ma ne è uscito un manifesto programmatico... la austerità subalpina mi piace assai

Cristiano:
un piccolo segno di apprezzamento per l'opera che sta facendo Enzo

http://www.cristianociani.splinder.com

Aqualong:
Honoré de Balzac

Nato a Tours nel 1799 da una famiglia della media borghesia. Solo nel 1830 aggiungerà il "de" al cognome. Il padre era stato segretario del consiglio del re durante l'Ancien régime, fu poi capo della sussistenza della XXII divisione militare di Tours. La madre proveniva da una famiglia di commercianti.
Iniziò gli studi di giurisprudenza, e si impiegò come scrivano prima presso un avvocato, poi da un notaio.Come scrittore segue la moda e il gusto piccolo-borghese. Si prova con romanzi rocamboleschi e fantastici, senza firmarli. Tutti i suoi tentativi commerciali fallirono, si ritrovò a trent'anni al punto di partenza e coperto di debiti. Il successo giunse grazie a "Gli Sciuani" (1829) e allo scandalo del saggio "La fisiologia del matrimonio" (1830). Da allora si affermò stabilmente sulla scena pubblica francese, come giornalista e romanziere.Si sposò il 14 marzo 1850 sopravvisse solo qualche mese alle nozze. Morì a Parigi, nella lussuosa casa di rue Fortunée (ora rue Balzac), la sera del 18 agosto 1850.

Nei sue narrazioni simili ad affreschi la pipa compare spesso ,ma come elemento di atmosfera.

Il medico di campagna

Il medico e il comandante si guardarono attentamente intorno, ma videro soltanto il badile, la zappa, la carriola, il pastrano militare di Gondrin vicino a un mucchio di melma nera. Nessuna traccia dell'uomo nei solchi sassosi della montagna lungo i quali scorrevano le acque simili a rughe capricciose seminascoste tra bassi cespugli.
   «Non può esser molto lontano. Ohe, Gondrin!», chiamò Benassis. Genestas vide allora in mezzo alla vegetazione di una frana un filo di fumo che si alzava da una pipa e lo indicò col dito al medico, che ripeté il suo richiamo. Il vecchio pontiere sporse allora il capo in avanti, riconobbe il sindaco e venne giù per un viottolo.
   «Ehi là, vecchio mio», gridò Benassis atteggiando la mano come a formare una specie di cornetto acustico, «qui c'è un tuo compagno d'armi, un «Egiziano» che vuole conoscerti».
   Gondrin alzò prontamente la testa verso Genestas con quello sguardo rapido e investigatore che i veterani hanno preso dall'abitudine di rendersi rapidamente conto del pericolo. Vista la rossa coccarda del comandante, portò in silenzio il dorso della mano alla fronte.


«Se il «pelatino» vivesse ancora», disse l'ufficiale, «avresti la tua croce e una bella pensione, perché hai salvato la vita a tutti quelli che oggi portano spalline e che il 1° ottobre del 1812 erano dall'altra parte del fiume. Senonché, amico mio», aggiunse smontando da cavallo e prendendogli la mano con improvvisa commozione, «io non sono il ministro della guerra».
   A queste parole, il vecchio pontiere, dopo aver vuotato e riposto la pipa, si drizzò sulla schiena e disse scuotendo il capo: «Ho fatto solo il mio dovere, signor comandante, ma gli altri non hanno fatto lo stesso con me. Mi hanno chiesto i documenti! I miei documenti, ho detto, sono il ventinovesimo bollettino».

Aveva diciassette anni, era bianca come la neve, occhi di velluto, sopracciglia nere come code di topo, capelli lucenti, folti, che facevano venir voglia di scompigliarli, una creatura davvero perfetta! Fui io il primo ad accorgermi di quella magnifica roba nascosta in cantina, una sera che, mentre tutti mi credevano a letto, passeggiavo sulla strada fumando tranquillamente la pipa. Quei ragazzi brulicavano, l'uno addosso all'altro, come una cucciolata, una cosa buffa! Il padre e la madre mangiavano insieme a loro. A forza di guardare, scoprii, in mezzo alle nuvole di fumo che faceva il padre con le sue zaffate di tabacco, la giovane ebrea che se ne stava là come un napoleone nuovo in un mucchio di soldoni. Io, caro Benassis, non ho mai avuto il tempo di riflettere molto sull'amore. Tuttavia, quando vidi quella fanciulla, capii che fino ad allora non avevo fatto altro che assecondare la natura, mentre quella volta era in giuoco tutto, il cervello, il cuore e il resto. Presi dunque una formidabile cotta, oh, sul serio! Restai là a fumare la pipa e a guardare l'ebrea fino a quando ella non soffiò sulla candela e se ne andò a letto. Impossibile chiudere occhio! Passai la notte a caricare la pipa e a fumare, camminando su e giù per la strada. Una cosa che non mi era mai accaduta! Fu l'unica volta in vita mia che pensai al matrimonio.

«Quando tornai nella mia camera, trovai Renard tutto indaffarato. Credendomi ucciso in duello, stava pulendo le pistole, con l'intenzione di piantar grane a chi mi aveva mandato all'altro mondo... Oh, ma vedete che razza di tipo! Confidai a Renard il mio amore e gli mostrai la cuccia dei ragazzi. Poiché Renard capiva il dialetto di quei cinesi, lo pregai di aiutarmi a fare la mia richiesta ai genitori e a mettermi in contatto con Judith. Lei si chiamava Judith. Insomma, fui per quindici giorni il più felice degli uomini, perché tutte le sere l'ebreo e sua moglie ci fecero cenare insieme alla ragazza. Voi sapete come vanno queste cose e non occorre dica più niente; ma se non vi piace fumare, non potete immaginare il gusto che prova un galantuomo a fumare tranquillamente la pipa col suo amico Renard e il padre della fanciulla, contemplando la sua bella.

Mentre io andavo in estasi e navigavo sulle nuvole guardandola, il mio Renard, che non per niente aveva quel nome, state bene a sentire, faceva il lavoro sotto terra; il vigliacco se l'intendeva con la ragazza, e così bene, che si sposarono secondo le usanze locali perché i permessi avrebbero tardato troppo a venire, ma promise di sposarla secondo la legge francese se per caso il matrimonio non fosse stato riconosciuto. Fatto si è che più tardi, in Francia, la signora Renard ridiventò la signorina Judith. Se io avessi saputo tutto questo affare avrei fatto fuori subito Renard, senza dargli il tempo di fiatare; ma padre, madre, figlia e il mio maresciallo di sussistenza, tutti se l'intendevano come una mafia. Mentre io fumavo la pipa, mentre adoravo Judith



Cristiano:
proverei Thomas Mann e Remarque

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