Autore Topic: Il fumatore di pipa  (Letto 208857 volte)

Offline StefanoG

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #135 il: 28 Gennaio 2013, 12:56:22 »
Di Lui " Marcel Duchamp " è stato scritto anche .....

Nel 1955, in una celebre conversazione filmata con James Johnson Sweeney, allora direttore del Guggenheim di New York, Marcel Duchamp racconta cosa lo ha portato nel 1941 a realizzare la Boîte-en-valise, il suo museo portatile in scatola: “cercavo un nuova forma di espressione […] non sapevo come regolarmi. Pensavo a un libro ma quest’idea non mi piaceva”.
 Duchamp sembra fuggire da ogni forma di sistematizzazione della propria opera, preferendo la strada dei riferimenti a spirale, delle notazioni discontinue e delle dichiarazioni frammentarie, aperte. Questo disinteresse (quantomeno apparente perché sappiamo della grande attenzione con cui ha seguito la preparazione della prima monografia a lui dedicata da Robert Lebel tra il 1953 e il 1957 e del continuo interessamento per la destinazione “finale” delle sue opere, che ha permesso la costituzione del nucleo conservato ora a Philadelphia) è stato il primo grande stimolo alla proliferazione di saggi che hanno cercato di trovare una via di accesso al multiforme mondo di Marcel Duchamp.
 Partendo dall’evidente e indissolubile rapporto tra la vita e le opere dell’artista, alcuni studiosi hanno scelto di seguire una interpretazione a doppio registro. Così ha fatto Achille Bonito Oliva con il suo A.B.O.: M.D. (Costa & Nolan, Milano 1997) – tra l’altro mettendosi duchampianamente in gioco in prima persona – accompagnando i saggi con un ricco apparato iconografico, in cui significativamente sono mescolate fotografie della vita di Marcel Duchamp, le immagini dei luoghi dove ha vissuto e le sue opere, senza alcuna apparente differenziazione.
 La biografia firmata da Bernard Marcadé, recentemente tradotta in italiano per Johan & Levi, ha il grande pregio di contestualizzare le affermazioni, i testi, i commenti, gli aneddoti che sono sempre raccontati, citati, ripescati e spesso decontestualizzati, in una sequenza cronologica lineare, comprensibile. Raccontata nel tono asciutto ma curioso dell’autore, che ha costruito la narrazione attraverso un collage filologico di dichiarazioni e documenti, la “vita a credito” di Marcel Duchamp scorre nelle righe del libro con precisa leggerezza. Senza indugiare sulle lunghe interpretazioni ibride, gli interrogativi non risolti, l’autore ha privilegiato il racconto piano, pacato, che ha il tono del distacco per il quale Duchamp stesso era rinomato e lascia spazio alla corretta distanza cronologica tra azioni, eventi e riflessione teorica.
 Insieme agli avvenimenti della vita dell’artista, Marcadé segue il filo dei suoi interessi, delle letture (l’amore per le poesie di Jules Laforgue e l’influenza delle Impressions d’Afrique di Raymond Roussel; l’interesse per l’individualismo radicale di Max Stirner e per il “diritto alla pigrizia” di Paul Laforgue), rintracciando le radici delle idee che hanno guidato le sue scelte: dal rigoroso rispetto della compenetrazione dei contrari e della “logica non esclusiva”, alla scelta di una radicale “libertà d’indifferenza”, condizione alla base dell’indifferenza visiva del readymade, la speculazione attorno all’“infra-mince”, l’infrasottile distanza tra le copie, il profondo antimilitarismo.
 Dal contesto provinciale borghese della cittadina della Normandia in cui Duchamp nasce e cresce, al primo soggiorno parigino con i rapporti difficili con l’avanguardia e i legami con i fratelli, gli esordi in sordina e “i bruttissimi nudi” che Apollinaire vede in una mostra del 1910, la sua amicizia con Picabia e la moglie, il soggiorno solitario a Monaco, l’arrivo a New York nel 1915 che l’accoglie come l’artista-scandalo del Nu descendant un escalier e la nascita del sodalizio con Louise e Walter Arensberg, i mesi a Buenos Aires, il ritorno a Parigi nel 1919 e l’incontro con Breton; poi la vita divisa continuamente tra un continente e l’altro. Gli anni più silenziosi, cupi della vita di Duchamp, fino alla rinnovata serenità dell’ultimo periodo, con la moglie Teeny, il successo tributatogli dagli artisti delle nuove generazioni e la morte improvvisa, rapida, avvenuta a Parigi dopo una cena a casa con Man Ray e Robert Lebel, amici di sempre, nel 1968.
 Mentre sullo sfondo scorrono gli avvenimenti cruciali della prima metà del XX secolo, Duchamp escogita diversi modi per trovarsi da vivere – “per poter non dipendere dalla mia pittura” dice al tempo del suo primo soggiorno parigino, quando lavora come bibliotecario alla Sainte-Geneviève – divenendo di volta in volta disegnatore di vignette umoristiche, creatore di calembour, editore, insegnante di francese per ricche signore newyorkesi – di un francese spesso indecente, ricco di termini slang -, proprietario di una tintoria a New York e contemporaneamente scrupoloso e diligentissimo mercante e agente di Brancusi, book designer, curatore di mostre, giocatore di scacchi dallo stile “onesto e serio, con una freddezza imperturbabile”, ideatore di un sistema di puntate “infallibile” a Monte Carlo – “per costringere la roulette a diventare un gioco di scacchi” – che si dimostra del tutto inefficace. Scegliendo di vivere con il minor dispendio possibile – perché “vivere è una questione di quanto si spende, non tanto di quanto si riesce a fare”, ma anche perché “in me c’era un fondo enorme di pigrizia. Preferisco vivere, respirare, piuttosto che lavorare” – usa studi del tutto anonimi, quasi semplici “allevamenti di polvere”; ama il buon cibo, ma finisce con il nutrirsi il più delle volte con crackers e tavolette di cioccolato svizzero.
 
Dicono di lui, soprattutto le donne, che fosse un uomo di grande fascino: “bello da non crederci, dotato di un potere di seduzione estremo di cui si serve senza mai abusare, e soprattutto senza accorgersene, di una cortesia come non si usa più”, forse solo un po’ freddo, distante “molto elegante, curato, dava sempre l’impressione di essere appena uscito da una scatola, impacchettato”. Ettie Stettheimer, nella descrizione del pittore Pierre Delaire – personaggio direttamente ispirato a Duchamp del suo romanzo Love Day – racconta che “il suo discreto e delicato classicismo, dall’impronta ironica e cerebrale, pareva possedere della bellezza tutto fuorché il palpito suo proprio”. Pur essendo l’erotismo – in termini filosofici, alchemici o persino pawloskiani – tema e strumento ricorrente nella produzione duchampiana – “voglio afferrare le cose con la mente come il pene è afferrato dalla vagina” – egli è deciso a non crearsi rapporti stabili, almeno in giovinezza. “Esporre sa tanto di sposare” scrive a Jean Crotti negando simultaneamente la possibilità di entrambe le cose. Le donne scorrono sulle pagine del libro senza lasciare tracce profonde: Beatrice Wood, Elsa von Freytag, la stravagante animatrice dell’avanguardia newyorkese disperatamente attratta da Marcel, Ettie Stettheimer, – che scrive ironicamente a Duchamp “vorrei essere su misura per te, per te / Ma sono un readymade per natura, perché, perché?”, Mary Reynolds, Peggy Guggenheim. Traspare una vera passione solo nella corrispondenza con la scultrice brasiliana Maria Martins, modella e musa nei primi anni di Étant Donnés, quando – forse non a caso – la sposa parrebbe aver incontrato il celibe, al di là del grande vetro.
 
La biografia termina proprio con Denise Browne Hare che fotografa Étant Donnés, lavoro realizzato in gran segreto negli ultimi venti anni di vita dell’artista, nello studio di New York, e con le considerazioni di apertura del Manual of Instructions in cui sono spiegate le modalità per riallestire il lavoro al Philadelphia Museum of Art.
 Inevitabilmente la storia di Duchamp prosegue oltre la morte: il disvelamento del suo ultimo lavoro, che deve il titolo a una delle annotazioni più importanti della Boîte Verte (l’insieme di documenti pubblicato da Duchamp nel 1934 come una sorta di guida al Grand Verre), ha prodotto reazioni e profonde riletture dell’intera opera dell’artista. Solo per citare alcuni dei saggi più celebri, entrambi focalizzati sul rapporto tra i due grandi capolavori duchampiani: il testo di Octavio Paz per il catalogo della prima mostra al Philadelphia Museum of Art del 1973, ampliato nel volume Apariencia desnuda (edizione originale Era, Mexico 1973; versione italiana Apparenza Nuda, Abscondita, Milano 2000 con traduzione di Elena Carpi Schirone) e i vari articoli di Jean-François Lyotard, raccolti in Le transformateurs Duchamp (edizione originale Editions Galilée, Parigi 1977; versione italiana: I TRANSformatori Duchamp, Hestia, Como 1997 con traduzione di Elio Grazioli).
 
A quarant’anni dalla celebre mostra in cui per la prima volta l’ultima opera di Duchamp è stata resa pubblica, il Museo di Philadelphia ha realizzato una nuova esposizione, conclusasi lo scorso novembre, in cui sono stati riuniti un centinaio di lavori con una ventina di inediti, fra cui stampe e note dell’artista e le settanta Polaroid di Denise Browne Hare. Nel catalogo sono pubblicati recenti saggi sulla storia e sulla costruzione del lavoro, sono analizzate con profondità le reazioni seguite al suo disvelamento e l’ascendente che questo primo environment ha avuto su artisti come Ray Johnson, Hannah Wilke, Robert Gober, Marcel Dzama. Inevitabilmente l’ultimo capitolo di questa storia sembrerebbe essere costituito dall’eredità ricca e ingombrante, e duchampianamente contraddittoria, lasciata alle nuove generazioni. Se è vero che gli artisti contemporanei – per usare le parole di Picasso – “svaligiano il magazzino di Duchamp limitandosi a cambiare gli imballaggi” e che persino Beuys per reagire all’ostinata libertà d’indifferenza nel 1964 ha realizzato l’azione The Silence of Marcel Duchamp is Overrated, Jeff Wall ha riconosciuto l’ambivalenza di questa eredità, affermando che proprio Étant Donnés, scoperto nel 1969 – anno di punta dell’esperienza concettuale – rappresenta la via d’uscita dalla negazione operata dal readymade, dalla questione della possibilità o dell’impossibilità dell’opera d’arte. In fin dei conti, come ha detto John Cage, “resta sempre il rischio che [Marcel Duchamp] esca dalla valigia dentro cui l’abbiamo messo”.
 
di orsola mileti

Tratto da Cura magazine

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rais

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #136 il: 28 Gennaio 2013, 12:58:41 »
Stai dando vita ad una bella bibliografia insolita.
Complimenti davvero !!

PS = quando avrò più tempo leggerò (ma forse è meglio stampare) con calma.

Offline StefanoG

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #137 il: 28 Gennaio 2013, 14:05:21 »
Grazie rais  ;D
Spero possa essere un arricchimento per il forum/club e, cosa d'interesse, che possa servire qualcuno e intrattenere qualcun'altro.
Io per primo, mi sto divertendo nel compiere questa ricerca e, nel leggere notizie inerenti soggetti da inserire qui....

Offline StefanoG

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #138 il: 28 Gennaio 2013, 14:20:29 »
MIRCEA  ELIADE

Mircea Eliade (Bucarest, 13 marzo 1907 – Chicago, 22 aprile 1986)

............è stato uno storico delle religioni e, scrittore rumeno, forse più di tutto è stato un sociologo.


Uomo di cultura vastissima e di straordinaria erudizione, grande viaggiatore, parlava e scriveva correntemente otto lingue: rumeno, francese, tedesco, italiano, inglese, ebraico, persiano e... sanscrito.

Egli riteneva molto importante questo concetto, su tutti :  sottolinea  la differenza tra il tempo sacro e quello profano: mentre il secondo è in sé una durata evanescente, che assume un senso solo quando diventa momento di rivelazione del sacro, il primo è un susseguirsi di eternità periodicamente recuperabili durante le feste che costituiscono il calendario sacro: esso si configura perciò come un eterno ritorno. Eliade insiste anche sul valore archetipico del mito, che costituisce il modello e l'esempio per tutte le azioni umane e per tutta la realtà: le vicende cosmiche e storiche hanno quindi significato in quanto ripetono e riattualizzano la realtà sacra del tempo primordiale.

Figlio di un capitano dell'esercito, a 14 anni pubblicò il suo primo romanzo, "Come ho scoperto la pietra filosofale".
Nel 1925 si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia all'Università di Bucarest.
Furono, quelli, anni di incontri e di viaggi: Emil Cioran (che nel 1986 gli dedicherà uno dei suoi Exercises d'admiration) e Eugène Ionesco, con i quali mantenne una lunga amicizia.
Affascinato dalla cultura italiana e dal pensiero di Giovanni Papini (fino al punto di imparare l'italiano per leggerne le opere), soggiornò in Italia nel 1927 e nel 1928. Nel 1927 si impegnò attivamente nella "Nuova Generazione Romena": i suoi articoli di questo periodo contribuirono a formare l'assetto teorico della Guardia di ferro[1], movimento ultranazionalista di ispirazione fascista e dalla forte connotazione antisemita. Criticò l'Illuminismo, la massoneria, i regimi democratici "di importazione straniera" e il bolscevismo, e auspicò l'"insurrezione etnica" contro le minoranze locali e il pericolo di un'"invasione ebrea".
Dopo la laurea in filosofia con una tesi su La filosofia italiana da Marsilio Ficino a Giordano Bruno vinse una borsa di studio per studiare a Calcutta la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta. Il viaggio in India durò dal novembre 1929 al dicembre 1931, avendo come sede principale Calcutta (dove Eliade cominciò a studiare il sanscrito), ma comprendendo anche un viaggio e soggiorno in un ashram dell'Himalaya. L'esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell'India influenzarono e orientarono profondamente il suo pensiero. Fu qui che preparò la sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933, pubblicata a Parigi nel 1936 con il titolo Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne, che diventerà poi Lo yoga, immortalità e libertà.
Dal 1933 al 1940 insegnò filosofia all'università di Bucarest e svolse un'intensa attività editoriale, pubblicando vari romanzi e saggi. Fu in questo periodo che, per la sua amicizia con Nae Ionescu, si legò all'organizzazione di estrema destra Guardia di ferro, formazione nazionalista in cui vedeva "una rivoluzione cristiana per una nuova Romania" e un gruppo "in grado di riconciliare la Romania con Dio".
Scrisse anche alcuni articoli per i giornali nazionalisti Sfarmă Piatră e Buna Vestire in elogio dei leader della Guardia di ferro Corneliu Zelea Codreanu, Ion Moţa e Vasile Marin.
Nel 1937 incontrò Julius Evola (ammiratore di Codreanu), con il quale manterrà una corrispondenza regolare. La sua posizione ideologica divenne esplicita nello stesso anno: "Il popolo rumeno può rassegnarsi alla decomposizione più triste che abbia mai conosciuto nella sua storia, può accettare di essere abbattuto dalla miseria e dalla sifilide, invaso dagli Ebrei e fatto a brandelli dagli stranieri, demoralizzato, tradito, venduto per qualche milione di lei?".
Nel marzo 1940, quando la Guardia di ferro arrivò al potere sotto la dittatura militare e nazionalista di Ion Antonescu, Eliade venne nominato consigliere culturale dell'ambasciata rumena, prima a Londra e poi, dal 1941 fino a settembre 1945, a Lisbona. Nel 1942 scrisse Salazar şi revoluţion în Portugalia, una celebrazione dello "Stato cristiano e totalitario" del feroce dittatore Salazar.
Alla fine della guerra mondiale si trasferì a Parigi, dove rimase fino al 1956. Qui insegnò, scrisse, ebbe contatti fittissimi con università e intellettuali di vari paesi: invitato da Jung, cominciò a partecipare alle conferenze di Eranos nel 1950, ma condusse sostanzialmente una difficile vita da esule.
Dal 1957 la sua attività ufficiale fu di professore di storia delle religioni all'università di Chicago, ma continuò nel frattempo a viaggiare moltissimo, a pubblicare (quasi tutto in Francia) e a svolgere fittissime attività accademiche. Dal 1960 al 1972, insieme a Ernst Jünger, diresse la rivista di storia delle religioni Antaios, pubblicata dall'Editore Klett di Stoccarda.

Morì a Chicago il 22 aprile 1986, un mese dopo l'uscita, a Parigi, dell'ultima raccolta di saggi, Briser le toit de la maison.
La sua eredità letteraria fu raccolta dall'allievo Ioan Petru Culianu che però morì misteriosamente assassinato in una toilette dell'Università di Chicago nel 1991.

Pensiero :
Eliade fu fenomenologo delle religioni, antropologo, filosofo e saggista; studioso del mondo arcaico e orientale, esperto di yoga e di sciamanesimo. Per i contatti giovanili avuti con il fascismo rumeno lo studioso fu criticato da molti suoi colleghi europei di sinistra, specialmente in Francia. Il suo pensiero, rispetto a molti altri antropologi, si caratterizza non solo per l'attenzione ma per una sua sentita adesione al modo arcaico, una sintonia che egli manifesta nel primato antropologico che egli riconosce alla categoria del sacro.

Il mito dell'eterno ritorno :
È un saggio scritto nel 1945 e pubblicato nel 1949.
« l'essenziale della mia ricerca riguarda l'immagine che l'uomo delle società arcaiche si è fatto di se stesso e del posto che occupa nel cosmo »
Così spiega Eliade nella introduzione alla versione italiana de Le Mythe de l'éternel retour, dove indaga la fenomenologia del sacro attraverso le sue tre manifestazioni, il rito, il mito e il simbolo, che riescono a esprimere concetti sull'essere ed il non essere, non riscontrabili altrimenti nelle lingue arcaiche.
La storia delle religioni si era mossa in un primo momento sull'indagine sociologica ed etnologica; è con Rudolf Otto che la ricerca si muove in un'ottica di manifestazione, di ierofania, e separa nettamente il sacro da ciò che gli storici chiamarono mana una "forza impersonale".
Eliade, comparando differenti tradizioni e testi, dimostra la volontà nell'uomo arcaico di tornare a quel tempo primordiale, quando il gesto sacro fu compiuto da dei, eroi o antenati. Le azioni archetipali, base della cosmogonia, furono rivelate in un Tempo Mitico, metastorico. La loro ripetizione rituale interrompe il tempo storico e riconduce all'illud tempus, il Tempo Mitico. La ripetizione simbolica della cosmogonia rigenera il tempo nella sua totalità. "Nell'aspirazione a ricominciare una vita entro una nuova Creazione - aspirazione manifestamente presente in tutti i cerimoniali di fine e di principio d'anno - traspare anche il desiderio paradossale di giungere ad inaugurare un'esistenza a-storica, cioè di poter vivere esclusivamente in un tempo sacro".
Così nelle tradizioni dell'India vedica troviamo che ogni creazione riproduce la creazione originale quella da caos a cosmos ossia la lotta originaria fra un'entità ordinatrice e formante contrapposta a quella indistinta e informe, è il caso di Tiamat e Marduk, nella tradizione babilonese.
Nel pantheon greco è Crono, figlio di Gea e Urano (terra e cielo), che non voleva che i suoi figli venissero alla luce.
Ma anche in ciò che noi riteniamo oggi attività profane, come la danza, esiste un archetipo. La danza del labirinto per i Greci rievocava la danza che Teseo fece dopo aver ucciso il Minotauro e liberato le 7 coppie di giovani. Chiunque la eseguisse diveniva Teseo, ma non solo, i movimenti di questa danza si rifacevano al movimento dei pianeti.
Altre ritualità arcaiche si muovono attorno all'investitura del centro. Per un luogo l'essere il centro della terra è importante perché diviene la residenza della divinità, sia questo un palazzo o una montagna; per i babilonesi Marduk, il dio della creazione, risiedeva a Babilonia (bab è porta, letteralmente porta degli dei), che diveniva così Axis Mundis, punto d'incontro fra regioni infere, terra e cielo.
Il riconoscere una montagna o un palazzo, come centro del mondo, fa sì che queste diventino anche centro della creazione che in tutte le "genesi" si muove a partire dal centro di un qualcosa, come per l'embrione umano.
Eliade pone in evidenza come attraverso la ritualità e quindi la sacralizzazione di luoghi persone o cose, l'uomo arcaico aspiri al rendere il mondo in cui vive "reale".

Il primato antropologico del sacro : Il fattore religioso (e più ancora quello mistico) sono per Eliade la chiave di volta per la comprensione dell'essenza dell'uomo. In pieno XX secolo, di fronte ai progressi scientifici, tecnologici e sociali egli resta un grande sostenitore del valore profondo dell'esistenza arcaica. Egli ha scritto:
 


« Per lo storico delle religioni ogni manifestazione del sacro è importante; ogni rito, ogni mito, ogni credenza, ogni figura divina riflette l’esperienza del sacro, e di conseguenza implica le nozioni di essere, di significato, di verità. «È difficile immaginare – facevo già notare in altra occasione - come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato» (La Nostalgie des Origines, 1969, p.7 e ss.). Il “sacro” è insomma un elemento nella struttura della coscienza, e non è uno stadio nella storia della coscienza stessa. Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere “religioso”

Eccessiva generalizzazione :
Eliade cita un'ampia varietà di miti e rituali in supporto alle sue teorie. È stato però accusato di eccessiva generalizzazione: numerosi studiosi ritengono che nei suoi lavori manchino prove sufficienti per rendere le sue teorie dei principi universali, o almeno generali, sulla storia delle religioni. Secondo Douglas Allen, "Eliade è stato forse il più popolare e influente tra gli studiosi contemporanei di storia delle religioni", ma "molti, se non la maggior parte, degli specialisti in antropologia, sociologia e storia delle religioni hanno ignorato o liquidato rapidamente i suoi lavori".
Il classicista Geoffrey Kirk ha criticato l'insistenza di Eliade sull'idea che gli aborigeni australiani e gli antichi abitanti della Mesopotamia conoscessero i concetti di "essere", "non essere", "reale" e "divenire", pur non avendo termini per indicarli. Kirk ritiene anche che Eliade abbia esteso eccessivamente l'ambito delle sue teorie: Eliade ritiene, per esempio, che il mito moderno del buon selvaggio sia il prodotto della tendenza religiosa a idealizzare l'età primordiale e mitica. Secondo Kirk "queste esagerazioni, unite a una marcata ripetitività, hanno reso Eliade impopolare tra molti antropologi e sociologi. Sempre secondo Kirk, Eliade avrebbe basato la sua teoria dell'eterno ritorno sulle funzioni della mitologia aborigena e l'avrebbe poi applicata ad altre mitologie per le quali era inadeguata. Per esempio, Kirk ritiene che l'eterno ritorno non descriva a sufficienza le funzioni della mitologia greca e di quella nordamericana. Kirk conclude che "la teoria di Eliade offre una descrizione accettabile di alcuni miti, non una guida per comprenderli tutti.
Nell'introduzione al volume di Eliade sullo sciamanesimo, anche Wendy Doniger, che gli succedette all'Università di Chicago, afferma che la teoria dell'eterno ritorno non è applicabile a tutti i miti e i rituali, anche se è applicabile a molti di essi. Comunque, pur accettando le critiche a Eliade sulle eccessive generalizzazioni, Doniger nota che il suo tentativo di "comprendere l'universale" gli ha permesso di intuire schemi e modelli che "attraversano il mondo e l'intera storia umana". Che fossero vere o no, sostiene Doniger, le teorie di Eliade sono ancora utili "come punto di partenza per una storia comparata delle religioni", e sono applicabili "anche a dati nuovi ai quali Eliade non aveva accesso".

Influenze ideologiche dell'estrema destra :
Nonostante gli studi di Eliade non siano subordinati alle sue idee politiche, la scuola di pensiero di cui ha fatto parte tra le due guerre, il trairismo, e i lavori di Julius Evola da lui apprezzati sono ideologicamente legati al fascismo. Marcel Tolcea sostiene che Eliade abbia mantenuto il suo legame con l'estrema destra attraverso la particolare interpretazione del pensiero di Guénon proposta da Julius Evola. Daniel Dubuisson ha descritto l'idea di Eliade di "homo religiosus" come un riflesso dell'elitismo fascista e ha sostenuto che la sua visione del giudaismo e dell'Antico Testamento, che considerava gli ebrei nemici di un'antica religione cosmica, era sostanzialmente una riproposizione della retorica antisemita.
In un suo articolo del 1930 Eliade descrive Julius Evola come un grande pensatore e loda i controversi intellettuali Oswald Spengler, Arthur de Gobieau, Huston Stewart Chamberlain e l'ideologo nazista Alfred Rosenberg[9]. Quando Evola, che continua a sostenere i principi del fascismo mistico, protesta con Eliade per non essere stato menzionato in un suo scritto, lo studioso romeno replica che i suoi lavori sono rivolti al pubblico comune e non agli iniziati dei circoli esoterici[25]. Dopo gli anni sessanta Eliade, insieme a Evola, Louis Rouger e altri intellettuali, offre supporto al controverso Gruppo di ricerca e studio per la civiltà europea di Alain de Benoist, espressione della Nuova Destra intellettuale.
Eliade si è occupato a lungo del culto dello Zalmoxis e del suo presunto monoteismo[28]. Questo, insieme alla conclusione che la romanizzazione era stata un fenomeno superficiale nella Dacia romana, è una visione vicina ai sostenitori del nazionalismo protocronista[28]. Secondo lo storico Sorin Antohi, Eliade potrebbe aver incoraggiato i protocronisti, e in particolare Edgar Papu, a svolgere ricerche volte a dimostrare che le popolazioni romene medievali avevano anticipato il Rinascimento.
Nel suo studio su Eliade, Jung e Campbell, Ellwood discute anche il legame tra le teorie accademiche dei mitologi citati e i loro controversi rapporti politici, facendo notare che tutti e tre sono stati accusati di sostenere posizioni politiche reazionarie. Ellwood sottolinea l'ovvio parallelo tra la natura conservatrice dei miti, che celebrano un'epoca aurea primordiale, e il conservatorismo dell'estrema destra[30]. La questione sarebbe comunque più complessa: qualunque fossero le loro posizioni politiche, sostiene Ellwood, i tre mitologi erano spesso "apolitici" (se non "anti-politici") e rifiutavano l'idea della salvezza nel mondo terreno[30]. Inoltre, i rapporti tra la mitologia e la politica erano diversi in ciascuno dei tre mitologi in questione: nel caso di Eliade, un forte senso nostalgico (per l'infanzia, il tempo passato, la religione cosmica)[30] avrebbe influenzato non solo i suoi interessi accademici, ma anche la sua ideologia politica.
Dato che Eliade è rimasto estraneo alle questioni politiche nell'ultima parte della sua vita, Ellwood ha cercato di estrarre un'implicita filosofia politica dal suo lavoro accademico e sostiene che l'interesse di Eliade per le antiche tradizioni non lo abbia reso affatto un reazionario. Ellwood, al contrario, conclude che l'Eliade maturo era "un modernista radicale". Secondo Ellwood,

« Chi considera la fascinazione di Eliade per il primordiale un segno delle sue visioni politiche reazionarie non capisce l'Eliade maturo e il suo radicalismo. [...] La tradizione non era per lui un obbligo, come per Edmund Burke, o una sacra verità da tenere in vita di generazione in generazione, perché Eliade era pienamente consapevole che le tradizioni, come gli uomini e le nazioni, vivono solo attraverso il cambiamento e persino l'occultamento. La questione non è tentare infruttuosamente di tenerle immutate, ma scoprire dove si nascondono[31]. »

Numerosi studiosi hanno accusato Eliade di essenzialismo, un tipo di generalizzazione nel quale si attribuisce impropriamente un'"essenza" comune a un intero gruppo (in questo caso, a tutte le società "religiose" o "tradizionali"). Inoltre, alcuni vedono un legame tra l'essenzialismo di Eliade riguardo alla religione e l'essenzialismo fascista sulle razze e le nazioni[32]. Per Ellwood questa associazione "sembra piuttosto contorta, e alla fine si riduce a poco più che un argomento ad hominem che tenta di mischiare il lavoro accademico di Eliade con la pessima reputazione associata alle Sturmabteilung e alla Guardia di ferro"[32]. In ogni caso, Ellwood ammette che alcune tendenze del "pensiero mitologico" potrebbero aver portato Eliade, così come Jung e Campbell, a vedere certi gruppi in modo "essenzialista", e ciò potrebbe spiegare il loro antisemitismo: "La tendenza a considerare genericamente le persone, le razze, le religioni o i partiti, che come vedremo è il difetto più grave del pensiero mitologico, incluso quello dei mitologi moderni come i nostri tre, può essere collegata al nascente antisemitismo, o vice-versa"[33].

da Wikipedia

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« Ultima modifica: 18 Febbraio 2013, 13:06:49 da StefanoG »

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #139 il: 28 Gennaio 2013, 14:34:46 »
LOUIS MALLE

Louis Malle (Thumeries, 30 ottobre 1932 – Beverly Hills, 23 novembre 1995)
.... è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese.
 
Esponente delle Nouvelle Vague, attento alla qualità formale dell'immagine e alla dimensione figurativa, fu in costante polemica antiborghese.

« È solo quando la memoria viene filtrata dall'immaginazione, che i film arrivano realmente nel profondo dell'anima »
(Louis Malle)

Figlio dell'alta borghesia, discendente della nobiltà francese, la famiglia si è arricchita grazie al commercio dello zucchero durante il periodo napoleonico. A 14 anni comincia ad appassionarsi alla tecnica delle riprese utilizzando la cinepresa 8 mm del padre.
La famiglia tenta di distoglierlo dall'interesse per il cinema avviandolo a studi classici e a scienze politiche alla Sorbona, che abbandona per seguire i corsi della Scuola superiore di cinema di Parigi, per apprendere la professione di cameraman.
In questi anni sviluppa la collaborazione con Jacques Cousteau, esploratore oceanografico, partecipando ad alcune spedizioni in qualità di addetto alle riprese. Nel 1955, con il documentario subacqueo Il mondo del silenzio, vince assieme a Cousteau la Palma d'oro al Festival di Cannes; nel 1956, per lo stesso, Cousteau venne insignito del Premio Oscar[1]. Durante le riprese subisce la rottura di un timpano a causa di un'immersione in profondità, il che gli impedisce di proseguire il lavoro in questo tipo di documentari.
Incomincia così la sua carriera di regista, nel periodo della Nouvelle Vague, movimento al quale comunque Malle non dichiarerà mai di voler aderire, seguendo una sua linea parallela ma sempre distinta. Nel 1956 è aiuto regista di Robert Bresson per Un condannato a morte è fuggito.
L'anno dopo, a 25 anni realizza il primo lungometraggio a soggetto, Ascensore per il patibolo (Ascenseur Pour L'Echafaud), un giallo con Jeanne Moreau che ottiene il premio Louis-Delluc. La colonna sonora, composta ed eseguita da Miles Davis diventa un classico del jazz.
Il successivo Gli amanti (Les Amants) (sempre con Jeanne Moreau) suscita interesse e scalpore alla Mostra di Venezia dove nel 1958 conquista il premio speciale della giuria.
La carriera di Malle continua dirigendo i grandi attori francesi di quegli anni, da Brigitte Bardot a Jean-Paul Belmondo. Nel 1964 mette in scena a Spoleto un allestimento de Il cavaliere della rosa di Richard Strauss.
Nel 1969 partecipa come attore a La Fiancée du pirate, film diretto da Nelly Kaplan.
Nel 1987 esce il film Au revoir les enfants (in italiano Arrivederci ragazzi), vincitore del Leone d'oro al Festival del cinema di Venezia. Il film racconta l'esperienza realmente vissuta dal regista dell'amicizia con un giovane ebreo che verrà prelevato dall'istituto religioso dove studiava anche Malle e deportato ad Auschwitz.

Muore nel 1995 a causa di un linfoma.

Sposato tre volte, due figli avuti da relazioni esterne al matrimonio, si lega nel 1980 con l'attrice statunitense Candice Bergen, fino al termine della sua vita.

da Wikipedia


INVECE MAYMOVIES  di lui scrive :
Regista francese. Figlio di industriali (la madre appartiene alla famiglia Béghin, proprietaria della più grande fabbrica di zucchero a Thumeries; il padre è il direttore della fabbrica stessa), all'inizio dell'occupazione nazista si trasferisce con i genitori a Parigi, dove studia presso i gesuiti e poi presso il collegio dei carmelitani a Fontainebleau. Terminati gli studi liceali, si iscrive ai corsi di scienze politiche della Sorbona e contemporaneamente a quelli dell'IDHEC (Institut des Hautes Études Cinématographiques). Al termine del primo anno è l'unico studente a rispondere a una richiesta del comandante J. Cousteau, che cerca un aiuto-operatore di riprese subacquee. Con esperienze maturate esclusivamente con la piccola 8mm del padre, si imbarca sulla Calipso, la nave di Cousteau, e lavora alla realizzazione di Il mondo del silenzio (1956), straordinario documento subacqueo firmato dal celebre oceanografo, che comunque deve al giovane regista buona parte della sua eleganza formale per ammissione di Cousteau stesso. L'opera ottiene il massimo riconoscimento per il documentario a Cannes nel 1956 e M., tornato a Parigi, lavora con Bresson in qualità di assistente per Un condannato a morte è fuggito. Subito dopo, a nemmeno venticinque anni, mette mano al suo primo lungometraggio, Ascensore per il patibolo (1957). Se «tutta l'opera di un cineasta è contenuta nel suo primo film», come dice F. Truffaut, tutto il cinema di M., le sue qualità, i suoi difetti, si trovano, in nuce, dentro Ascensore per il patibolo, un film che diventa rapidamente un oggetto di culto, come I quattrocento colpi di Truffaut e Fino all'ultimo respiro di Godard, fondamenti della Nouvelle vague francese. Opera prima che presenta già un discreto equilibrio formale, Ascensore innesta elementi di innovazione nella tradizione del noir e sottrae l'immagine di Parigi all'oleografia, avvolgendola nelle sonorità struggenti della tromba di M. Davies, e spalancando la carriera a J. Moreau. Quest'ultima trova la sua cifra di grande interprete dal fascino ambiguo e sensuale proprio con il secondo lungometraggio di M., Les amants (1958), ispirato a un testo libertino del XVIII secolo, opera intensa e inquietante, che gioca con la storia adulterina di una ricca e annoiata signora come pretesto per mettere in scena l'arsura esistenziale di un ambiente provinciale e borghese. Di tutt'altra atmosfera è Zazie nel metrò (1960), tratto dal noto romanzo di R. Queneau, ambientato in una Parigi un po' fantastica e un po' grottesca. Zazie, ragazzetta sveglia e precoce, si muove in uno scenario popolato da una bizzarra fauna di travestiti, prostitute, lenoni e varia umanità mischiata al popolo minuto, seminando crisi e scompiglio con la sua irriverenza e il suo linguaggio cordialmente scurrile. Segue Vita privata (1962), un'opera piuttosto inconsistente fabbricata su misura per B. Bardot, allora all'apice della fama. Fuoco fatuo (1963) si presenta invece come una brusca virata, un repentino cambio di registro. Finemente calibrato, non privo di tonalità ambigue ma di grande intensità drammatica, mette in scena con acribia quasi eccessiva le ultime ventiquattro ore di un trentenne che ha deciso di suicidarsi, una ricognizione minuziosa delle mosse, dei gesti e della fredda determinazione che precedono l'atto finale. Dopo soli cinque lungometraggi, M. già divide la critica. Qualcuno lo definisce un regista «inutile», «superficiale e vacuo», capace di alte esercitazioni calligrafiche, ma privo di spessore, profondità e slanci passionali, un accademico, un manierista insomma. Qualcun altro ne esalta proprio la sofisticata cifra stilistica, e la capacità di perseguire alti valori formali. In effetti il regista – sempre contiguo, ma sostanzialmente estraneo alla Nouvelle vague – sembra avvalorare di volta in volta l'uno o l'altro giudizio, anche se in realtà forse gli stessi critici che ne avevano stroncato l'opera del primo periodo finiranno per considerarlo un autore classico, «incoronato», peraltro, da un Leone d'oro alla Mostra di Venezia del 1987 per Arrivederci ragazzi. Intanto nel 1965 dirige Viva Maria (1965), un specie di farsa ambientata in un folcroristico paese latinoamericano, in cui B. Bardot e J. Moreau, due soubrette di una compagnia ambulante, diventano leader di una rivoluzione contadina. Il film successivo, Il ladro di Parigi (1966), è un'altra opera tenuta sui toni di una commedia dai sapori piuttosto asprigni, non priva di un tocco di stile, in cui J.-P. Belmondo, ladro per vendetta, incarna una figura di bandito gentiluomo dai tratti esplicitamente anarcoidi e antiborghesi. Ma è dopo aver diretto William Wilson, episodio del film Tre passi nel delirio (1967), peraltro poco riuscito che M. imprime una svolta al suo cinema, a partire da Calcutta (1969), frutto di un viaggio in Asia, che rappresenta un documento sull'India alla fine degli anni '60, realizzato con sguardo personale e con tensione esplorativa. Un'opera che lascia un qualche segno nella visione esistenziale del regista, anche se il suo lato più patinato e il suo gusto della trasgressione scandalistica prendono il sopravvento in Soffio al cuore (1971), che tocca il morboso tema dell'incesto, però decisamente esangue sul piano narrativo. Di ben altra tempra è il lavoro seguente, Cognome e nome: Lacombe Lucien (1974). Lacombe Lucien è un collaborazionista di diciassette anni, di famiglia contadina, che si è arruolato nella Gestapo francese in una cittadina nel Sud-Ovest della Francia, sotto il governo fantoccio di Vichy. Perché il ragazzo è diventato un collaborazionista? Non è un fascista, non è un fanatico nazionalista, non un antisemita, non è neppure un anticomunista. In realtà non è niente: è solo un adolescente di bassa classe sociale, un po' selvatico e poco alfabetizzato. Non è chiaro se M. si renda conto, all'epoca, di essere stato tra i pochi, fino ad allora, a sollevare un coperchio calato su un verminaio doloroso e lacerante, fatto sta che il film suscita un nugolo di polemiche. Il grande e compianto S. Daney esprime un giudizio tranciante: «Questo film si pone sulla linea dritta delle ossessioni di Pompidou, il presidente della repubblica, che si dichiarava stanco della “mitologia della Resistenza”. Questo film non ricopre alcun ruolo e prima di tutto non aiuta a comprendere e a lottare contro il fascismo d'oggi, il quale è lontano dall'essere morto». In realtà l'interesse di M. è centrato sulla «banalità», sulla terrificante «normalità» del male. Quel meccanismo agghiacciante che scatta nella quotidianità di un essere umano, un qualunque essere che rientra sotto la norma, e che magari passa sotto la definizione di «persona per bene», quel processo oscuro che lo spinge a trasformarsi in un ordinario portatore di orrore, quel confine inattingibile che passa tra la normalità e la mostruosità. M. si cala di nuovo nelle vesti di documentarista con Place de la République (1974), e porta la sua mdp nelle strade di Parigi a intervistare i passanti, cogliendo un'immagine piuttosto cruda e sgombra dai luoghi comuni della grande metropoli francese. Allo stesso modo, in Umano troppo umano (1974) contrappone la «bestialità» della catena di montaggio della Citroën, all'appagamento giulivo e beota dei visitatori di un salone di automobili. Ritorna alla fiction con Luna nera (1975), che si rivela un tentativo non del tutto riuscito di dare un corpo filmico a surreali fantasie oniriche. È questo il film che precede il suo trasferimento negli Stati Uniti con la moglie, l'attrice americana C. Bergen. Il primo film hollywoodiano, Pretty Baby (1978), storia di una ragazzina che cresce in un bordello di Storyville (il quartiere di New Orleans che la leggenda vuole come luogo d'origine del jazz), sembra piuttosto adagiarsi sul côté calligrafico, con la sua elegante fotografia e la friabile struttura narrativa al limite della pruderie e dello scandalo. Il successivo Atlantic City (1980) risulta invece un'opera di alta densità drammatica, dominata dalla figura di B. Lancaster nelle vesti di un vecchio gangster di basso rango che prende sotto la sua protezione una giovane (S. Sarandon) finita nei guai per colpa di un fratello balordo. Un noir lancinante, amaro, asciutto nella messa in scena dell'avvento di una mafia rampante, intrecciata con i livelli più corrotti della politica, che scalza il vecchio e romantico milieu malavitoso di Atlantic City, ormai al crepuscolo. Dopo La mia cena con André (1981) e I soliti ignoti made in USA (1984), dirige Alamo Bay (1985), storia di un conflitto tra pescatori texani e vietnamiti immigrati per il controllo delle zone di pesca, girata con pochi mezzi ma con aspra tensione, cui fanno seguito God's Country (1986) e …E la ricerca della felicità (1987). Per realizzare una delle sue maggiori opere M. torna in Francia. Arrivederci ragazzi (1987, Leone d'oro alla Mostra di Venezia) è infatti un film della memoria, nel quale riaffiorano aspri e struggenti ricordi dell'infanzia, sedimentati per troppi anni nelle profondità del vissuto. Storia dell'amicizia di Julien e Jean, giovani convittori del collegio di Sainte-Croix (che allude a Fontainebleau, dove M. ha studiato), interotta bruscamente quando il secondo, insieme con due altri ragazzi, tutti ebrei, viene denunciato alla Gestapo da un giovane sguattero, povero e sciancato, e sparisce nell'orrore dei campi nazisti. A proposito di Lacombe Lucien, M. aveva detto: «Penso che questo sia forse il mio solo film dall'approccio in qualche modo marxista... la famosa tesi marxiana sui membri del sottoproletariato che collaborano con le forze repressive perchè politicamente sprovveduti». Curiosa affermazione per un regista dalle origini alto-borghesi. Come in Lacombe Lucien, anche qui un sottoproletario si schiera con il potere, forse per un'agghiacciante vendetta «di classe», forse senza una vera ragione. In Francia M. gira anche Milou a maggio (1989), eccentrica rivisitazione del '68 francese allestita in chiave di pochade, e non senza qualche affondo acido alla Buñuel e qualche sberleffo feroce verso quegli pseudo-rivoluzionari ereditieri, riuniti nella casa di campagna della nonna appena defunta, che fuggono nei boschi alla notizia delle barricate del quartiere latino. Riprende poi a giocare con le tematiche della morbosità erotica in Il danno (1992), che intreccia eros e tragedia in una storia ambigua di «amour fou» tra un maturo uomo politico e la fidanzata del figlio, satura però di estetismi ed estenuata da un senso un po' gratuito della trasgressione. Torna ad alti livelli con Vanja sulla 42a strada (1994), il suo ultimo film, tratto da Cšechov e girato negli Stati Uniti, magistrale lezione di regia, messa in scena e direzione degli attori. Muore quattro anni dopo, per un tumore.

Le Garzantina del Cinema
a cura di Gianni Canova

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #140 il: 28 Gennaio 2013, 14:37:53 »
C'è un errore, la prima foto che dovrebbe rappresentare Louis Malle è sbagliata poichè la figura in oggetto rappresenta
Pipa Arshi.
Allego di seguito altra foto di Malle.

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #141 il: 28 Gennaio 2013, 14:53:53 »
Arshi Pipa :

Arshi Pipa (1920 – July 20, 1997)
Nato in Albanian  deceduto in America- Filosofo, Scrittore, Poeta e studioso di letteratura e, critico letteraio.

" Montale e l'ombra di Dante "

Ha frequentato la scuola di Scutari fino al 1938. Pipa ha ricevuto un dottorato di ricerca in filosofia presso l'Università di Firenze nel 1942.
Dopo aver completato i suoi studi ha lavorato come insegnante di lingua italiana in diverse scuole in Albania.
È stato imprigionato per dieci anni (1946-1956) in Albania comunista  perché antagonizzata il regime comunista con la sua recitazione di un versetto da una "Song of the Flea" di Goethe trovato in una traduzione del Faust.  Dopo è stato liberato dal carcere (è stato condannato per 20 anni di prigione, ma dopo l'amnistia è stato tagliato a dieci) è scappato in Jugoslavia e ha vissuto a Sarajevo durante il periodo 1957-1959,  nel 1959 emigrò negli Stati Uniti dove è stato docente presso Adelphi College, Georgetown University, la Columbia University, UC Berkeley e poi nel 1966 al 1989 è stato professore di letteratura italiana presso l'Università del Minnesota, Dipartimento di Lingue romanze.
La prima poesia composta nel Pipa fine del 1930 ', Lundërtarë [Seamen], è stato pubblicato a Tirana nel 1944. Quando era in prigione ha pensato e in realtà ha scritto alcune parti della sua migliore collezione conosciuta di poesie Libri i burgut [Il Libro prigione], pubblicato nel 1959. [7] Il suo poema epico Rusha (1968), composto nel 1955 durante la prigionia di Pipa , descrive l'amore tra albanesi e serbi nel tardo 14 ° secolo.
 
Pipa ha affermato che l'unificazione della lingua albanese era sbagliato ma l'ha privata di lingua albanese la sua ricchezza a scapito di ghego. [8] Ha chiamato unificato letteraria lingua albanese una "mostruosità" prodotta dalla leadership comunista che Tosk militare conquistato anti-comunista del nord Albania e imposto il loro dialetto Tosk albanese sulle Ghegs.
Arshi Pipa, poeta e filosofo, critico e studioso di letteratura, sviluppò la sua attività creativa nel corso degli anni 1941-44 nella rivista “Critica”, della quale fu fondatore e direttore. I suoi scritti critici sono stati più di natura saggistica, sia quando scriveva appositamente per specifici autori, sia  quando scriveva per fenomeni letterari in generale, e anche quando si cimentava in teoria critica.
Fin dai primi scritti, Pipa cerca di appianare alcune questioni legate alla categoria di critica letteraria, con particolare accento sulla critica letteraria albanese. Concepiva la critica come una missione spirituale, che assume le dimensioni di una filosofia poetica e una filosofia d'arte. Pertanto, essendo esperto della teoria della critica, lui la definisce nel piano estetico così come in quello storico, individuando la critica d'arte e la critica letteraria.
Sul piano teorico, Pipa ritiene la critica come una attività logica, mettendo l’intuito al suo centro e portando la materia viva come una ricreazione. La sua definizione mette in mostra la critica come ricreazione di un’opera artistica, come metalegittimazione – legittimazione della legittimazione. Nonostante le premesse che derivano dal suo discorso teorico ed  saggistico, Pipa da sempre ha mirato ad una critica specializzata, che avrebbe visto la letteratura come  differenza specifica.
Fin dall'inizio, mentre scriveva e analizzava i testi di Noli, Fishta o Migjeni, la sua valutazione viene caratterizzata dall’approccio, mettendo sempre di fronte all'oggetto di studio un altro modello letterario.
In fin dei conti, l’erudizione di Pipa apparteneva di più al campo della filosofia, perciò i criteri di valutazione erano basati su una solida conoscenza teorica. 
Montale di fronte a Dante.
Il libro di Pipa, “Montale e Dante” è il primo studio scritto in lingua inglese e adesso anche in albanese che riguarda l’opera di uno dei più grandi poeti italiani, nonché del nobel Eugenio Montale.
“Professor Pipa si focalizza nel suo studio sull’influenza che la poesia di Dante ha avuto per Montale. Montale è stato chiamato “dantesco” da alcuni critici, per l’uso frequente della lingua dantesca e per certe affinità con il poeta fiorentino. Con la lettura di Montale attraverso le lenti di Dante, come egli descrive il suo metodo, il prof. Pipa rivela che Dante è stato per Montale non solo un modello per le opere letterarie o linguistiche, ma anche un ideale politico”
Questa è la valutazione  riguardo lo studio di Pipa dell'Università del Minnesota, Mineapolis, nel 1968.
Nella prefazione del libro, Pipa ritiene che l'impatto di Montale è stato forte. Tracce delle sue influenze possono essere trovate anche fuori Italia.
In realtà, i lavori in questione, come dice lui stesso, è un tentativo di determinare il livello di impatto di Dante su Montale, e di interpretare la poesia di Montale avendo come riferimento Dante. Pertanto, la conclusione che le opere comunicano tra di loro sempre diventa esplicita nei nostri studi letterari.
Struttura:
Lo studio in questione ha una struttura complessa, ma che risponde all’ordine scolastico, e anche alla natura delle letture personali di Pipa e alla interpretazione multidimensionale. Il libro è diviso in sette capitoli, come ad esempio: Leggere Montale attraverso la lente di Dante, La Discesa in Inferno di Montale, la Politica e l'Amore, La Battaglia con Cristo, Un Caso di Emulazione, Appendice e Bibliografia.
I titoli dei capitoli sono più dei titoli poetici piuttosto che critici, che testimoniano un processo di lettura selettiva.
I sottotitoli che si trovano all'interno si sottopongono ad un sistema di esaminazione e di argomentazione, che rispondono alla teoria critica, e specificamente alla critica accademica. Quindi, in questo studio si sono stese bene le note iniziali, l’oggetto e i metodi di studio, di ricerca e di indagine multidimensionale, fino all'esame dei risultati della ricerca, come caso di emulazione.
Mentre in Appendice, Pipa ha selezionato e ha tradotto numerosi testi saggistici di Montale, attraverso i quali meglio che altrove si esplora il suo concetto sull’arte e la cultura in generale. 
Ambito di Applicazione e Metodi di Studio
Come si è visto, Pipa ha come tema della propria ricerca una parte dell’opera di Eugenio Montale che si connota in vari livelli con quella di Dante, soprattutto creazioni, come ad esempio: Ossi, Occasioni, Bufera, Farfalla, mettendole di fronte alla Commedia Divina di Dante.
La questione dell’impatto di Dante su Montale è stato oggetto di indagine anche da parte di altri ricercatori, sui quali ci informa anche Pipa attraverso il saggio metacritico su Montale in cui si osservano chiaramente molti elementi linguistici dell’opera di Dante che sono incorporati nella struttura della poesia di Montale.
Anche se Montale non aveva mai accettato in modo diretto una cosa simile:
"Io non ho scritto con la Divina Commedia aperta vicino a me” - aveva detto a un critico, mentre quest’ultimo insisteva sulla influenza palese che si osservava. 
Arshi Pipa, attraverso il suo studio dimostra la doppia interpretazione; legge il testo poetico di Montale tramite il testo poetico di Dante. La lettura e l’interpretazione di un testo indagando i segni di un altro testo dentro ad esso è segno della scuola poststrutturalista e semiotica, i cui rappresentanti non credono che ci sia un discorso vergine (Barti). In realtà, questo ci riporta alla critica del testo, accompagnata dal metodo dell’analisi  logica con dei dati linguistici, stilistici e semantici. In questo modo la lettura dei testi di Dante fornisce una spiegazione argomentata riguardo la poesia di Montale: "La spiegazione non può essere deliberatamente perseguita da Montale", spiega Pipa, procedendo ulteriormente: "Un testo richiama l’altro tramite la risonanza musicale.” Questo accade perché Montale ha assimilato Dante. 
Da qui, l'analisi del testo si avvicina al metodo intertestuale, come una ricerca immanente del testo e come un’analisi logica. Pertanto, qui si dimostra che la questione principale, non tratta dei metodi di lavoro per studiare la letteratura, ma la questione dei metodi della letteratura come uno strumento di studio. (Ejhenbaum).

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #142 il: 28 Gennaio 2013, 14:54:46 »
SEMPRE SU PIPA ARSHI ......SEGUE DALLA PRIMA


L’Allegorismo: Montale su Montale.

La critica di Pipa oltre alla lettura e l’interpretazione letteraria riconosce anche la lettura referenziale-contestuale.
Un passaggio questo dalla perifrasi all’allegorismo, perché fornisce dati non testuali che hanno avuto un impatto diretto sulla creatività di Montale, e nella letteratura italiana in generale. In questo modo la figura di Montale viene vista nel contesto socio-politico, mettendo in evidenza anche i valori della letteratura europea. 
Come per sottolineare lo spazio empirico, l’allegorismo, poiché siamo ancora alle porte dello studio e dell’interpretazione letteraria, Pipa scrive: "... il clima politico in Italia stava cambiando rapidamente e la nuova letteratura, che stava fiorendo, poneva l'accento su questioni politiche e sociali . Montale non è stato coinvolto come altri poeti, anche se il suo verso, dopo una prima immersione nella realtà della politica, generò nuove enfasi.”
Inoltre, Pipa oggettiva i testi di Montale, in cui viene accertata l’avventura dantesca, dalla poesia alla prosa (il racconto) con segni autobiografici, attraverso i quali il modello di vita viene visto con uno status intertestuale a prescindere dal fatto che  vengano descritti dall’alta fantasia del tipo dantesco.   
Così, passa dall’allegorismo alla lettura della perifrasi. Si scopre l’allusione che va di pari passo con l’allegoria, un corso questo seguito dall’autore empirico e dall’autore estetico.
Secondo Pipa, le tracce di Dante in Montale si esprimono sotto forma di vaghe reminiscenze. L’Analogia tra le figure concettuali di Dante contrassegnate nel testo insieme con i testi di Montale sono oggetto di indagine da parte di Pipa, contemporaneamente anche illustrate in versetti, il che testimonia una ricerca sistematica e argomentativa. L'argomento è una delle caratteristiche principali della critica letteraria.
Così, Pipa indaga le tracce dantesche nel poema intitolato Ossi, Meriggiare Pallido scritta nel 1916. Pipa trova che le idee e la struttura  poetica siano di Dante, facendo riferimento anche ad altri ricercatori che hanno concluso che il poema in questione è un esempio di imitazione costante, e ad un altro autore, Pascal. (Bunfiliali). 
L’ombra di Dante si manifesta in qualsiasi parte del lavoro di Montale, come dimostra l’analisi comparativa che viene fatta ai testi di Montale, anzi  fino alle constatazioni riguardo la fragranza ispiratrice dalla poesia “L’Inferno”, che secondo Pipa fornisce una spiegazione per la poesia di Montale, particolarmente richiamando l'attenzione alla implicazione politica della poesia.
Tuttavia, le creatività costanti dei due poeti sono spesso accompagnate da una divergenza nella formulazione concettuale e teologica.
Allegoria e Allusione
Pipa come punto in comune tra Dante e Montale, trova l’allegoria. Secondo Pipa, l’allegoria caratterizza la forma mentis di Dante. In questo modo Pipa vede le tecniche di scrittura di Montale come varietà dell’allegoria. 
L’Analisi testuale si mette alla ricerca di varianti equivalenti tra i due grandi poeti.
La lettura dell’allusione e dell’allegoria è una lettura di due estremità tematiche: Amore e Politica. Così, la ricerca e l'analisi delle figure del testo, in questo caso l’allusione e l’allegoria, confermano le vecchie tesi secondo cui la poesia di Montale si basa sui significati suggeriti da parole e frasi  interessanti. In questo contesto, si danno degli esempi di codici e figure narrative, come ad esempio: metonimia e omonimia.
In generale, come in altri casi, Pipa cerca le figure concettuali come figure significative estrapolandone l’origine, nel caso della poesia di Montale così come in quella di Dante.
Così, attraverso l'analisi sottile figurativa e le piccole unità della sintassi (sintassi-stilistica) si scoprono le idee politiche ed estetiche di Montale, che sono ben codificate all'interno del testo e che fungono da principali figure letterarie.
Pertanto, la figura poetica si scompone, si decodifica nel contesto stilistico come pure nel contesto semantico. Poi, si esaminano i poemi narrativi in base ad una analisi testuale e contestuale, scomponendo ogni parola e frase che corrisponde tra di loro. In questo modo, l'interpretazione si concentra sulla polivalenza del linguaggio poetico, in tutti i contesti.
La somma delle analisi
L’Analisi della struttura delle opere letterarie di Montale si accompagna ad un'analisi comparativa fono-stilistica. Tale interpretazione è in favore della più profonda comprensione della perifrasi, per aprire il grande dialogo con il testo, per convertire la sua critica in critica di dialogo, avendo per base l’analisi linguistica ed etimologica delle parole e delle frasi poetiche.
L’Analogia, il dettaglio, la reminiscenza, l'immagine, il gioco delle parole e la semantica delle figure concettuali sono nozioni che portano Pipa verso i risultati della ricerca per definire la figura come allegoria visionaria, qualcosa che va oltre la figura e che diventa una strategia, struttura letteraria, da sempre legata alla stretta lettura che legittima quasi tutti i piani del testo:
"Le analogie (del testo) non finiscono qui. ‘Arsenio’ in greco significa ‘male- cattiveria’ e ‘Adam’ in ebraico significa ‘uomo’". Segue l’analisi morfologica del testo (come microstruttura), nella quale si mette in evidenza l’analogia delle classi delle parole di Dante, che sono ben assimilate da Montale. 
Questo probabilmente dirige Pipa verso una ricerca poststrutturale, per vedere e concepire queste analogie come una reminiscenza e invariante del testo.
La lettura delle (in)varianti
Le invarianti linguistiche e letterarie funzionano in modo “dinamico” in tutta l'opera di Montale. Come tali, esse hanno a che fare con veri e propri elementi testuali, e in termini latu sensu del concetto, illustrano il profondo gioco di similitudine, dei constanti e dei diversi punti d’incontro. Le invarianti, come dimostrato, contribuiscono a dare una accurata descrizione della struttura dell’opera letteraria. Basato sul sistema che adopera il teorico e comparativìsta A. Marino, Pipa è un profondo ricercatore; indagando le versioni del testo, egli mette in evidenza anche le  invarianti strutturali, poiché Montale fa riferimento alla letteratura mondiale come la Divina Commedia, quindi fa riferimento alle invarianti relazionali e intra-comunicative come corrispondenza (contatti) tra le letterature nazionali (ricorda qui l'approccio Coleridge) come quella inglese, americana e francese, e anche le  invarianti universali e culturali, con accento sulla cultura biblica. Questi invarianti, sia nell’aspetto fono-stilistico, sintattico-stilistico e semantico-stilistico si mostrano sempre sotto forma di reminiscenza sfocata. 
Analisi testuale del lessico
L’Analisi di Pipa, essendo polivalente, lascia i principi metodologici e si lancia in analisi testuali di lessico indagando le connotazioni del lessico semantico. Per ogni parola Pipa osserva, scompone  il significato delle frasi o gruppo di parole, ma anche le connotazioni e il significato secondario. 
Pertanto, l'analisi di Pipa è analisi progressiva (Barti), poiché essa segue una procedura specifica: parola dopo parola, disintegra il testo in frammenti tematici, frasi e figure essenziali della poesia di Montale, che sono identificati come reminiscenze di Dante. Qui, dalla lettura estetico-semiotico si slitta nella lettura semantica, perciò il discorso critico-estetico si trasforma in discorso contestuale-referenziale. Tuttavia, la ricerca della allegoria è continua; attraverso essa si indagano le  linee di scrittura di Dante. Pipa, essendo sempre davanti o dietro al modello del suo oggetto, Montale, rafforza il testo con il discorso critico argomentativo, suo elemento base di approccio.
La natura di tale lettura, espone i primi significati e la figura viene letta come una figura doppia, o come l’avrebbe chiamato Pipa come multipla allegoria. 

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #143 il: 28 Gennaio 2013, 15:05:12 »
Walter Bendix Schoenflies Benjamin :
 pronuncia tedesca valtɐ ˈbɛnjami
(Charlottenburg, 15 luglio 1892 – Portbou, 26 settembre 1940)

......è stato un filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco.

Benjamin nasce a Berlino il 15 luglio del 1892, in una famiglia ebraica.
Il padre, Emil, era un ricco antiquario e la madre, Paula Schönflies, proveniva da un'agiata famiglia di commercianti. A Walter seguono altri due figli: Dora (che morirà a Zurigo nel 1946) e Georg (futuro dirigente del Partito Comunista Tedesco, che morirà nel 1942 nel campo di concentramento di Mauthausen).
 
Nel 1902 Walter frequenta a Berlino il Friedrich-Wilhelm Gymnasium dal quale verrà trasferito per motivi di salute nel 1905 e presso il quale tornerà nuovamente nel 1907 per terminare gli studi liceali con la maturità nel 1912. Nello stesso anno si iscrive al corso di filosofia dell'Università di Berlino. Alterna la frequenza a questi corsi con quella presso l'Università di Friburgo in Brisgovia. Qui conosce il giovane poeta Christoph Friedrich Heinle, cui dedicherà un cospicuo corpus di poesie, composte tra il 1915 e il '25. In questi anni intensifica la sua attività nella Jugendbewegung, un'organizzazione universitaria giovanile con la quale aveva iniziato a collaborare fin dai primi mesi universitari. Degli anni 1914-1915 è anche il manoscritto incompiuto di Metafisica della gioventù.
 
Il 21 luglio 1915, a Berlino, avviene il primo incontro con Gershom Scholem, col quale stringerà una profonda amicizia e un saldo legame intellettuale. Scholem, che abbandonerà poco dopo gli studi di matematica e filosofia per dedicarsi allo studio della mistica ebraica, favorirà l'avvicinamento di Benjamin agli studi sull'ebraismo e un'analisi approfondita del rapporto tra l'ebraismo e la filosofia. A tale proposito si veda il libro di Gershom Sholem: Walter Benjamin. Storia di un'amicizia, Adelphi, Milano, 1992.
 
Nel 1917 sposa Dora Kellner, già sposata con Max Pollak e da questo divorziatasi per la relazione con Benjamin. Nel 1918 nasce il suo unico figlio, Stefan (che morirà a Londra nel 1972).
 
Il 27 giugno del 1919 si laurea summa cum laude in filosofia discutendo una tesi su Il concetto di critica nel primo romanticismo tedesco. Tutt'altro che opera immatura, questo lavoro legge in modo del tutto originale la critica letteraria dei fratelli Schlegel, concentrandosi sul concetto di rispecchiamento (Wiederspiegelung), cioè di un'opera letteraria che sia commento e riflessione sulla letteratura stessa, anticipando così temi propri della letteratura postmoderna.
 
Gli anni dal 1920 al 1927 sono anni di grande impegno intellettuale; scrive, in ordine cronologico, Per la critica della violenza, Il compito del traduttore, Saggio su Le affinità elettive di Goethe e la complessa opera Il dramma barocco tedesco. In questi anni conosce Ernst Bloch, Franz Rosenzweig, Theodor W. Adorno, Erich Fromm. Nel 1924 aveva conosciuto Asja Lacis, una regista rivoluzionaria lettone con la quale inizierà un rapporto intellettuale e sentimentale che sarà determinante per la sua decisa svolta in senso marxista e comunista. Nello stesso anno fallisce il tentativo di ottenere l'abilitazione presso l'Università di Francoforte ed entrare così nel mondo accademico. La dissertazione presentata da Benjamin in quest'occasione è il fondamentale saggio che oggi conosciamo come Il dramma barocco tedesco. Sul fronte letterario si occupa anche di divulgare l'opera della cugina, la poetessa berlinese Gertrud Kolmar, che verrà deportata ad Auschwitz nel marzo del 1943, alla quale, proprio in questi anni, dedica diversi articoli e recensioni su alcune riviste.
 
Nel 1928 stringe un'altra importante amicizia anch'essa determinante per la sua ulteriore evoluzione intellettuale: incontra e si lega a Bertolt Brecht. A partire dagli anni trenta si avvicina all'Istituto per la ricerca sociale diretto da Max Horkheimer, con il quale i rapporti si faranno più intensi a partire dal 1934-1935. Negli stessi anni si impegna sempre più, oltre che in saggi letterari densi di riflessioni filosofiche (il Leskov, il saggio su Kafka, quello su Baudelaire e il saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica), in un'opera filosofica che, contenuta nelle intenzioni, lo accompagnerà, incompiuta ed estremamente vasta, fino alla morte: il Passagen-Werk.
 
Ormai stabilitosi a Parigi ove sarà "un ascoltatore assiduo delle conferenze del Collège de sociologie"[2], nel settembre del 1939, allo scoppio della guerra, viene internato in un campo di lavori forzati in quanto cittadino tedesco. Tra la fine del 1939 e il maggio del 1940 scrive le Tesi sul concetto di storia, il suo ultimo lavoro e testamento spirituale. Le Tesi avrebbero dovuto essere l'introduzione del Passagen-Werk, che Benjamin non poté completare e che grazie a Georges Bataille fu nascosto e conservato alla Bibliothèque Nationale[3]; gli abbozzi sono stati pubblicati in Italia da Einaudi, prima nel 1986 col titolo Parigi, capitale del XIX secolo e poi nel 2000 col titolo I «passages» di Parigi.
 
Il 14 giugno del 1940 Parigi è occupata dai tedeschi. Benjamin fugge verso la Spagna nel tentativo di varcare il confine per raggiungere una località di mare e imbarcarsi verso gli USA dove già si erano rifugiati i suoi amici dell'Istituto per la ricerca sociale, tra cui Theodor W. Adorno.
 
Nella notte del 25 settembre del 1940, presso la località di Port Bou nella Catalogna spagnola, nel tentativo di sfuggire alla probabile cattura da parte della polizia di frontiera spagnola e alla conseguente espulsione dalla Spagna verso il territorio francese, ormai saldamente nelle mani dell'esercito nazista, Benjamin decide di togliersi la vita ingerendo della morfina. Aveva con sé una valigia nera che custodiva gelosamente, in cui erano contenuti probabilmente dei manoscritti o delle pagine incompiute. Il giorno dopo ai suoi compagni di viaggio sarebbe stato permesso di proseguire per la loro destinazione. Altri suoi amici — tra cui Henny Gurland, futura moglie di Erich Fromm — provvidero alla sua tumulazione nel cimitero di Port-Bou, pagando il fitto del loculo per soli cinque anni. Dopo tale periodo non si sa dove possa essere finito il suo corpo, né la sua valigia nera fu mai più ritrovata. Oggi a Portbou esiste un memoriale che ricorda la figura di Walter Benjamin.

Ironia della sorte vuole che il visto che stava attendendo per imbarcarsi per gli Stati Uniti arrivò il pomeriggio successivo al suo suicidio.

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #144 il: 28 Gennaio 2013, 15:09:30 »
Segue dalla prima ....di Benjamin hanno scritto :

WALTER BENJAMIN   A cura di Diego Fusaro

"C'è un quadro di Klee che s'intitola 'Angelus Novus'. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, al bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. " (Tesi di filosofia della storia)

La Vita :
Walter Benjamin nasce a Berlino il 15 luglio 1892, da Emil, antiquario e mercante d'arte, e Paula Schönflies, di famiglia alto-borghese di origine ebraica. Dei suoi primi anni rimane il visionario scritto autobiografico degli anni Trenta Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Dal 1905 per due anni si reca al "Landerziehungsheim" in Turingia, dove fa esperienza del nuovo modello educativo impartito da Gustav Wyneken, il teorico della Jugendbewegung, il movimento giovanile di cui Benjamin farà parte fino alla scoppio della Grande Guerra. Nel 1907 torna a Berlino, concludendo gli studi secondari nel 1912. In quello stesso anno comincia a scrivere per la rivista "Der Anfang", influenzata dalle idee di Wyneken. Dall'università di Berlino si trasferisce a quella di Friburgo in Bresgovia, dove, oltre a seguire le lezioni di Rickert, stringe un forte sodalizio col poeta Fritz Heinle, che morirà suicida due anni dopo. Scampato all'arruolamento dopo l'inizio della guerra, rompe con Wyneken, che aveva entusiasticamente aderito al conflitto. Nel 1915, trasferitosi a Monaco, dove segue i corsi del fenomenologo Moritz Geiger, conosce Gerschom Scholem, con cui inizia un'amicizia durata fino alla morte. L'anno dopo incontra Dora Kellner, che sposa nel 1917: dalla relazione nasce nel 1918 il figlio Stefan, quando la coppia si è ormai trasferita a Berna, dove Benjamin, già autore di importanti saggi ( Due poesie di Friedrich Hölderlin ; Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini ), l'anno seguente si laurea in filosofia con Herbertz discutendo una tesi sul Concetto di critica d'arte nel Romanticismo tedesco . In Svizzera fa la conoscenza di Ernst Bloch, con cui avrà fino alla fine un rapporto controverso, tra entusiasmi e insofferenza. Nel 1920, tornato a Berlino, progetta senza successo la rivista Angelus Novus, scrive Per la critica della violenza e traduce Baudelaire. Nel 1923 conosce il giovane Theodor Adorno. Il suo matrimonio entra in crisi e nel 1924, durante un lungo soggiorno a Capri, conosce e s'innamora di Asja Lacis, una rivoluzionaria russa che lo induce ad avvicinarsi al marxismo. Pubblica un saggio su Le affinità elettive per la rivista di Hugo von Hoffmanstahl. Nel 1925 l'università di Francoforte respinge la sua domanda di abilitazione all'insegnamento accademico, accompagnata dallo scritto sull'Origine del dramma barocco tedesco, pubblicato infine tre anni dopo, insieme agli aforismi di Strada a senso unico. In questo periodo Benjamin si mantiene con la sua attività di critico e recensore per la "Literarische Welt" e traduttore (di Proust, con Franz Hessel) e viaggia tra Parigi e Mosca, cominciando a maturare il progetto (destinato a rimanere incompiuto) di un'opera sulla Parigi del XIX secolo (il cosiddetto Passagenwerk). Nel 1929 stringe un profondo rapporto con Brecht, che negli anni Trenta, dopo l'avvento del Terzo Reich, lo ospita a più riprese nella sua casa in Danimarca. Il 1933 segna infatti la definitiva separazione dalla Germania. Esule a Parigi, trascorre comunque lunghi periodi a Ibiza, Sanremo e Svendborg. Per la "Jüdische Rundschau" esce Franz Kafka, ma le sue condizioni economiche si fanno sempre più precarie: l'assegno garantitogli dallo "Zeitschrift für Sozialforschung" di Adorno e Horkheimer, per cui pubblica nel 1936 L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico nel 1937, diventa il suo unico mezzo di sussistenza. Nel 1938-39 lavora su Baudelaire (Di alcuni motivi in Baudelaire), ma lo scoppio della seconda guerra mondiale lo induce a scrivere di getto il suo ultimo testo, le tesi Sul concetto di storia. Internato nel campo di prigionia di Nevers in quanto cittadino tedesco, viene rilasciato tre mesi dopo. Abbandona tardivamente Parigi e cerca di ottenere un visto per gli Stati Uniti. Nel settembre del 1940 viene bloccato alla frontiera spagnola dalla polizia: nella notte tra il 26 e il 27 si toglie la vita ingerendo una forte dose di morfina. Ai suoi compagni di viaggio fu concesso di passare il confine il giorno seguente.

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #145 il: 28 Gennaio 2013, 15:10:45 »
SEGUE : Benjamin Walter


IL PENSIERO :

Benjamin è scrittore asistematico, privilegia la forma del saggio e dell'aforisma, e concepisce come compito specifico del critico il prendere posizione e la negazione dell'ordine esistente. Nei suoi lavori di critica letteraria riprende la pratica del commentario ebraico, diretta a restituire all'originale la forza distruttiva di cui neppure l'autore di esso era stato cosciente. Il linguaggio, infatti, ha funzione espressiva, non strumentale: attraverso di esso, l'uomo deve dare voce alle cose mute. Dunque, teoria critico-materialistica e pensiero utopico-messianico si congiungono in modo originale nell'opera di Benjamin. Nella genesi del suo pensiero sono presenti motivi della filosofia romantica (alla quale è dedicata la sua tesi di laurea sul Concetto di critica d'arte nel romanticismo tedesco , del 1918), il pensiero nietzscheano (per le critiche alle pretese sistematico-totalizzanti della ragione, l'atteggiamento ermeneutico critico nei confronti della tradizione culturale e della realtà sociale, l'attenzione per il rapporto tra i contenuti del pensare e i suoi modi espressivi), l'esperienza delle avanguardie artistico-letterarie (per tutto ciò che di che di rivoluzionario e di dirompente hanno avuto nei confronti di una concezione ottimistica-retorica dell'uomo). Una componente essenziale della formazione e del pensiero di Benjamin è poi il suo ebraismo, rivissuto in molti suoi aspetti (a cominciare dalla lacerante tensione tra attesa messianica e valorizzazione della memoria storica) attraverso il rapporto con Gershom Sholem, un grande studioso della mistica ebraica. E' al tema di una lingua pura, immediatamente simbolica (cui si oppone la violenza operata dall'astrazione e dal giudizio concettuale proprio delle moderne concezioni del pensiero e del linguaggio) che sono dedicati i primi saggi di Benjamin: Sulla lingua in generale e su quella degli uomini ( 1916 ); Per la critica alla violenza ( 1921 ); Il compito del traduttore ( 1923 ). Sull'interpretazione dell'opera d'arte è incentrato invece il Saggio sulle affinità selettive di Goethe ( 1924-1925 ). In esso s'annuncia un motivo decisivo della riflessione estetica di Benjamin: la conciliazione proposta o suggerita dall'opera d'arte è solo un'apparenza mistificante; quanto alla pretesa totalità essa è falsa e smentita dall'intima (benché talora non evidente) frammentarietà del prodotto artistico. Nell'opera d'arte non è immediatamente visibile una dimensione utopico-positiva. Questa semmai è presente nella forma dell'inespresso, "del non detto" dell'arte - ovvero in una speranza che peraltro possono solo cogliere solo coloro che ne sono radicalmente privi. L'opera più compiuta di Benjamin - la sola ch'egli potè portare a termine - è L'origine del dramma barocco tedesco ( 1928 ). Attraverso una ricca analisi delle forme e figure del dramma barocco (Trauerspiel) come impossibile tentativo di ripetere storicamente la tragedia greca, questo celebre saggio svolge un acuto e suggestivo discorso sui concetti di simbolo e allegoria - e più in generale sull'essere e sul conoscere umano. Benjamin presenta infatti l'allegoria barocca come critica dell'aspirazione classicista a riunificare la scissione originaria prodottasi nell'uomo ed espressa sia nella simbologia tecnologica (il creatore e la creatura, la caduta e la redenzione…), sia in alcune coppie antinomiche della tradizione occidentale (il finito e l'infinito, il sensibile e il sovrasensibile…). Sotto un diverso profilo, l'opera benjaminiana fornisce una chiave preziosa per interpretare anche alcune fondamentali aporie dell'arte (e della coscienza) moderna: Benjamin fa infatti vedere come la tensione a raggiungere nell'esperienza artistica il "simbolo" (e quindi l'unificazione effettiva di cosa, linguaggio e significato) esploda continuamente in "allegoria", ovvero in una dialettica eccentrica (priva di centro) tra quanto è figurato nell'espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati. Per questo scacco del simbolico la malinconia diviene, nell'indagine di Benjamin, il sentimento fondamentale del soggetto moderno. A un altro livello, ciò che il trionfo dell'allegoria rivela è un'insanabile lacerazione, una sempre più radicale perdita di senso, un decadimento dell'umano e della storia. A partire dagli anni '30 Benjamin si avvicinò in qualche misura alla "Scuola di Francoforte": pur senza mai entrare a far parte organica del gruppo, egli collaborò con la "Rivista per la ricerca sociale" ed ebbe un'intensa, seppur travagliata, amicizia con Adorno. Le molteplici differenze tra i due pensatori non debbono far dimenticare (come talora è accaduto) certe loro innegabili prossimità di interessi e anche, entro certi precisi limiti, di convinzioni teoriche. Sia Adorno sia Benjamin respingono il privilegiamento dell'esistente, la ubriV della ragione positivistica, la barbarie dell'organizzazione capitalistica e della società. Entrambi (ma soprattutto Benjamin) rifiutano un'interpretazione e una pratica della riflessione come ricerca del sistema, del fondamento assoluto. La filosofia, secondo loro, deve soprattutto mettere in luce le contraddizioni celate sotto le ingannevoli apparenze della realtà e, insieme, il bisogno di felicità e di emancipazione insito nel mondo umano. Tale bisogno si esprime (spesso in modo cifrato) nelle situazioni, nei testi, negli eventi più disparati. Per questo, entrambi i pensatori fanno filosofia interrogando le testimonianze o i segni più eterogenei e talvolta sconcertanti. Sotto tale profilo, il più caratteristico e suggestivo saggio di Benjamin è l'incompiuta opera su Parigi come " capitale del XIX secolo ", nella quale il pensatore ha cercato di afferrare il senso di un'intera epoca storica giustapponendo l'analisi della poesia di Baudelaire e quella dell'assetto urbanistico parigino, l'interpretazione di nuove figure psico-antropologiche (il "flaneur", il "dandy", la prostituta) e l'esame dei nuovi caratteri della produzione e della circolazione della merce. Molta attenzione egli dedica soprattutto alla figura di Baudelaire, di cui fu anche traduttore: in particolare, distingue il concetto di "esperienza" dal concetto di "esperienza vissuta"; la seconda permette di rielaborare razionalmente, attraverso la riflessione, gli "choc" della vita, così da impedirne la penetrazione nel profondo e da difenderne la coscienza dal loro assalto. La semplice "esperienza" è invece quella subita direttamente dallo choc, senza mediazione: è quest'ultimo il caso di Baudelaire, che nella vita cittadina subisce incessantemente l'esperienza degli choc prodotti dagli urti della folla, dalle luci, dalle novità dei prodotti e delle situazioni e insomma dall'esistenza stessa di una metropoli moderna. La folla sarebbe perciò la " figura segreta " (il suggello e insieme la potenza nascosta) della sua poesia: pur non essendo mai compiutamente rappresentata, tuttavia la folla è una presenza ossessiva nell'opera di Baudelaire e non va ricercata tanto nei temi e nei contenuti, quanto nella forma poetica, nel ritmo nervoso, ora ondulato, ora franto, del verso baudelairiano ( " questa folla, di cui Baudelaire non dimentica mai l'esistenza, non funse da modello a nessuna delle sue opere. Ma essa è iscritta nella sua creazione come figura segreta "). Nella propria anatomia della modernità, Benjamin si è spesso rivelato più aperto e spregiudicato di Adorno: ora interrogandosi sul fenomeno della droga, ora analizzando con simpatia produzioni socio-culturali in apparenza 'minori', come la letteratura per l'infanzia e il "feuilleton", la fotografia e i giocattoli. Un'altra e più sostanziale diversità fra i due filosofi è l'atteggiamento nei confronti dell'arte: convinto come Adorno che il fenomeno artistico sia un'esperienza particolarmente eloquente del disagio della civiltà, Benjamin ne ha una visione meno aristocratico-elitaria rispetto a quella dell'amico. Una significativa testimonianza di ciò è offerta dal saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37). In esso, Benjamin contrappone ad ogni interpretazione mistico-esoterica del fenomeno artistico una concezione in qualche modo secolarizzata di esso. Prodotto di uomini per altri uomini, l'arte va studiata " materialisticamente " sia nei suoi modi di elaborazione e di rappresentazione anche tecnica (non esclusi quelli fotografici e cinematografici) sai nelle particolari modalità percettive del suo fruitore. Lo sviluppo delle forze produttive, rendendo tecnicamente possibile la riproducibilità delle opere d'arte (pensiamo alla televisione, ai cd, alla radio, al computer, ecc), ha messo fine all'alone di unicità, originalità e irripetibilità dell'opera d'arte, ossia all' " aura " che la circonda di sacralità agli occhi della borghesia, la quale proietta in essa i suoi sogni e ideali aristocratici: l'aura è quindi l'alone ideale che rende sensibile al fruitore l'unicità irripetibile dell'atto creativo. Nella società di massa, in cui regna la riproducibilità dell'opera d'arte, l'opera d'arte " può introdurre la riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia o del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all'aria aperta può venir ascoltato in una camera. Ciò che vien meno è quanto può essere riassunto con la nozione di 'aura' e si può dire: ciò che vien meno nell'epoca della riproducibilità tecnica è l'aura dell'opera d'arte ". La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del " sempre uguale ", per uomini rimasti privi di saggezza; ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l'accesso all'arte e alle sue capacità di contestazione dell'ordine esistente. Solo attraverso la distruzione violenta di quest'ordine, ormai diventato inumano, si può aprire lo spazio per la redenzione e la felicità. Benjamin contesta le concezioni ottimistiche del progresso, condivise anche dal marxismo dei socialdemocratici tedeschi, secondo cui la storia è un cammino lineare di sviluppo crescente. Esse, infatti, si pongono dal punto di vista dei vincitori nella storia, anziché rimettere in questione le vittorie di volta in volta toccate alle classi dominanti. Si tratta, invece, di " spazzolare la storia contropelo ", strappandola al conformismo delle classi dominanti, ovvero accostandosi al passato come profezia di un futuro e arrestando la continuità storica con un salto e una rottura. Nella storia, infatti, non c'è un teloV , un "fine" garantito: e infatti anche sugli sviluppi della società sovietica Benjamin è pessimista. Solo recuperando e prendendo al proprio servizio la teologia e il messianesimo sarà possibile liberarsi dalla fede cieca in un progresso meccanico. La differenza più sostanziale tra Benjamin e Adorno è l'atteggiamento nei confronti del pensiero dialettico : profondo conoscitore ed estimatore della cultura tedesca, Benjamin 'ignora' Hegel. Il suo silenzio esprime un rifiuto che, lungi dal condannare i soli aspetti conciliativi/totalizzanti dell'hegelismo criticati anche da Adorno, investe la stessa concezione hegeliana dell'immanenza della ragione nel reale e, soprattutto, della storicità dialettico-progressiva di quest'ultimo. La critica benjaminiana dello storicismo (e, più in generale, della concezione moderna della temporalità e del suo senso) è radicale: la sua condanna Benjamin la esprime in "Tesi di filosofia della storia" (1940). Per Benjamin ogni rappresentazione del tempo/storia secondo moduli fisico/lineari è fuorviante: è falso, inoltre, che la storia sia un processo continuo e uniforme nel tempo; che tale processo sia accrescitivo e progressivo; che, quindi, i traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed esclusivamente collocare 'davanti'. Alla redenzione umano/sociale si deve essere spinti, invece, dalla visione del passato, fatto di " rovine su rovine " e così orrendo da esercitare in chi (come l' Angelus Novus raffigurato in un acquerello di Paul Klee molto amato da Benjamin) sa voltarsi a guardarlo una spinta irresistibile verso un futuro diverso. Se il rifiuto di un tempo/storia monodimensionale e spaziale fa pensare a certe analoghe posizioni assunte da Bergson o da Dilthey, occorre subito aggiungere che Benjamin polemizza aspramente con tutti e due i filosofi. A suo avviso, la storia, ben lungi dall'essere riconducibile ad un' "Erlebnis" soggettiva, è qualcosa di estremamente oggettivo e corposo. Così oggettivo e corposo da costituire una realtà in larga misura estranea, o almeno 'altra' rispetto al soggetto. Sotto un certo aspetto, essa appare, come dicevamo, un " cumulo di macerie " , o anche un gioco di forze terribili, tanto più terribili in quanto sanno spesso mascherarsi sotto le forme di miti seducenti. Sotto un altro aspetto, essa contiene però princìpi e valori non solo preziosi, ma imprescindibili e insostituibili. Purtroppo, non sempre il presente vuole e sa interrogare il tempo che è stato: soltanto certe epoche riescono ad inoltrarsi per tale itinerario interrogativo; e solo in certi casi si riesce ad entrare in rapporto con ciò cui, più o meno consapevolmente, si tende. Ma la ricerca di questo rapporto è un compito al quale non ci si può e non ci si deve sottrarre: la decifrazione del passato consente infatti di cogliere e di rivitalizzare idee e "unità di senso" che erano rimaste come se sepolte e bloccate nei loro possibili sviluppi. Inoltre, le domande che rivolgiamo al passato sono in realtà le nostre domande: solo comprendendo il passato comprendiamo noi stessi. Solo liberandone le virtù nascoste liberiamo noi stessi. Il Novecento appare a Benjamin abitata da grandi potenzialità sia positive (le possenti spinte auto-emancipatorie degli oppressi) sia negative (i totalitarismi, il potere tecnologico non adeguatamente controllato). In veste di marxista sui generis , Benjamin sostiene la necessità che le classi rivoluzionarie sappiano svolgere approssimativamente il loro compito teorico e pratico: senza cullarsi nell'illusione di riforme graduali e indolori, senza sottomettersi ai miti del progresso e della tecnica, ma assumendo invece una responsabilità 'epocale': quella di capire e di far capire che viviamo in uno " stato di emergenza ". Nelle Tesi di filosofia della storia , composte negli ultimi mesi della sua vita in Francia, Benjamin si richiama (a partire dal titolo) alle 11 Tesi su Feuerbach di Marx: in esse, Benjamin conduce una dura critica nei confronti dello storicismo, che giustifica gli eventi storici e assume quindi il punto di vista di coloro che hanno vinto nella storia. Egli indica, invece, una possibilità di vittoria per il materialismo storico, se questo " prende al suo servizio la teologia ", che oggi " è piccola e brutta ". Il recupero della tradizione messianica consente infatti di concepire il tempo come un processo non lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari che frantumano la continuità storica: " la coscienza di far saltare il 'continuum' della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un'immagine eterna del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice 'C'era una volta' nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il 'continuum' della storia ".

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #146 il: 28 Gennaio 2013, 15:21:03 »
HARALD BOHR :
(Copenaghen, 22 aprile 1887 – Copenaghen, 22 gennaio 1951)

...è stato un matematico e calciatore danese, di ruolo mediano.
 
Le sue qualità tecniche gli permisero di essere chiamato nel 1908 nella Nazionale di calcio per i Giochi olimpici del 1908, dove vinse una medaglia d'argento.

Dopo aver conseguito la laurea nel 1910 Harald Bohr divenne un eminente matematico, mettendo le basi al campo delle funzioni quasi periodiche, mentre suo fratello Niels fu premio Nobel per la fisica.
Harald Bohr nasce nel 1887 da Christian Bohr, un professore di fisiologia, ed Ellen Adler Bohr, figlia di una facoltosa famiglia ebrea. Harald ebbe sempre un'affinità particolare con suo fratello maggiore, che il The Times paragonò a quella esistente tra il capitano Cuttle ed il capitano Bunsby dell'opera di Dickens Dombey e Figlio. Matematico e accademico.
Come suo padre e suo fratello prima di lui, Harald si iscrisse all'Università di Copenaghen, dove studiò matematica ottenendo il master nel 1909 e la laurea l'anno seguente. Tra i suoi professori ci furono Hieronymus Georg Zeuthen e Thorvald N. Thiele. Bohr si occupò principalmente dell'analisi matematica, i suoi primi lavori concernevano soprattutto la serie di Dirichlet ed anche il suo dottorato intitolato: Bidrag til de Dirichletske Rekkers Theori (Contributi alla Teoria delle serie di Dirichlet). Una collaborazione con Edmund Landau portò al successivo sviluppo del teorema di Bohr-Landau, riguardante la distribuzione degli zeri in una Funzione zeta di Riemann.
Nel 1915 divenne professore al Politecnico di Copenaghen ed iniziò una fruttuosa collaborazione con il professore di Cambridge G. H. Hardy. La sua carriera al politecnico finì nel 1930, allorché prese una cattedra all'Università di Copenaghen, che mantenne fino al 1951, anno della sua morte, venendo sostituito dal matematico Jakob Nielsen. Børge Jessen fu uno dei suoi tanti studenti.
Nel 1930 divenne il leader del movimento di critica alle teorie anti-semite che si stavano diffondendo in Germania in quel periodo, e in un articolo sul Berlinske Aften criticò aspramente le idee di Ludwig Bieberbach riguardo alla razza.
Bohr fu anche noto per essere un insegnante modello e la medaglia annuale rilasciata dall'Università di Copenaghen al professore migliore fu intitolata Harald in suo onore. Con Johannes Mollerup scrisse anche un testo di analisi matematica per l'università: Lærebog i matematisk Analyse.

Calciatore :
Bohr fu anche un giocatore di calcio, nel ruolo di mediano. Esordì nel 1903 all'età di 16 anni nell'Akademisk Boldklub, insieme al fratello, che invece giocava come portiere. Nel 1908 fu giocato il torneo di calcio dei giochi olimpici, la prima volta che la Danimarca partecipava ad un torneo internazionale, ed il suo apporto fu decisivo nella partita contro la Francia, nella quale segnò due gol ed il cui risultato fu 17-1 per la Danimarca La Danimarca successivamente affrontò il Regno Unito in finale, e la partita fu a favore dei britannici che vinsero 2-0. Dato che partecipò alla finale, Bohr ricevette la medaglia d'argento.

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« Ultima modifica: 18 Febbraio 2013, 13:08:08 da StefanoG »

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #147 il: 28 Gennaio 2013, 16:02:39 »
CLAUDE CHABROL

Claude Chabrol :
(Parigi, 24 giugno 1930 – Parigi, 12 settembre 2010)

..... è stato un regista, sceneggiatore e attore francese.
 
È considerato, insieme a Truffaut, Godard, Rivette, Rohmer, uno dei padri fondatori della Nouvelle Vague
Figlio di un farmacista, Chabrol si avvicina, giovanissimo, alla settima arte lavorando come proiezionista in un piccolo paesino. Dopo gli studi in Scienze politiche, diventa critico dei Cahiers du Cinéma (nel 1957, pubblica con Eric Rohmer un libro su Alfred Hitchcock) fino a quando, nel 1958, grazie ai soldi dell'allora ricca moglie, Agnès, fonda insieme a Jacques Rivette una casa di produzione cinematografica.
In quello stesso anno, partecipa alla nascita della Nouvelle Vague francese con il suo film d'esordio, Le beau Serge, considerato il primo film del movimento[1][2], a cui seguirà I cugini (1959), che vincerà l'Orso d'oro al Festival di Berlino. I suoi primi film, Le beau Serge e I cugini (1958-59), che fanno esultare la critica, non entusiasmano però molto il pubblico, che ne scopre il talento solo negli anni sessanta con film più commerciali come La tigre ama la carne fresca, la cui sceneggiatura è scritta anche da Stéphane Audran, sua seconda moglie (la prima fu Agnès Marie-Madeleine Goute). Seguono altre pellicole dello stesso tenore (Landru, 1963; Les biches, 1968), fino a quando il regista riesce a conquistarsi una patente di coerenza e di moralità quale analista della borghesia di provincia (da Stéphane, una moglie infedele, 1968, e Il tagliagole, 1970, a L'amico di famiglia, 1973).
Negli anni settanta avviene l'incontro con l'attrice Isabelle Huppert, che diventa una delle interpreti preferite dal regista. Quegli anni saranno anni di cambiamenti per Claude Chabrol. Il regista non solo cambia molti dei suoi collaboratori, ma intraprende la sua carriera di film per la televisione e di opere dalle grandi coproduzioni.
Riservò alla televisione una serie di Histoires insolites, che influì sullo stile oggettivo di Una gita di piacere (1974), cruda indagine matrimoniale, e di Alice ou la dernière fugue (1977), girato alla maniera di Fritz Lang.
Ha poi realizzato Violette Nozière (1978), Le cheval d'orgueil (1980), tratto da un romanzo di Pierre-Jakez Helias, Volto segreto (1986), Il grido del gufo (1987), Un affare di donne (1988), Giorni felici a Clichy (1990), Madame Bovary (1991), Betty (1992), L'inferno (1994), Il buio nella mente (1995, Coppa Volpi alle due protagoniste, Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire, alla Mostra del Cinema di Venezia per la migliore interpretazione femminile).
La notorietà all'estero, però, gli arriva soprattutto con Un affare di donne (1988) e con le sue successive collaborazioni con la Huppert.
Ancora Isabelle Huppert è stata la protagonista di Rien ne va plus (1997) con Michel Serrault.
Nel 1998 Chabrol ha firmato uno dei migliori film della sua lunga carriera, Il colore della menzogna, mentre nel 2000 il suo Grazie per la cioccolata è stato presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 2003 ha presentato al Festival di Berlino Il fiore del male, tratto da Qui est criminelle?, romanzo di Caroline Eliacheff che ha come tema centrale la colpa quale malattia ereditaria.
Ha presentato fuori concorso a Venezia La damigella d'onore (2004) e L'innocenza del peccato (2007).
I suoi film raccontano, spesso basandosi sui romanzi di Georges Simenon, una provincia il cui apparente conformismo borghese serve a coprire un vaso di Pandora, colmo di vizi e odi.

tratto da Wikipedia

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rais

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #148 il: 28 Gennaio 2013, 16:04:09 »
chi è vissuto da giovane a Parigi lo ricorderà bene

Offline StefanoG

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Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #149 il: 28 Gennaio 2013, 16:05:43 »
DELLO STESSO CHABROL MYMOVIES SCRIVE :

Claude Chabrol : Data nascita: 24 Giugno 1930, Parigi (Francia)
Data morte: 12 Settembre 2010 (80 anni), Parigi (Francia)

Nato a Parigi nel 1930, cresce nel piccolo villaggio di Sardent (quella provincia che così spesso entrerà nei suoi film) dove il padre è farmacista e dove, a 13 anni, fonda il primo cineclub del paese, appassionandosi alla letteratura poliziesca. Laureatosi in Lettere a Parigi, frequenta gli ambienti del cinema e incontra i registi Godard, Truffaut e Rohmer, insieme al quale scrive nel 1957 un libro su Hitchcock, autore destinato a influenzare profondamente la sua opera. Inizia quindi a collaborare con le riviste specializzate di cinema Arts e Cahiers du cinéma.

Gli esordi :
Chabrol lavora anche nell'ufficio stampa della Fox e nel 1957 dirige il suo primo film, Le beau Serge (Pardo d'argento al festival di Locarno per la miglior regia) che inaugura di fatto la Nouvelle Vague, di cui Chabrol sarà uno degli artefici. Il film anticipa già quelli che diventeranno i tratti distintivi del cinema di Chabrol: l'introspezione psicologica dei personaggi e dei loro rapporti, una trama spesso poliziesca e la descrizione accurata di un ambiente sociale.
Da quel momento inizia per Chabrol una lunga e prolifica carriera, segnata quasi per intero dalla fedeltà al genere poliziesco, che il regista reinterpreta in modo personale, privilegiando con costanza alcuni aspetti: l'analisi psicologica dei personaggi, l'attenzione per ambiti spesso ristretti alla dimensione del piccolo paese, la condizione borghese come condanna all'insoddisfazione, l'ambiguità morale che sta alla base dei comportamenti delittuosi. Si può dire che Chabrol abbia ribaltato dall'interno la logica del giallo classico (genere deputato a rassicurare il pubblico confortandolo con la finale punizione del colpevole e con il ristabilimento dell'ordine turbato), immettendovi elementi di inquietudine e problematicità tali da lasciare piuttosto turbati. Tra drammi psicologici e polizieschi, Chabrol mette al centro della propria riflessione le ossessioni e le contraddizioni della classe borghese.

La lunga e prolifica carriera :
 Il regista francese ha diretto oltre cinquanta film fra i quali vanno sicuramente segnalati I cugini (1959, Orso d'oro al festival di Berlino), Donne facili (1960), Un affare di donne (1988), Madame Bovary (1991), Il buio nella mente (1995), Rien ne va plus (1997) e Grazie per la cioccolata (2000).

 Claude Chabrol è morto a Parigi a ottant'anni il 12 settembre 2010

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