Ve lo dico in fiorentino stretto: basta cazzate.
Per me hai "milli canni di rraggiuni"
Una volta il siciliano, quando era preso da forte emozione o fermamente convinto delle proprie idee, ubbidiva senza che se ne accorgesse, alle sollecitazioni della fantasia servendosi di espressioni dialettali esagerate che si staccavano dalla rigorosa logica del linguaggio usuale.
E’ il caso del detto “Aviri milli canni di rragiuni” (avere ragione da vendere), un’iperbole usata sul piano della lunghezza, dove “canni” non deriva come potrebbe sembrare, dall’assimilazione della r di carni in n (come “mangiariacci i canni a unu = parlare male di qualcuno), ma dal plurale della voce canna.
Il numero “milli”, indicando in questo caso non il valore proprio di mille, ma una quantità indeterminata per eccesso, contribuisce alla formazione del traslato.
Anticamente la canna era una misura lineare di otto palmi equivalente a metri 2,08 (il palmo corrispondeva a poco più di un quarto di metro).
La “menzacanna”, che all’incirca era pari a un metro, ai primi del Novecento veniva usato dalle donne per prendere la misura delle stoffe che si accingevano a cucire e quando arrivava il mercante che vendeva, porta a porta, i tessuti, erano solite chiedere “mezza canna di sita, na canna di tila, na canna e mezza di pannu. Anche i sarti tenevano nel loro laboratorio artigianale il bastone graduato di mezza canna. Nel suo vocabolario Italiano-Siciliano, Salvatore Cammilleri riporta che la mezza canna, cioè il metro di legno che ogni buona massaia teneva in casa, veniva chiamato anche “la raggiuni” perché insegnava con i suoi colpi bene assestati le buone maniere ai più discoli. Definizione questa confermata dal vocabolario del Piccitto che tra gli altri significati, dà a rraggiuni pure quello di “sferza con la quale picchiavan gli scolarettio” per tanto è ovvio dedurre che all’uso anche correttivo di questo attrezzo sia nato l’altro detto “sunaraccilli di santa rraggiuni” che equivale a dargli un fracco di legnate.
Aviri milli canni di rraggiuni significava avere il massimo della ragione. Chi credeva fermamente di avere ragione sul suo interlocutore, per rabbia poteva sostenere la tesi aggiungendo al primo un secondo traslato per eccesso: “Ju haiu milli canni di rraggiuni e tu hai tuttu lu tortu di lu munnu” cioè sbagli sotto tutti i punti di vista.
Dipendeva dal comportamento dell’altro se la controversia aveva sviluppi più o meno spiacevoli. Se l’interlocutore, intestardito rispondeva “tu rraggiuni che peri” (peri=piedi) si poteva arrivare alla lite vera e propria, se invece ammetteva di avere torto, usando l’espressione “unni cc’è vista nun cci voli prova (quel che si vede non ha bisogno di prova), la disputa finiva lì.
A chi, con la frase “avevutu rraggiuni tu”, era costretto dall’evidenza a riconoscere tardivamente di avere torto e si scusava per il danno arrecato a causa della propria ostinazione, l’altro amaramente poteva rispondere: “a rraggiuni è rè fissa (degli stupidi) che equivale a “ormai non c’è più niente da fare, mi resta solo la ragione che, ormai, non serve a nulla”.
I nostri avi, al fine di evitare un litigio, ai due contendenti raccomandavano: “Rraggiunatavilla !!” (ragionatevela !!) Quando il consiglio non sortiva alcun risultato, i nostri anziani insistevano non con chi, secondo loro, aveva torto e “nun nni vuleva sentiri di rraggiuni”, ma con chi pensavano che fosse nel giusto perché lo ritenevano più saggio. Gli dicevano: si hai rraggiuni, prima ascutulu (ascoltalo, non prevaricarlo, fai in modo che esprima le sue idee) e doppu accorditi !! (dopo accordati).
Nel corso della discussione, con il presuntuoso non bisognava affermare la propria tesi con la sopraffazione e le urla: “nun è ca cu cchiù schigghia havi rraggiuni” (non è che chi più grida ha ragione !!).
Occorreva essere prudenti, con l’ostinato non si doveva usare mai l’espressione “tu nun hai rraggiuni”, che era considerata un’offesa in quanto significava “tu ormai non connetti più”.
Se il danno era consistente, il danneggiato poteva “addummannari cuntu e rraggiuni” legalmente.
Il mio portinaio, che viveva in un mondo tutto suo, sconsigliava di adire le vie legali perché non aveva fiducia nella legge e negli avvocati. Era convinto che “a liggi è uguali ppi tutti, ma tutti nun sunu uguali ppà liggi”. A suo dire, con i propri legali ci volevano “vucca chiusa e vurza aperta” (bocca chiusa e portafoglio aperto per pagarli).
Con la solita ironia, una volta mi disse: Prifissuri, ‘u bbicchinu spogghia ‘i morti e l’avvucatu spogghia i vivi !” ( il becchino spoglia i morti e l’avvovato i vivi !).
(scusate l'OT)
da Palori a tinchitè di Carmelo Tuccito – editore Morrone.