Autore Topic: Autori con la pipa in bocca  (Letto 336738 volte)

Offline Aqualong

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #435 il: 17 Maggio 2010, 17:56:47 »
Michael Krüger

Nato nel 1943 a Wittgendorf, in Sassonia. Attualmente vive a Monaco di Baviera, dove dirige la casa editrice Hanser Verlag, di chiara fama internazionale.
Dal 1976 a oggi ha pubblicato circa trenta opere alternando con sorprendente assiduità raccolte di poesie, romanzi e novelle.
É responsabile della rivista letteraria Akzente e instancabile curatore di volumi di poesie.

POCO PRIMA DEL TEMPORALE
(antologia di versi)

Dove sono nato

(La traduzione è delle più ignobili,l'editore quasi a scusarsi che la poesia tradotta si è trasformata in una ciofeca,scrive:
"Si ricorda che la formattazione dei testi e la scelta dei vocaboli è ESATTAMENTE come nel testo originale, nulla è stato variato".)


Mio nonno sapeva riconoscere più di cento uccelli
dal loro verso, senza contare i dialetti,
che venivano parlati nelle siepi,
scuole buie dietro la cascina,
dove erano di guardia gli stiaccini.
Mio nonno era uno specialista di patate.
Le cavava con le mani, le spezzava con i pollici,
che si facevano bianchi,
mi faceva leccare dove si erano rotte.
Farinose, buone per maiali e uomini.
Anche dopo l'espropriazione continuava a credere, ad ogni costo, in Dio,
perciò dovevo scavargli le patate del campo di una volta.
Come su quadri olandesi nuvole pesanti attraversavano il cielo sassone,
venivano dalla Russia e dalla Polonia e proseguivano verso ovest,
il loro carico diventava così leggero,così trasparente e fine,
che in Francia venivano vendute per seta.
All'ovest, diceva, hanno luogo trasformazioni, veniamo trasformati.
In paese mancavano alcuni dei suoi amici;
erano in Russia a caricare le nuvole.


Mia nonna usava il ferro per i ricci,
per mettere in piega i suoi capelli sottili.
Bisogna presentarsi al Signore ben pettinati.
Questi di solito veniva di notte, quando io ero già a dormire,
si sedeva sulla sponda del letto e con lei conversava in sassone.
Bisbigliavano entrambi come se avessero un segreto.
A volte erano cortesi l'uno con l'altra,
altre volte invece litigava con lui
come con il nonno quando posava il suo occhio di vetro accanto al piatto.
Mettendolo alla rovescia si riesce a guardare all'interno, dentro la testa,
dove vivono i pensieri,
diceva caricando la pipa con produzione propria,
che era appesa alla parete accanto al tavolo,
foglie flosce,infilzate a filari.
Le maniche della giubba del nonno erano cosparse di cicatrici.
Come i tuoi polmoni, ripeteva la nonna,
tutte e due di materia materiale marrone.
Così scorrevano le giornate.
A cena c'erano patate con o senza salsa.
Quando alla cascina si macellava trovavo carne bollita nel mio piatto,
ma non dovevo chiedere com'era arrivata da noi.
La carne bollita vola, ecco tutto!
Mi figuravo dio come una persona, disposta a sopportare ogni cosa.


Mio nonno non leggeva più.
I libri ce li ho tutti in testa, diceva,
ma in gran disordine.
In cambio narrava volentieri, e soprattutto del re,
a quanto diceva si era interessato a lui.
A caccia avrebbe dovuto portargli una lepre a tiro,
ma il nonno aveva nascosto la bestia sotto il suo pastrano.
Ancora oggi sento battere il cuore della lepre,
esclamava toccandosi il punto, dove era appeso il suo orologio.
Le lepri hanno un cuore debole di cui non ci si può fidare.
Anche dallo stato non c'era da aspettarsi molto.
Quando la nonna non era in camera ascoltavamo la radio,
voci taglienti,
che facevano tremare il fumo della sua pipa.
Mascalzoni, diceva mio nonno,
che in verità non imprecava mai.
La musica era di casa nelle vicinanze di Beromünster,
un giorno ci andremo,
diceva, e ascolteremo Bach e Caikovskij.
Poi si addormentava.
Sull'occhio di vetro la palpebra non era mai chiusa del tutto.


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #436 il: 18 Maggio 2010, 23:21:15 »
Di lui abbiamo già parlato,fuma e scrive ogni volta qualcosa di  fantasticamente sublime,
il suo tabacco ha profumo e aroma d'infinito.

Ray Bradbury

Terriccio gratis

— Non scavate mai in inverno? Per qualche funerale particolare? Un morto
particolare?
— Alcuni cimiteri hanno delle specie di badili a tubo. Pompano acqua bollente
attraverso la lama; si può dar forma a una fossa in poco tempo con quei cosi, come
posare mine. Noi non si va d’accordo con quelle cose. Picconi e badili.
Il ragazzo esitò: — Non è mai preoccupato?
— Vuol dire, se non ho mai paura?
— Be’... Sì.
Dopo un po’, il vecchio tirò fuori una pipa, la riempì di tabacco che pressò con un
pollice calloso, l’accese, soffiò fuori una lunga nuvoletta di fumo.
— No — disse alla fine.
Il ragazzo si ingobbì.
— Deluso? — gli chiese il vecchio.
— Pensavo, forse, almeno una volta...
— Oh, quando si è giovani, forse. Una volta...
— Allora c’è stata un’occasione! — il ragazzo risalì di un gradino.
Il vecchio gli lanciò un’occhiata tagliente, poi riprese a fumare. — Una volta. —
Fissava le colline rivestite di marmo e gli alberi scuri. — Questo cimitero
apparteneva già a mio nonno. Io sono nato qui. Il figlio di un becchino impara a
ignorare certe cose.
Il vecchio inspirò alcune volte e continuò: — Avevo solo diciotto anni, i vecchi via
in vacanza, io qui a occuparmi di tutto, da solo, tagliare l’erba, scavare fosse, e così
via. Da solo, quattro fosse da scavare in ottobre. Dal lago venne un freddo cane,
ghiacciò le fosse, le lapidi sembravano coperte di neve, il terreno così gelato da
diventare compatto.
“Una notte uscii. Niente luna. L’erba era dura sotto le suole, mi vedevo il respiro,
tenevo le mani in tasca, camminavo, ascoltavo.”
Il vecchio esalò dei fragili fantasmi dalle narici sottili. — Poi sentii quel suono.
Restai pietrificato. Era una voce, gridava. Qualcuno si era risvegliato nella bara, mi
aveva sentito camminare e si era messo a gridare. Rimasi lì immobile. Gridava e
gridava. La terra vibrava. In una notte così fredda, il suolo diventa come porcellana,
risuona, capisce?
“Bene...” il vecchio chiuse gli occhi per ricordare. “Me ne stavo lì come se il vento
freddo del lago mi avesse gelato il sangue. Uno scherzo? Mi guardai attorno e pensai
‘Immaginazione!’ No, era sotto i miei piedi, acuta, chiara. Voce di donna. Conosco
tutte le lapidi!” Le palpebre del vecchio tremarono. “Posso elencargliele in ordine
alfabetico, o per anno, mese, giorno. Scelga un anno qualsiasi e vedrà. Che ne dice
del 1899? Se ne andò Jake Smith. E 1923? Perdemmo Betty Dallman. E 1933? P.H.
Moran! Scelga un mese. Agosto? Agosto, l’anno scorso, Henrietta Wells, seppellita.
Agosto 1918? Nonna Hanlon, l’intera famiglia! Influenza! Scelga un giorno, il
quattro di agosto? Smith, Burke, Shelby portati via. Williamson? E su quella collina,
marmo rosa. Douglas? Vicino al canalone...”
— La storia — lo sollecitò il ragazzo.
— Eh?
— La storia che stava raccontando.
— Oh, la voce da sottoterra? Bene, conosco tutte le pietre. Senza muovermi da
dove mi trovavo, avevo indovinato che quella era la voce di Henrietta Fremwell, una
ragazza a posto, aveva ventiquattro anni, suonava il piano al teatro Elite. Alta,
aggraziata, bionda. Come sapevo che era la sua voce? Lì dov’ero c’erano solo tombe
di uomini. La sua era la sola che appartenesse a una donna. Feci un salto e appoggiai
un orecchio sulla lapide. Sì! La sua voce, lì sotto, che gridava!
“‘Signorina Fremwell!’ urlai.
“‘Signorina Fremwell!’ urlai di nuovo.
“La sentivo, là sotto, adesso piangeva soltanto. Forse mi aveva sentito, forse no.
Piangeva soltanto. Mi lanciai giù dalla collina così in fretta che scivolai e mi ferii la
testa su una lapide. Mi rialzai gridando a mia volta! Tutto sporco di sangue, raggiunsi
il capanno degli attrezzi e trascinai fuori un badile e qualcos’altro. Poi rimasi lì, nella
luce della luna con un badile in mano. Il suolo era ghiaccio compatto, compatto. Mi
appoggiai a un albero. Mi ci sarebbero voluti tre minuti per tornare alla tomba della
ragazza e otto ore per scavare, in quella notte gelida, fino alla sua cassa. Il terreno era
come vetro. Una bara è una bara; c’è solo quel tanto d’aria. Henrietta Fremwell era
stata seppellita due giorni prima della gelata, aveva dormito per tutto quel tempo,
consumando aria. Proprio prima che venisse il freddo, aveva piovuto. La terra sulla
bara della ragazza si era imbevuta d’acqua piovana e poi era ghiacciata. Avrei dovuto
scavare per quasi otto ore; ma piangendo in quel modo, Henrietta doveva aver
consumato quasi tutta l’aria.”
Il vecchio aveva lasciato spegnere la pipa. Si dondolò nella sua sedia, avanti e
indietro, avanti e indietro, in silenzio.
— Ma — chiese il ragazzo — che cosa ha fatto?
— Niente — rispose il vecchio.
— Niente!?
— Non c’era niente che potessi fare. Il terreno era compatto come roccia. Neanche
sei uomini avrebbero potuto scavare quella fossa. Non c’era acqua calda lì vicino. E
la ragazza poteva aver gridato per ore prima che io la sentissi... così...
— Lei non ha fatto... nulla?
— Qualcosa... Ho rimesso via nel capanno badile e piccone, l’ho chiuso a chiave e
sono tornato a casa. Mi sono acceso un fuoco e ho bevuto una cioccolata calda,
tremavo e tremavo. Lei si sarebbe comportato in modo diverso?
— Io...
— Avrebbe scavato per otto ore nel ghiaccio, duro come roccia, per raggiungere
quella donna solo quando fosse stata già morta, davvero morta, per la disperazione, il
freddo, la mancanza d’aria, e solo per doverla seppellire di nuovo? E poi avrebbe
avvisato i genitori e glielo avrebbe raccontato?

Ancora una volta

Black, alla fine accese la pipa e proferì una teoria.
— Ti è mai capitato di chiederti — meditò dietro una nube di fumo — in quale
stagione dell’anno ci troviamo?
— Stagione dell’anno? — rispose Fentriss, esasperato.
— Be’, per caso, la notte in cui il tuo albero cadde e i minuscoli canzonettisti
lasciarono la città, non era la notte dell’equinozio d’autunno?
Fentriss chiuse una mano a pugno e si colpì la fronte.
— Vuoi dire?
— I tuoi amici hanno abbandonato il pollaio. Al momento, dovrebbero trovarsi più
o meno sopra San Miguel Allende.

Ma in quale città, sotto quale albero, di quale specie, dovrò fermarmi dopo aver a
lungo vagato? Un albero come il mio? I miei uccelli vanno alla ricerca di posatoi tutti
della stessa famiglia? o in Ecuador o in Perù qualsiasi albero andrebbe bene? Dio,
potrei sprecare dei mesi cercando di trovarli e tornare indietro con mangime per
uccelli nei capelli ed escrementi di volatili sui risvolti della giacca. Cosa facciamo,
Black? Parla!
— Bene, per prima cosa — Black riempì e riaccese la pipa, esalando pensieri
profumati — puoi liberarti questo ceppo e piantare un nuovo albero.
La conversazione si era svolta attorno al ceppo, da dogli, in cerca di ispirazione,
dei calci di tanto in tanto Fentriss si bloccò con un piede a mezz’aria. — Dillo
ancora?!
— Ho detto...
— Povero me, sei un genio! Lascia che ti baci!
— Preferirei di no. Forse potresti abbracciarmi.
Fentriss l’abbracciò, tutto eccitato. — Amico!
— Lo sono sempre stato.
— Andiamo a prendere un badile e una vanga.
— Vai tu. Io starò a guardare.
Un minuto più tardi, Fentriss tornò indietro di corsa con una vanga e un piccone.
— Sei sicuro di non volerti unire a me?
Black succhiò la pipa, esalò del fumo, — Più tardi.
— Quanto potrebbe costare un albero già alto?
— Troppo.
— Sì, ma se l’albero fosse qui e gli uccelli tornassero?
Black espirò dell’altro fumo. — Potrebbe essere un. buon affare. Opera numero
due: “L’inizio” di Charles Fentriss, una cosa simile.
— “L’inizio”, o forse, “Il ritorno”.
— Uno dei due.
— Oppure — Fentriss colpì il ceppo con il piccone — “Rinascita”. — Colpì
ancora. — “Ode alla gioia”. — Un altro colpo. — “Raccolto di primavera”. — Un
altro. — “Nuova musica dal Paradiso”. Che te ne sembra, Black?
— Preferivo l’altro — gli rispose Black.

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #437 il: 19 Maggio 2010, 21:29:34 »
Creatura dell’inverno, della vegetazione o della notte, Babbo Natale fu per molto tempo rappresentato o in bianco o in verde o ancora in blu.
Poi all’improvviso, per iniziativa della Coca-Cola, il rosso si è imposto ,dopo è scomparsa la pipa.

Arnaud d’Apremont


La vera storia di Babbo Natale


Questo breve racconto rappresenta la primiere americana di Babbo Natale. Infatti nel dilizioso libro di Clement C. Moore, scritto nel 1822, compare per la prima volta Oltreoceano questo buffo vecchiatto, paffuto, bestito di pelliccia con un sacco di giocattoli sulle spalle. Entrano in scena anche la slitta e le renne "più veloci delle aquile"
L'iconografia di Babbo Natale è dunque relativamente recente e, nonostante il sempre più massiccio sfruttamento commerciale, ha mantenuto il suo fascino, almeno agli occhi dei più piccoli. E i pasticcieri non devono dimenticare che nel sacco, che l'allegro e rubicondo veccio dalla grande barba bianca porta sulle spalle, oltre ai giocattoli, c'è sempre tanto spazio per dolcetti, gelatine, cioccolatini ed altre leccornie artigianali.

Era la notte prima di Natale e tutta la casa era in silenzio,
nulla si muoveva, neppure un topino.
Le calze, appese in bell'ordine al camino,
aspettavano che Babbo Natale arrivasse.

I bambini rannicchiati al calduccio nei loro lettini
sognavano dolcetti e zuccherini;
La mamma nel suo scialle ed io col mio beretto
stavamo per andare a dormire
quando, dal giardino di fronte alla casa, iunse un rumore
Corsi alla finestra per vedere che cosa fosse successo,
spalancai le imposte e alzai il saliscendi.

La luna sul manto di neve appena caduta
illuminava a giorno ogni cosa
ed io vidi , con mia grande sorpresa,
una slitta in miniatura tirata da ott minuscole renne
e guidata da un piccolo vecchio conducente arzillo e vivace;
capii subito che doveva essere Babbo Natale.

Le renne erano più veloci delle aquile
e lui le incitava chimandole per nome.
"Dai, Saetta! Dai, Ballerino!
Dai, Rampante e Bizzoso!
Su, Cometa! Su, Cupido! Su, Tuono e Tempesta!
Su in cima al portico e su per la parete!
Dai presto, Muovetevi!"

Leggere come foglie portate da un mulinello di vento,
le renne volarono sul tetto della casa,
trainando la slitta piena di giocattoli.

Udii lo scalpiccio degli zoccoli sul tetto,
non feci in tempo a voltarmi che
Babbo Natale venne giù dal camino con un tonfo.
Era tutto vestito di pelliccia, do capo a piedi,
tutto sporco di cenere e fuliggine
con un gran sacco sulle spalle pieno di giocattoli:
sembrava un venditore ambulante
sul punto di mostrate la sua mercanzia!

I suoi occhi come brillavano! Le sue fossette che allegria!
Le guance rubiconde, il naso a ciliegia!
La bocca piccola e buffa arcuata in un sorriso,
la barba bianca come la neve,
aveva in bocca una pipa
è il fumo circondava la sua testa come una ghirlanda.
Il viso era largo e la pancia rotonda
sobbalzava come una ciotola di gelatina quando rideva.
Era paffuto e grassottello, metteva allegria,
e senza volerlo io scoppiai in una risata.
Mi fece un cenno col capo ammiccando
e la mia paura spari,

non disse una parola e tornò al suo lavoro.
Riempì una per una tutte le calze, poi si voltò,
accennò un saluto col capo e sparì su per il camino.
Balzò sulla slitta, diede un fischio alle renne
e volò via veloce come il piumino di un cardo.
Ma prima di sparire dalla mia vista lo udii esclamare:
Buon Natale a tutti e a tutti buona notte!

Santa Claus, il san Nicola del pastore protestante Moore non è il vescovo cristiano tradizionale, ma un piccolo elfo paffuto, uno spirito magico del solstizio d’inverno nordico.
Allo stesso modo Dickens metterà in scena i suoi spiriti del Natale passato, del Natale presente e del Natale futuro nel suo Racconto di Natale.
Le caratteristiche essenziali del «nostro» Babbo Natale sono tutte presenti: abiti di pelliccia (niente indica, tuttavia, che l’abito sia rosso, ma si dice che è coperto di fuliggine),
una folta barba bianca, la pipa (attributo del quale è stato privato da diverse legislazioni recenti),



« Ultima modifica: 20 Maggio 2010, 14:19:06 da Aqualong »
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #438 il: 20 Maggio 2010, 14:35:56 »
In un'altra traduzione si parla di problema da tre pipe,chissà poi di che legno sarà stata la pipa nera di abete?
(It is quite a three pipe problem, and I beg that you won't speak to me for fifty minutes. )

Arthur Conan Doyle

La Lega degli uomini dai capelli rossi

— Va bene, signor Wilson. Sarò felice di esprimere la mia opinione sull’intera faccenda nel giro di un paio di giorni. Oggi è sabato, io spero entro lunedì di giungere a una conclusione.
— Bene, Watson — disse Holmes quando il nostro visitatore ci ebbe lasciati — che cosa ne pensi?
— Non ne penso nulla — risposi con franchezza. — È una faccenda alquanto misteriosa.
— Di regola — disse Holmes — più bizzarra si dimostra una cosa e meno misteriosa è. È il vostro luogo comune, i delitti senza caratteristiche sono veramente sorprendenti, proprio come la faccia ordinaria è la più difficile da identificare, ma io devo essere pronto per questa faccenda.
— Allora, che cosa farete? — chiesi.
— Fumerò — rispose — è un problema che richiede tre fumate e io vi chiedo di non parlarmi per almeno cinquanta minuti. — Poi si sistemò sulla sua sedia con le ginocchia magre raccolte fino a toccare il naso simile a quello di un falco, e restò lì con gli occhi chiusi e la pipa nera d’abete che sporgeva come il becco di qualche strano uccello. Ero giunto alla conclusione che si fosse addormentato, mentre invece faceva dei cenni con il capo e improvvisamente saltò su dalla sedia con i gesti di un uomo che è giunto a una decisione, poi posò la pipa sulla mensola.
— Questo pomeriggio alla St. James’s Hall ci sono le commedie di Sarasate — osservò — cosa ne pensate Watson? I vostri pazienti potrebbero fare a meno di voi per qualche ora?


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #439 il: 21 Maggio 2010, 15:09:45 »
Posto questo brano anche se la pipa è nominata una sola volta,però è inserita fra i modi di vivere di quel tempo.
Con uno spazio tutto suo,un suo ruolo e pari importanza con altri simboli e miti dell'epoca.
Non senza nostalgia si possono fare paragoni con  periodi successivi dove si perde ogni traccia della pipa e anche del suo grande ruolo di socializzazione.
Gli odierni status sono diversi,auto,internet,telefonino,tv,avvicinano quello che è lontano,ma isolano dai rapporti col "prossimo" più vicino.



Marco Ventura

IL CAMPIONE E IL BANDITO

La vera storia di Costante Girardengo e Sante Pollastro
Prologo
La storia che voglio raccontare è cominciata molti anni fa, quasi un secolo, e non è ancora finita.È la storia dell’amicizia tra Sante Pollastro, famoso bandito degli anni venti, e Costante Girardengo, primo campionissimo del ciclismo.
De gregori la narra con la sua canzone: «due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta, un’unica passione per la bicicletta».

Il quartiere italiano a Parigi, La petite Italie, era un concentrato di baracche tappezzate di carta di giornale contro gli spifferi, gabinetti in comune e cortili coltivati a zucchine con cui sfamare la prole, e vecchi che vegetano nei ripostigli delle scope. I mariti erano tutti visionari della dittatura del proletariato. Le donne battezzavano i figli di nascosto.
Negli anni venti, la comunità italiana si arricchisce degli esuli e dissidenti antifascisti. Crescono i cenacoli culturali italo-francesi. Parigi nel 1925 significa le nostalgie elencate da Armand Lanoux in Paris, 1925 (Il Saggiatore, 1958): la chitarra, lo xilofono, il pacchetto di tabacco e la pipa in terracotta dell’austerità cubista; il porto, lo stadio, il cronometro, l’allenamento, il massaggio; Paul Morand e Montherland; il locale notturno, la carlinga, la cupola, la villa, il sassofono negro e la capitana dell’esercito della salvezza; i volumi della psicoanalisi e i trattati sulla relatività; la tessera di residente privilegiato, il passaporto falso, il cosmopolitismo, il lirismo delle macchine; la mano in gesso di Cocteau, lo studio di Philippe Soupault su Lautréamont, le canzoni di Damia e di Yvonne Georges, le edizioni della Sirena, la mano tagliata di Cendrars, il coltellaccio corso di Francis Carco, Fantomas riveduto da Robert Desnos; l’assassino, il gangster e la ballerina spia;
i locali con pareti rosse laccate, lanterne di colore, globi a specchio, orchestre di tango e jazz, i dancing, il Charlestone lanciato da Josephine Baker al music-hall dei Champs Elysées, il giocatore alle corse, l’entraineuse, il barman, il gigolò; le 184 sale cinematografiche importanti, Rodolfo Valentino che si accinge a presentare Aquila nera in una festa di beneficenza e il suo solo apparire guarisce una ragazza;
la danza dei panini della Febbre dell’oro di Chaplin; le invettive Dada, gli atelier dei pittori, l’amore a prima vista tra la bionda vallona Lucie e il pittore Foujita che la espone nuda al Salone d’Autunno; la paglietta di Maurice Chevalier, la Renault 40 CV e la moda di Tutankamon, i romanzi degli autori con la M (Morand, Mauriac, Malraux, Montherland e Mac Orlan), l’architettura Gomma e i mobili di Sauvage, Mistinguett e Chevalier...


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #440 il: 22 Maggio 2010, 12:14:27 »
Paula Fox

È nata a New York il 22 aprile 1923. Figlia di uno sceneggiatore alcolizzato e di una giovane psicolabile, la Fox fu abbandonata in orfanotrofio e poi adottata. A sei anni viene affidata per poi vivere un lungo periodo a Cuba
Dal 1955 al 1958 ha frequentato la Columbia University.Negli anni Settanta ha scritto e pubblicato sei romanzi, di cui Quello che rimane è diventato anche un film nel 1971, diretto da Frank D. Gilroy e interpretato da Shirley McLaine.
Paula Fox è la nonna della cantante e attrice Courtney Love, ex moglie del leader dei Nirvana, Kurt Cobain.(il cerchio si chiude)
 
IL GATTO CON UN OCCHIO SOLO

La vigilia di Natale, poi, l’albero avrebbe pervaso tutta la chiesa del suo meraviglioso profumo e si sarebbe sentito l’aroma di menta dei bastoncini di zucchero. Ma lui non ci sarebbe stato! Sarebbe stato in viaggio verso Charleston con zio Hilary.
Il signor Scully gli stava dicendo che era così contento che forse avrebbe festeggiato fumando un po’ di buon tabacco, benché con tutta probabilità ormai la sua scorta si fosse seccata e non valesse neppure la pena di accendere la pipa. Questa era in salotto e quando il padrone di casa andò a prenderla Ned annusò l’aria fredda che sapeva di mele. David Scully teneva la cesta con i frutti in quella stanza, insieme a un sacco di patate e a uno di cipolle. Il vecchio tornò in cucina con la pipa di schiuma. Il suo fornello era decorato con l’incisione di un Collie. Ned ebbe la sensazione che il signor Scully fosse più in forze che mai, non lo vedeva così da molto tempo... Lo osservò mentre riempiva con gesti rapidi il fornello, pressava il tabacco, prendeva un fiammifero dal davanzale della finestra e lo accendeva.
— Il nostro gatto tornerà e io gli darò da mangiare — precisò il vecchio. — Avrà fame, ora, e vorrà recuperare le forze. La signora Kimball mi ha portato un pollo, ieri. Gliene darò un po’. Vedrai... presto ce lo ritroveremo intorno e correrà come non l’hai mai visto.
Un pomeriggio in cui il suolo del bosco era spugnoso per via della neve che si stava sciogliendo e Ned era in piedi sotto la veranda dei Makepeace, le calosce bagnate fradicie, vide in lontananza il guizzo di qualcosa di strano, un barlume in movimento, rapido e indeterminato, proprio là dove il prato finiva e cominciava il bosco. Scrutò il punto esatto in cui ciò era avvenuto come se lo stesse esaminando al microscopio. Era il gatto. O almeno, un gatto. Mentre il ragazzo guardava, l’animale
scomparve, come uno sbuffo di fumo della pipa del signor Scully catturato da una corrente d’aria. Aveva qualcosa in bocca.


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #441 il: 25 Maggio 2010, 23:22:46 »
Ancora qualche pipa caricata a gris

GEORGES SIMENON

Il morto di Maigret

«Le dicevo, signor commissario...».
«Un momento, signora, la prego!».
Si riempì accuratamente la pipa continuando a guardare dalla finestra.
Quella vecchia, con le sue storie di avvelenamenti, gli avrebbe fatto perdere l’intera mattina, se non di più. Si era portata un mucchio di carte, piante, certificati, persino analisi di alimenti che si era presa la briga di far eseguire dal suo farmacista.
«Ho sempre diffidato, capisce?...».
Emanava un profumo violento, nauseante, che aveva invaso l’ufficio e cancellato il buon odore della pipa.
Fatto sta che per quasi un’ora il commissario dovette ancora starla a sentire mentre raccontava di tutti quelli che, nella grande casa di rue de Presbourg, dove la vita non doveva essere granché allegra, le propinavano veleno dalla mattina alla sera.
Finalmente, a mezzogiorno Maigret poté aprire la finestra; quindi, con la pipa in bocca, entrò nell’ufficio del capo.

Bene! Moers ha scoperto che il morto camminava a papera».
«Come?».
«A papera! Con le punte dei piedi in fuori, per intenderci».
Fece segno alla signora Maigret di caricargli la pipa e sorvegliò l’operazione con la coda dell’occhio, raccomandandole a gesti di non premere troppo il tabacco.
«Le stavo dicendo delle descrizioni che abbiamo di lui. Sono vaghe, eppure due persone su cinque hanno avuto la stessa impressione. “Non sono sicuro...” ha detto il padrone delle Caves du Beaujolais. “È un’impressione vaga... Eppure mi ricorda qualcosa... Ma cosa?”. Sappiamo però che non è un attore del cinema. E neppure una comparsa. Un ispettore ha fatto il giro degli studi. Non è un uomo politico, né un magistrato...».
«Maigret!» esclamò la moglie.
Maigret accese la pipa, senza smettere di parlare, inframmezzando il suo racconto con sbuffi di fumo.

Per tre giorni e due notti il commissario era rimasto incollato al cancello di un giardino, su una strada deserta nei dintorni di Fécamp, aspettando che un uomo uscisse dalla villa di fronte. Non c’erano altre case intorno. Soltanto campi. Persino le mucche erano al riparo nelle stalle. Avrebbe dovuto percorrere due chilometri per trovare un telefono e chiedere che qualcuno venisse a dargli il cambio. Nessuno sapeva che era là. Lui stesso non aveva previsto di andarci.
Per tre giorni e due notti era venuta giù una pioggia torrenziale e ghiacciata che gli ammollava il tabacco nella pipa. In tutto quel tempo erano passati sì e no tre contadini con gli zoccoli ai piedi che lo avevano guardato con diffidenza affrettando il passo. Maigret non aveva niente da mangiare, niente da bere e, quel che è peggio, dalla fine del secondo giorno non aveva più fiammiferi per la pipa.

Maigret e il signor Charles

Maigret giocava nel raggio di sole tiepido di marzo. Non giocava con i cubi, come quando era bambino, ma con due pipe.
Ce n’erano sempre cinque o sei sul suo tavolo e ogni volta che ne riempiva una la sceglieva con cura secondo il suo umore. Lo sguardo era vago, le spalle tozze. Aveva appena preso un’importante decisione, circa la sua carriera. Non rimpiangeva nulla, ma sentiva una certa malinconia.
Macchinalmente, con la più grande serietà, sistemava le pipe sulla carta assorbente in modo da tracciare delle figure più o meno geometriche, o simili a qualche animale. Sul tavolo, alla sua destra, stava ammucchiata la posta del mattino ancora inevasa.
Arrivando alla Polizia Giudiziaria, un po’ prima delle nove, aveva trovato una convocazione del questore, il che accadeva raramente, e vi si recò chiedendosi che cosa desiderasse.
Il questore l’aveva ricevuto subito, cordiale e sorridente.
«Non indovina perché ho voluto vederla?»
«Le confesso di no.»
«Si sieda. Accenda la sua pipa.»
Il questore era giovane, sulla quarantina, e proveniva dalle scuole superiori. Era elegante, forse un po’ troppo.
«Lei non ignora che il direttore della Polizia Giudiziaria va in pensione il mese prossimo dopo essere rimasto dodici anni al suo posto... Ho discusso ieri della sua successione col ministro dell’interno e siamo d’accordo nell’offrirle questa nuova responsabilità...»
Il questore si aspettava certamente un’espressione di gioia sul viso del suo interlocutore.
Maigret, al contrario, era diventato cupo.
«É un ordine?» Aveva domandato quasi borbottando.
«No, naturalmente. Ma deve rendersi conto che è una promozione importante, la più importante che un funzionario della Polizia Giudiziaria possa sperare...»
«Lo so, ma preferirei rimanere a capo della brigata criminale.

Giocherellava con la mente vuota. Le pipe, nella loro ultima sistemazione, facevano pensare a un palazzo di giustizia. La finestra era scintillante di sole. Il questore l’aveva accompagnato fino alla porta e gli aveva stretto amichevolmente la mano.
Maigret sapeva però che gli avrebbero serbato del rancore. Accese lentamente una delle sue pipe e fumò a piccole boccate. In pochi attimi egli aveva deciso il suo avvenire che non era lungo perché, fra tre anni, l’avrebbero mandato in pensione. Almeno, perbacco, gli lasciassero passare quei tre anni a modo suo!

Si sentiva inquieto. Aveva paura che, dopo aver riflettuto, lo sforzassero, in un modo o nell’altro, ad accettare quella nomina. Ma non la voleva a nessun prezzo. Fissava le pipe che cambiava ogni tanto di posto, come i pezzi di un gioco di scacchi.


Il porto delle nebbie

«Lisieux: tre minuti di sosta!...».
Maigret va a sgranchirsi le gambe sul marciapiede, carica un'altra volta la pipa. Da quando hanno lasciato Parigi ha fumato tanto che ora l'aria dello scompartimento si taglia col coltello.
«In carrozza!...».

Maigret, caricata la pipa, allungò la borsa del tabacco agli astanti. Il capitano Delcourt preferì una sigaretta. Ma il capoguardiano, arrossendo, si mise una presa di tabacco in bocca e balbettò:
«Lei permette?».

Maigret aveva assunto la sua espressione più cocciuta. Camminava adagio, con le mani in tasca e la pipa tra i denti. Ed era una pipa perfettamente proporzionata alla sua faccia larga e massiccia: conteneva quasi un quarto di pacchetto di trinciato.
Il gatto bianco, disteso in tutta la sua lunghezza sul muretto riscaldato dal sole, balzò via all'avvicinarsi dei due uomini.


L’ISPETTORE CADAVRE

Un attimo prima della confessione, gli era sembrato che Maigret fosse commosso e pronto a commuoversi ancora di più, il che lo aveva indotto a sperare.
Adesso, invece, di quella commozione non c’era più la minima traccia. Al termine della scena, il commissario si era messo a fumare tranquillamente la pipa, e il suo sguardo lasciava trapelare solo un’intensa riflessione, senza sentimentalismi di sorta.
«Lei che cosa farebbe, al mio posto?» azzardò ancora Naud.
Bastò un’occhiata per fargli capire che forse stava esagerando, come quei bambini a cui si è appena perdonata una marachella e che approfittano dell’indulgenza altrui per mostrarsi più esigenti e più insopportabili che mai.
A che cosa stava pensando Maigret? Naud arrivò a sospettare che il suo atteggiamento fosse stato solo una trappola. Si aspettava quasi di vederlo alzarsi, tirar fuori le manette di tasca e pronunciare le parole di rito: «In nome della legge...».
«Mi chiedo...».
Maigret esitava, continuando a fumare e ad accavallare le gambe, prima in un senso, poi nell’altro.


Suerte!

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #442 il: 01 Giugno 2010, 12:30:25 »
Wow!! superate le 20000 visite è d'obbligo la celebrazione ,in 3 4 puntate . :o


Nathaniel Hawthorne

Testa di piuma. Leggenda con morale

Titolo originale: Feathertop (1852)
da cui il film: PURITAN PASSIONS (USA, 1923), Guild-Hodkinson
Regia: Frank Tuttle


I registi su entrambe le rive dell’Atlantico avevano ormai scoperto l’importanza
della letteratura come fonte d’ispirazione, e in America anche i palcoscenici di
Broadway seppero fornire validi contributi al film dell’orrore soprattutto negli anni
Venti e Trenta
Una storia di stregoneria ambientata a Salem e ricavata da un racconto
quasi sconosciuto di Nathaniel Hawthorne intitolato Pennacchio. Nel racconto una
vecchia porta in vita uno spaventapasseri e lo manda a corteggiare la figlia di un
pezzo grosso del luogo... con risultati inaspettati e davvero sorprendenti.
Il film, basato sia sul racconto originale che sul dramma teatrale, fu diretto
dall’abile Frank Tuttle e satireggiò il fanatismo che aveva circondato la stregoneria
nel diciassettesimo secolo. Possedeva inoltre un’aura bizzarra, quasi da altro mondo
– accentuata dalla mancanza di sonoro e musica – e ancor oggi conserva il potere di
provocare un brivido lungo la schiena perfino degli appassionati più incalliti.


«Dickon!» gridò Mamma Rigby. «Un tizzone per la mia pipa.»
La pipa si trovava in bocca della vecchia quando pronunciò quelle parole. Ve
l’aveva cacciata dopo averla riempita di tabacco, senza però chinarsi per appicciarla
al focolare, dove in effetti quella mattina non c’era la minima parvenza di fuoco.
Tuttavia, immediatamente dopo che quell’ordine fu impartito, nel fornello della pipa
vi fu un’intensa incandescenza rossastra e dalle labbra di Mamma Rigby uscì uno
sbuffo di fumo. Da dove fosse scaturito il tizzone e come fosse stato portato fin là da
una mano invisibile, non riuscii mai a scoprirlo.
«Bene» disse Mamma Rigby con un cenno del capo. «Grazie, Dickon! E ora
passiamo a fare questo spaventapasseri. Rimani a portata di mano, Dickon, nel caso
avessi ancora bisogno di te.»
La brava donna si era alzata così presto (perché era appena l’alba) allo scopo di
accingersi alla preparazione di uno spaventapasseri che intendeva mettere al centro
del suo campicello di granoturco. Era ormai l’ultima settimana di maggio e corvi e
merli avevano già scoperto le foglioline verdi arrotolate che spuntavano facendo capolino dal terreno. Mamma Rigby aveva dunque deciso di costruire il più
verosimile spaventapasseri che si fosse mai veduto e di eseguire il lavoro quanto più
in fretta possibile, in modo che potesse iniziare il suo servizio di guardia quel mattino
stesso. Ora, Mamma Rigby (come tutti devono aver sentito) era una delle streghe più
capaci e potenti della Nuova Inghilterra, ed era in grado, con pochissima fatica, di
preparare uno spaventapasseri abbastanza orrendo per terrorizzare perfino il diacono.
Ma in questa occasione, dal momento che si era svegliata insolitamente di buon
umore ed era stata ulteriormente raddolcita dalla sua pipa di tabacco, aveva stabilito
di creare qualcosa di elegante, bello e di piacevole aspetto piuttosto che brutto e
repellente.
“Non voglio mettere un orrendo spauracchio nel mio campo di granoturco, quasi
sulla soglia di casa mia” si disse Mamma Rigby sbuffando una boccata di fumo.
“Potrei farlo, se lo volessi, ma sono stanca di fare cose fuori del comune e quindi
rimarrò nei confini delle cose di tutti i giorni, tanto per amore di varietà. Inoltre, è
inutile spaventare i bambini per un miglio attorno, anche se è pur vero che sono una
strega.”
E così stabilì dentro di sé che lo spaventapasseri dovesse assomigliare a un
gentiluomo elegante dell’epoca, per quanto i materiali sottomano lo permettessero.
Forse sarebbe bene enumerare i principali articoli che parteciparono alla
composizione della figura.
Il più importante di tutti, probabilmente, anche se di non molta apparenza, era un
certo manico di scopa sul quale Mamma Rigby aveva compiuto molte sgroppate per
l’aria a mezzanotte e che ora fungeva da spina dorsale dello spaventapasseri, o,
secondo il termine popolare, da filo della schiena. Una delle braccia era una frusta
fuori uso che un tempo era stata maneggiata da Goodman Rigby, prima che la sua
sposa si preoccupasse di toglierlo da questo mondo di sofferenza; l’altro braccio, se
non sbaglio, era composto da un mestolo da budino e da un piolo spezzato di una
sedia, legati strettamente tra loro all’altezza del gomito. Quanto alle gambe, la destra
era un manico di zappa, e la sinistra uno stecco qualsiasi e senza forma tolto dalla pila
della legna da ardere. I polmoni, lo stomaco e le altre cose del genere non erano che
un sacco da farina riempito di paglia. Abbiamo fin qui descritto lo scheletro e l’intera
struttura corporea dello spaventapasseri, con l’eccezione della testa, e quella venne
lodevolmente fornita da una zucca secca e raggrinzita nella quale Mamma Rigby
praticò due fori per gli occhi e una fessura oblunga al posto della bocca, lasciando un
bitorzolo bluastro al centro che fungesse da naso. Era proprio una faccia rispettabile.
«Ne ho viste di peggio su spalle umane, comunque» disse Mamma Rigby. «E molti
raffinati gentiluomini hanno per testa una zucca vuota, come il mio spaventapasseri.»
Ma in quel caso dovevano essere gli abiti a determinare l’eleganza dell’uomo. La
buona vecchia tolse da una gruccia un’antica giubba color prugna confezionata a
Londra e con avanzi di ricami lungo le costure, i polsi, le patte delle tasche e le asole,
ma deplorevolmente consunta e scolorita, rattoppata ai gomiti, sdrucita lungo le falde
e ovunque lisa. Sulla parte sinistra del petto c’era un buco rotondo da dove o era stata
strappata una stella di nobiltà, oppure il cuore ardente di qualche vecchio proprietario
aveva bruciato la stoffa da parte a parte. I vicini dicevano che quel ricco capo di
abbigliamento facesse parte del guardaroba dell’Uomo Nero e che questi lo tenesse al casolare
di Mamma Rigby per la convenienza di poterlo indossare quando desiderava
fare una grandiosa comparsa al tavolo del governatore.
Per far paio con la giubba c’era un panciotto di taglia molto ampia, ricamato un
tempo con fogliame color oro brillante come le foglie di acero in ottobre, ma che ora
erano del tutto scomparse dalla trama del velluto. Poi c’erano un paio di calzoni
scarlatti indossati un tempo dal governatore francese di Louisbourg, le ginocchia dei
quali avevano toccato il gradino inferiore del trono di Louis le Grand. Il francese li
aveva regalati a uno stregone indiano, che a sua volta li aveva barattati con la strega
in cambio di un quarto di pinta di acqua di fuoco durante una delle loro danze nella
foresta. Per di più, Mamma Rigby aveva scovato un paio di calze di seta e le aveva
infilate sulle gambe della sagoma, dove apparivano inconsistenti come un sogno in
contrasto con la legnosa realtà dei due bastoni che spuntavano miseramente dalle
aperture. Per ultima, aveva messo la parrucca del marito defunto sul cranio pelato
della zucca e aveva coperto il tutto con un polveroso cappello a tre punte sul quale
era infilata la più lunga delle penne della coda di un galletto.
Poi la vecchia aveva appoggiato la sagoma in un angolo della sua casa
ridacchiando nell’osservare quella giallastra parvenza di viso con il suo nasetto
elegante che svettava nell’aria. Aveva un aspetto soddisfatto di sé, e pareva dire:
“Venite a guardarmi!”.
«E meriti proprio di essere guardato, infatti!» esclamò Mamma Rigby ammirando
la propria opera. «Ho creato molti burattini da quando sono una strega; ma credo che
questo sia il migliore di tutti. È quasi troppo bello per essere uno spaventapasseri. Mi
preparerò un’altra pipa piena di tabacco e poi lo porterò fuori nel campo di
granoturco.»
Mentre si riempiva la pipa, la vecchia continuò a guardare la figura nell’angolo con
affetto quasi materno. A dire il vero, sia che fosse successo per caso o per abilità, o
per effettiva stregoneria, c’era qualcosa di meravigliosamente umano in quella
ridicola forma agghindata nella sua sdrucita eleganza; e quanto all’espressione,
sembrava contrarre la superficie gialla del volto in un sogghigno bizzarro... qualcosa
a metà tra il disprezzo e la derisione... come se si rendesse conto di essere una burla
di essere umano. Quanto più Mamma Rigby lo guardava, tanto più ne era
compiaciuta.
«Dickon», gridò con voce acuta «un altro tizzone per la mia pipa!»
Aveva appena detto quelle parole quando, come l’altra volta, in cima al tabacco
apparve un carbone arrossato. Mamma Rigby aspirò profondamente e lasciò andare
una lunga boccata nella striscia di sole mattutino che entrava prepotentemente
dall’unico e polveroso vetro della finestra della sua casa. Le era sempre piaciuto
aromatizzare il gusto della sua pipa col carbone ardente di quel particolare angolo di
camino da cui appunto quello proveniva. Ma dove fosse quell’angolo o chi vi avesse
prelevato il tizzone – se si esclude che il misterioso ambasciatore sembrava
rispondere al nome di Dickon – non posso dire nulla.
“Quel pupazzo laggiù” pensò Mamma Rigby, ancora con gli occhi puntati sullo
spaventapasseri, “è un’opera troppo delicata per starsene tutta l’estate in un campo di
granoturco a spaventare corvi e merli. È capace di cose migliori.
Diamine, ho ballato con ben di peggio, quando i compagni scarseggiavano ai nostri convegni di streghe
nella foresta! E se gli lasciassi tentare la fortuna tra gli altri uomini di paglia e
individui vuoti che si agitano per il mondo?”
La vecchia strega tirò tre o quattro boccate dalla sua pipa e sorrise.
«Incontrerà dozzine di suoi simili ad ogni angolo di strada!» continuò. «Be’, oggi
non volevo impegnarmi in altre stregonerie tranne l’accensione della mia pipa; ma
strega sono e strega devo essere, è inutile tentare di dimenticarlo. Trarrò un uomo dal
mio spaventapasseri, fosse anche solo per il gusto di farlo!»
Mentre borbottava queste parole Mamma Rigby si tolse la pipa di bocca e la cacciò
nella fessura che vi corrispondeva sulla faccia di zucca dello spaventapasseri.
«Aspira, caro, aspira» disse. «Sbuffa, mio gentile compagno! La tua vita dipende
da questo!»
Senza dubbio era una strana esortazione da rivolgersi a un semplice ammasso di
legni, paglia e abiti vecchi, con niente di meglio che una zucca rinsecchita al posto
della testa. Tuttavia, come dobbiamo attentamente ricordare, Mamma Rigby era una
strega dai poteri e dall’abilità singolari, e se terremo debitamente questo fatto nelle
nostre menti nulla ci apparirà incredibile negli avvenimenti eccezionali della nostra
storia. In effetti, la maggior difficoltà sarà superata all’istante se solo riusciremo a
credere che, non appena la vecchia gli ordinò di soffiare, dalla bocca dello
spaventapasseri uscì uno sbuffo di fumo. Uno sbuffo debolissimo, a dire la verità; ma
che venne seguito da un altro e un altro ancora, ognuno più deciso del precedente.
«Soffia, carino; sbuffa, bello mio!» continuava a ripetere Mamma Rigby con il suo
sorriso simpatico. «Per te è il respiro della vita, puoi credere alla mia parola.»
Al di là di ogni questione la pipa era stregata. Doveva esserci un incantesimo nel
tabacco, o nel tizzone ardente che vi appariva in cima in modo tanto misterioso,
oppure nel fumo pungente e aromatico che si levava dall’erba bruciata. La figura,
dopo alcuni tentativi incerti, soffiò finalmente un getto di fumo che dall’angolo
oscuro raggiunse il raggio di sole, dove turbinò in un vortice fondendosi con esso fino
a svanire con i granelli di polvere. Dovette essere uno sforzo sconvolgente, perché i
due o tre sbuffi che seguirono furono più deboli anche se il tizzone continuò ad ardere
gettando un riflesso sul viso dello spaventapasseri. La vecchia strega batté tra loro le
mani secche, sorridendo con fare incoraggiante verso la sua opera. Controllò che
l’incantesimo funzionasse bene. Il viso giallo e raggrinzito, che fino a quel momento
non era affatto stato un viso, aveva già una vaga e fantastica apparenza, per così dire,
di sembianza umana, che a tratti svaniva completamente, ma che si accentuava via
via a ogni nuovo sbuffo di fumo della pipa. L’intera figura, allo stesso modo, assunse
un aspetto vivo. Se volessimo assolutamente analizzare a fondo la faccenda, si
potrebbe dubitare che fosse avvenuto un effettivo cambiamento, alla fin fine, nella
vile, consunta, scadente e male assortita materia dello spaventapasseri; ma piuttosto
un’illusione spettrale e un abile effetto di luci e ombre escogitato e messo a punto in
modo da trarre in inganno gli occhi della maggior parte delle persone. I miracoli della
stregoneria sembrano sempre avere un’indefinibilità molto elusiva; e se poi la
precedente spiegazione non colpisse la verità del processo, non saprei suggerire nulla
di meglio.
«Ben sbuffato, mio grazioso amico!» gridò ancora Mamma Rigby. «Forza, un altro
bel soffio deciso, con tutta la tua forza. Soffia per la tua vita, ti dico! Soffia dal fondo
del cuore; se possiedi un cuore, o se questo ha un fondo! Ben fatto, ancora! Hai
aspirato quella boccata come se ci provassi un gran gusto.»
Poi la strega chiamò con un cenno lo spaventapasseri, mettendo tanto potere
magnetico in quel gesto che parve impossibile non obbedirle.
«Perché ti nascondi in quell’angolo, pigraccio?» disse. «Vieni avanti! Hai il mondo
di fronte a te!»
In obbedienza alle parole di Mamma Rigby e allungando le braccia come per
raggiungere la sua mano tesa, la figura fece un passo in avanti – una specie di
sobbalzo strascicato, in realtà, piuttosto che un passo – poi barcollò e perse quasi
l’equilibrio. Che cosa poteva aspettarsi la strega? In fondo non era altro che uno
spaventapasseri piantato su due stecchi. Ma la vecchia testarda fece gli occhi torvi e
gesticolò, proiettando l’energia del suo scopo con tanta forza in quel povero ammasso
di legno marcito, paglia ammuffita e abiti stracciati, che questi fu costretto ad agire
come un uomo, nonostante la realtà delle cose.
Così lo spaventapasseri camminò fino alla striscia di sole. E là rimase – povero
diavolo di marchingegno che era! – con solo la più sottile parvenza di somiglianza
umana, attraverso la quale era evidente la rigida, malferma, assurda, sbiadita,
consunta, inutile accozzaglia della sua essenza, sul punto di crollare in ogni momento
in un mucchietto sul pavimento, quasi si rendesse conto della propria indegnità a
rimanere in posizione eretta. Devo confessare la verità? A questo punto del suo
processo di vivificazione lo spaventapasseri mi rammenta alcuni degli abortivi e
insignificanti personaggi (composti dalle caratteristiche più eterogenee, usati migliaia
di volte, senza che mai ne valessero la fatica) con i quali gli scrittori di romanzi (e me
stesso, senza dubbio, tra gli altri) hanno così sovrappopolato il mondo della narrativa.
Tuttavia, la vecchia megera cominciò ad arrabbiarsi e a mostrare un guizzo della
sua diabolica natura (come una testa di serpente che facesse capolino sibilando dal
suo petto) nei confronti del comportamento pusillanime della cosa che si era presa la
briga di mettere insieme.
«Soffia, sgorbio!» urlò adirata. «Soffia, soffia, soffia. Tu, fatto di paglia e di
niente! Tu, paio di stracci! Testa di zucca! Tu, niente! Dove troverò un nome tanto
vile per chiamarti? Sbuffa, ti dico, e aspira con il fumo la tua vita fantastica;
altrimenti ti leverò la pipa di bocca e ti scaglierò là da dove è venuto il tizzone.»
Minacciato a quel modo, all’infelice spaventapasseri non restava altro che soffiare
per la propria vita. Cominciò dunque a darsi da fare come si doveva con la pipa,
aspirando con bramosia e sbuffando svolazzi di fumo tanto abbondanti che la
minuscola cucina del casolare divenne satura di vapori. Il raggio di sole si fece strada
a fatica tra quella nebbia, riuscendo solo in modo imperfetto a definire l’immagine
del vetro crepato e polveroso della finestra contro la parete opposta. Mamma Rigby,
nel frattempo, con un braccio abbrunito sul fianco e l’altro teso verso la figura,
appariva truce nell’oscurità, con l’atteggiamento e l’espressione di quando gettava un
terribile incubo sulle sue vittime e rimaneva di fianco al loro letto per assaporarne
l’agonia. Terrorizzato e tremante il povero spaventapasseri continuava a sbuffare.
Ma i suoi sforzi, bisogna riconoscerlo, servivano a uno scopo eccezionale, perché a ogni
boccata successiva la figura perdeva sempre più la sua vaga e incerta tenuità, e
sembrava assumere un’essenza più concreta. Anche gli abiti, tra l’altro, ebbero una
parte importante nel magico cambiamento, e brillavano nella lucentezza del
rinnovamento luccicando per l’oro degli abili ricami che erano da tempo stati
strappati. E, semivisibile tra il fumo, un volto giallo abbassò i suoi occhi opachi verso
Mamma Rigby.
Da ultimo, la vecchia strega serrò il pugno e l’agitò verso la figura. Non che fosse
ancora arrabbiata, stava semplicemente comportandosi secondo il principio – forse
falso, o non completamente vero, sebbene da qualcuno all’altezza di Mamma Rigby
ci si potesse aspettare che lo sapesse – che i caratteri deboli e pigri, essendo incapaci
di migliori ispirazioni, dovessero essere mossi dalla paura. Ma qui era il punto. Se
avesse fallito in quello che ora si proponeva di attuare, lo spietato proposito di
Mamma Rigby era di ridisperdere il miserabile simulacro nei suoi elementi originali.
«Hai un aspetto d’uomo» disse la vecchia in tono grave. «Che tu abbia anche una
somiglianza di voce! Ti ordino di parlare!»
Lo spaventapasseri boccheggiò, sforzandosi, e alla fine emise un mormorio tanto
contemporaneo al soffio fumoso che non si poté quasi stabilire se fosse stata una voce
oppure solo uno sbuffo di tabacco. Alcuni narratori di questa leggenda erano convinti
che gli incantesimi di Mamma Rigby e la sua caparbia volontà avessero costretto uno
spirito familiare a entrare nella figura e che la voce fosse la sua.
«Madre», balbettò la povera voce soffocata «non essere così crudele con me!
Parlerei volentieri, ma essendo privo di intelligenza, che cosa posso dire?»
«Tu puoi parlare, mio caro, non è vero?» strillò Mamma Rigby rilassando in un
sorriso la sua espressione truce. «E che cosa puoi dire, mi chiedi? Dire, proprio così!
Appartieni alla genia dei crani vuoti e mi chiedi che cosa devi dire? Dovrai dire mille
cose, e dopo averle dette mille volte ancora non avrai detto nulla! Non temere, ti
dico! Quando entrerai nel mondo (dove ho intenzione di mandarti) non ti
mancheranno cose da dire. Parla! Diamine, potrai cianciare come un torrente da
mulino se lo vorrai. Per quello hai cervello a sufficienza, direi.»
K Al tuo servizio, madre» rispose lo spaventapasseri.
«Ben detto, bello mio» rispose Mamma Rigby. «Ecco che sai parlare senza dire
nulla. Ne avrai cento di simili frasi pronte, e altre cinquecento di riserva. E ora, mio
caro, mi sono presa tanta pena per te e tu sei così bello che, in fede mia, ti amo più di
ogni altro fantoccio di strega al mondo; e sì che ne ho fatti di tutti i tipi... di argilla,
cera, legno, nebbia notturna, foschia mattutina, schiuma di mare, e fumo di camino.
Ma tu sei di gran lunga il migliore. Fai dunque attenzione a quanto dico.»
«Sì, mia buona madre», disse la sagoma «con tutto il cuore!»
«Con tutto il cuore!» gridò la vecchia strega, portandosi le mani ai fianchi e
sghignazzando rumorosamente. «Hai un così bel modo di esprimerti. Con tutto il
cuore! E ti sei messo una mano sul lato sinistro del panciotto, come se ce l’avessi
davvero!»




 
« Ultima modifica: 01 Giugno 2010, 12:44:07 da Aqualong »
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #443 il: 01 Giugno 2010, 12:32:17 »
E così, resa di ottimo umore da quella sua fantastica creatura, Mamma Rigby disse
allo spaventapasseri che doveva andare a recitare la sua parte nel gran mondo, dove neppure un uomo su cento, affermò, era dotato di mezzi più efficaci dei suoi. E
affinché potesse stare a testa alta tra i migliori di quelli, gli conferì all’istante
ricchezze di valore incalcolabile. Parte di esse consistevano in una miniera d’oro
all’Eldorado, e diecimila titoli di una bolla infranta, e mezzo milione di acri di vigneti
al Polo Nord, e un castello in aria, e uno château in Spagna con tutte le rendite e i
profitti che se ne ricavavano. Inoltre, gli trasferì la proprietà di una certa nave carica
di sale di Cadiz che lei stessa, in virtù delle sue arti negromantiche, aveva fatto colare
a picco dieci anni addietro nel punto più profondo dell’oceano. Se il sale non si era
disciolto e si poteva portarlo al mercato, avrebbe reso un discreto gruzzolo
vendendolo tra i pescatori. Perché non gli mancasse il denaro spicciolo gli diede un
“farthing” di rame coniato a Birmingham, essendo quelle le uniche monete che lei
aveva a disposizione, e parecchi altri di ottone, che applicò alla fronte dello
spaventapasseri rendendola più gialla che mai.
«Solo con quell’ottone» disse Mamma Rigby «potrai aprirti le strade di tutto il
mondo. Baciami, mio caro! Per te ho fatto quanto di meglio potevo.»
Oltre a ciò, affinché l’avventuriero non dovesse rinunciare a possibili vantaggi al
momento del suo ingresso alla vita, la benevola vecchia gli diede un segno con il
quale doveva presentarsi a un certo magistrato, membro del consiglio, mercante, e
dignitario della chiesa (cariche, queste quattro, tutte riunite in un solo uomo), che era
forse l’uomo più autorevole della vicina metropoli. Il segno non era né più né meno
che una singola parola che Mamma Rigby bisbigliò allo spaventapasseri e che questi
avrebbe dovuto bisbigliare al mercante.
«Pur malato di gotta qual è, il vecchio correrà qua e là a tuo piacimento una volta
che gli avrai mormorato quella parola all’orecchio» disse la vecchia strega. «Mamma
Rigby conosce l’eccellentissimo giudice Gookin, e l’eccellentissimo giudice Gookin
conosce Mamma Rigby!»
A questo punto la strega avvicinò il suo viso grinzoso a quello del fantoccio,
ridacchiando irrefrenabilmente e compiacendosi in tutta là sua persona all’idea di
quanto stava per comunicargli.
«L’eccellentissimo Gookin» mormorò «ha per figlia un’avvenente fanciulla. Ora
ascoltami, mio caro! Tu hai un aspetto grazioso e abbastanza intelligenza. Già,
abbastanza intelligenza! Te ne renderai conto tu stesso quando avrai visto il cervello
di molte altre persone. Ora, con il tuo esterno e il tuo interno, sei proprio l’uomo
adatto a conquistare il cuore di una giovane fanciulla. Non ci sono dubbi! Ti dico che
sarà così. Ti basterà usare la faccia tosta, sospirare; sorridere, agitare il berretto,
spingere in avanti la gamba come un maestro ballerino, mettere la mano destra sul
lato sinistro del panciotto, e la bella Polly Gookin sarà tua!»
Per tutto questo tempo la nuova creatura aveva continuato ad aspirare e sbuffare la
vaporosa fragranza della pipa, e sembrava voler proseguire in quell’occupazione
anche per il piacere che gli procurava oltre che per essere la condizione
indispensabile alla sua esistenza.
Era meraviglioso vederlo comportarsi con la
superiorità di un essere umano. I suoi occhi (perché sembrava ne avesse un paio)
erano rivolti a Mamma Rigby e grazie alle giunture appropriate egli annuiva o
scuoteva la testa. Non gli mancavano neppure le parole adatte all’occasione:
«Davvero! Proprio così! Dimmi, per favore! È possibile! Sulla mia parola! Per nessun motivo!
Oh! Ah! Ehm.» e altre simili gravi espressioni che indicavano attenzione,
richiesta, sottomissione, o dissenso da parte dell’ascoltatore. Se anche foste rimasti là
a guardare mentre lo spaventapasseri veniva fabbricato, difficilmente avreste potuto
resistere alla convinzione che assimilasse alla perfezione gli astuti consigli che la
vecchia strega gli sciorinava in quell’imitazione di orecchio. Con quanta più serietà
egli applicava le labbra alla pipa, tanto più riconoscibile era la sua somiglianza
umana e tanto più sagace diventava la sua espressione, più reali i suoi gesti e più
intellegibile la sua voce. Perfino gli abiti brillavano ancora più luminosi in
un’illusione di magnificenza. La pipa stessa, nella quale ardeva l’incantesimo di tutta
quella meraviglia, cessò di sembrare un pezzo di terracotta annerito dal fumo e
divenne una pipa di schiuma di mare, con il fornello dipinto e il bocchino d’ambra.
Sarà necessario spiegare, tuttavia, che sebbene l’illusione apparisse autentica
grazie al fumo della pipa, essa sarebbe terminata immediatamente con la riduzione in
cenere del tabacco. Ma la vecchia aveva previsto questa difficoltà.
«Reggi la pipa, mio prezioso amico», disse «mentre io te la riempirò di nuovo.»
Fu triste osservare come l’elegante gentiluomo cominciò a sbiadire nuovamente
nelle sembianze di uno spaventapasseri mentre Mamma Rigby scuoteva le ceneri
dalla pipa e si accingeva a ricaricarla dalla sua tabacchiera.

«Dickon», strillò, nel suo tono alto e stridulo, «un altro tizzone per la mia pipa!»
Non aveva ancora finito di dirlo, che una macchia rossa di fuoco brillò
intensamente nel fornello della pipa e lo spaventapasseri, senza neppure aspettare
l’ordine della strega, applicò le labbra al cannello e aspirò alcune boccate brevi e
frenetiche che presto, comunque, divennero regolari e uniformi.
«E ora, delizia del mio cuore», disse Mamma Rigby «qualsiasi cosa possa
accaderti non separarti mai dalla pipa.
La tua vita dipende da lei; questo almeno
sappilo, se anche non sapessi nient’altro. Resta attaccato alla pipa, ti dico! Fuma,
aspira, soffia la tua nuvola. Alla gente dirai, se ti chiederanno qualcosa, che è per la
tua salute e che te l’ha ordinato il dottore. E, mia dolcezza, quando ti accorgerai che
si sta scaricando, appartati in qualche angolo (dopo esserti riempito di fumo) e grida
con voce acuta: “Dickon, una nuova pipa di tabacco” e cacciatela in bocca più presto
che puoi. Altrimenti, invece di un elegante gentiluomo dalla giubba ricamata d’oro,
non diventerai che un insieme di stecchi e abiti sdruciti e un sacco di paglia con una
zucca secca. Ora vai, mio tesoro, e buona fortuna a te!»
«Non temere, madre!» disse la sagoma con voce stentorea, sbuffando un’ardita
boccata di fumo. «Avrò tanto successo quanto si conviene a una persona onesta e a
un gentiluomo!»
«Oh, tu mi farai morire!» strillò la vecchia strega quasi soffocando dalle risate.
«Hai detto bene. Quanto si conviene a una persona onesta e a un gentiluomo. Reciti la
parte alla perfezione. Ti fai proprio passare per un bel tipo; e io scommetterei su di te,
come uomo in carne ed ossa, con un cervello e quello che chiamano un cuore, e tutto
il resto che un uomo deve avere, contro qualsiasi altra cosa su due gambe. Mi
considero una strega migliore di quanto non fossi ieri; per amor tuo. Non sono stata
forse io a farti? E sfido ogni altra strega della Nuova Inghilterra a fare qualcosa di
simile! Tieni, prendi con te il mio bastone!»
Il bastone, sebbene fosse solo un semplice ramo di quercia, prese subito l’aspetto
di un bastone da passeggio dall’impugnatura d’oro.
«Quella testa d’oro ha tanto discernimento quanto ve n’è nella tua», disse Mamma
Rigby «e ti guiderà direttamente alla porta dell’eccellentissimo Mastro Gookin. Vai,
mio tesoro, e se qualcuno ti chiedesse il tuo nome, quello sarà Pennacchio. Poiché hai
una piuma sul cappello e io ho ficcato una manciata di penne nel cavo della tua testa,
e anche la tua parrucca è del tipo che chiamavano a Pennacchio... dunque,
Pennacchio sia il tuo nome!»
E, uscendo dalla casa, Pennacchio si incamminò coraggiosamente verso la città.
Mamma Rigby rimase in piedi sulla soglia, compiaciuta di vedere che i raggi del sole
brillavano su di lui come se tutta la sua magnificenza fosse reale e che fumava la sua
pipa con amore e diligenza, camminando con grande prestanza anche se con una
leggera rigidità alle gambe. Lo guardò finché usci di vista e lanciò una benedizione di
strega al suo caro quando una curva della strada le impedì di continuare a vederlo.
Quel mattino di buon’ora, quando la strada principale della vicina città era proprio
nel pieno della vita e dell’attività, uno straniero dall’aspetto molto distinto venne
visto sul marciapiedi. Il suo portamento e gli abiti che indossava indicavano la sua
nobiltà. Aveva una giubba color prugna riccamente ricamata; un panciotto di velluto
costoso adornato in modo mirabile con fogliame d’oro, un paio di splendidi calzoni
scarlatti e le più fini e scintillanti calze di seta bianche. Il suo capo era coperto da una
parrucca, così perfettamente incipriata e acconciata che sarebbe stato un sacrilegio
rovinarla con un cappello; che pertanto (ed era un cappello dai lacci d’oro,
completato da una piuma candida) egli portava sotto il braccio. Sul petto della giubba
brillava una stella. L’uomo maneggiava il suo bastone da passeggio con la testa d’oro
con la grazia boriosa tipica dei gentiluomini dell’epoca; e, per dare il tocco finale più
elevato possibile al suo abbigliamento, aveva polsini di pizzo della più eterea
delicatezza che garantivano sufficientemente quanto inoperose ed aristocratiche
dovessero essere le mani che nascondevano per metà.
Un particolare degno di nota nell’equipaggiamento di quel brillante personaggio
era che reggeva nella mano sinistra una pipa fantastica dal fornello dipinto con
squisitezza e il bocchino in ambra. La portava alle labbra ogni cinque o sei passi,
inalando una profonda boccata che, dopo aver trattenuto per un istante nei polmoni,
liberava visibilmente sbuffandola con grazia dalla bocca e dalle narici.
Come si può facilmente immaginare, tutta la via era in agitazione per scoprire il
nome dello straniero.
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #444 il: 01 Giugno 2010, 12:34:44 »
«È un grande nobiluomo, senza dubbio» disse uno dei popolani. «Avete visto la
stella che ha sul petto?»
«No; brilla troppo per poterla guardare» disse un altro. «Già, deve proprio essere
un nobile, come dici tu. Ma con quale mezzo di trasporto pensi che sua signoria abbia
viaggiato per arrivare fin qui? Non ci sono stati vascelli dal vecchio continente da
oltre un mese; e se è giunto per via di terra, dal sud, dove sono i suoi attendenti e il
suo seguito?»
«Non ha bisogno di seguito per dimostrare il suo rango» fece notare un terzo. «Se
anche venisse tra noi coperto di stracci, la sua nobiltà risplenderebbe da un foro sul gomito.
Non ho mai visto tanta dignità d’aspetto. Ha l’antico sangue normanno nelle
vene, ve lo garantisco io.»
«Io direi piuttosto che sia un olandese, o uno dei vostri nobili tedeschi» disse un
altro cittadino. «Gli uomini in quelle nazioni hanno sempre la pipa in bocca.»
«Se è per questo anche i turchi» ribatté il suo compagno. «Ma, a mio giudizio,
questo straniero è stato educato alla corte di Francia ed è là che ha imparato il galateo
e la grazia dei modi, che nessuno comprende tanto bene quanto i nobili francesi.
Quello sì che è un portamento! Un volgare osservatore potrebbe considerarlo
rigido.... potrebbe chiamarla andatura a sobbalzi, ma ai miei occhi possiede una
maestà indescrivibile che deve essere stata acquisita solo attraverso l’osservazione
costante del comportamento del Grand Monarque. Il carattere dello straniero e il suo
grado sono abbastanza evidenti. È un ambasciatore francese, venuto a trattare con i
nostri governanti per la cessione del Canada.»
«Più probabilmente è uno spagnolo», disse un altro «e di qui la sua carnagione
gialliccia; oppure, con più facilità, viene dall’Havana o da qualche porto della costa
appartenente alla Spagna, ed è venuto per investigare sugli atti di pirateria di cui il
nostro governatore è sospettato di complicità. Quei residenti del Perù e del Messico
hanno la pelle gialla come l’oro che estraggono dalle loro miniere.»
«Giallo o no», strillò una signora «è un bell’uomo... così alto, così esile! Che viso
fine e nobile, con un naso di quella fattura e la delicatezza dell’espressione della
bocca! E, Dio mio, come luccica la sua stella! Sembra proprio che ne scaturiscano
fiamme!»
«Come dai vostri occhi, bella dama» disse lo straniero che stava passando di lì, con
un inchino e un movimento della pipa. «Sul mio onore, mi hanno completamente
abbagliato.»
«Fu mai un complimento tanta originale e squisito?» mormorò la signora in
un’estasi di piacere.
Tra l’ammirazione generale provocata dall’apparizione dello straniero c’erano solo
due voci di dissenso. Una era quella di un cagnaccio impertinente che, dopo aver
annusato i tacchi della figura scintillante, si mise la coda tra le gambe e andò a
nascondersi nel cortile del suo padrone lasciando andare un ululato esecrabile. L’altro
dissenziente era un bambinetto che strillò a pieni polmoni, blaterando insulsaggini
incomprensibili a proposito di una zucca.
Pennacchio, nel frattempo, eseguiva il suo cammino lungo la via. Con l’eccezione
delle poche parole di complimento verso la signora e qualche movimento del capo di
tanto in tanto in risposta alle profonde riverenze degli astanti, sembrava totalmente
assorbito dalla propria pipa. Non erano necessarie altre prove del suo rango e della
sua importanza oltre alla perfetta equanimità con la quale si comportava, mentre
attorno a lui la curiosità e l’ammirazione della città crescevano al limite del clamore.
Con una folla crescente che seguiva i suoi passi, raggiunse finalmente il palazzo
dell’eccellentissimo giudice Gookin, entrò dal cancello, salì i gradini della porta
principale, e bussò. Nel frattempo, prima che gli venisse risposto, lo straniero fu visto
scrollare la cenere dalla sua pia
«Che cosa ha detto in quel tono acuto?» chiese uno degli spettatori.
«Non lo so» rispose il suo amico. «Ma il sole mi abbaglia gli occhi in modo
bizzarro. Come scialba e scolorita mi appare all’improvviso sua signoria! Dio mio,
.che mi sta succedendo?»
«Lo straordinario è» disse l’altro «che la pipa, che era spenta solo un attimo fa, è di
nuovo perfettamente accesa, e con le braci più rosse che abbia mai veduto. C’è
qualcosa di misterioso in quello straniero. Ehi... che sbuffo di fumo! Scialbo e
scolorito l’hai chiamato? Diamine, quando si è girato, la stella che ha sul petto
sembrava incandescente.»
«Proprio così», dissero gli altri «e abbaglierà la bella l’olly Gookin che sta
affacciandosi alla finestra della sua camera.»
Mentre la porta si apriva, Pennacchio si voltò verso la folla, fece un solenne
inchino come un grand’uomo che accettasse la riverenza degli inferiori, e scomparve
all’interno della casa. Sul suo viso c’era un sorriso misterioso, se non si poteva
addirittura chiamarlo un sogghigno; ma fra tutta la moltitudine che lo contemplava
nessuno sembrò possedere tanto intuito da riuscire a scorgere il carattere illusorio
dello straniero, con l’eccezione di un bambinetto e di un cane bastardo.
Il nostro racconto perde qui un po’ di continuità e, sorvolando le spiegazioni
preliminari tra Pennacchio e il mercante, si interessa subito della graziosa Polly
Gookin. Era una damigella dalla figura morbida e perfetta, con capelli chiari e occhi
azzurri, e un viso grazioso e roseo che non sembrava né troppo astuto né
eccessivamente ingenuo. Questa fanciulla aveva visto di sfuggita lo straniero
scintillante in piedi sulla soglia e aveva subito indossato un copricapo di trine, una
fila di perle, la gonna di damasco più rigida con il più elegante dei fazzoletti, in
preparazione dell’incontro. Affrettandosi dalla sua camera alla sala dei ricevimenti, si
era, come sempre, guardata nell’ampio specchio che le serviva per far pratica di belle
maniere... ora un sorriso, ora un atteggiamento dignitoso, ora un sorriso più dolce del
precedente, baciandosi persino la mano, scrollando il capo e agitando il ventaglio;
mentre dall’altra parte dello specchio una ragazzina incorporea ripeteva ogni gesto e
faceva tutte le sciocchezze che faceva Polly, ma senza farla vergognare di esse. In
breve, era per manchevolezza di ingegno della bella Polly, piuttosto che per sua
volontà, se la giovane non era un completo artificio come l’illustre Pennacchio; e
facendo lei esercizio a quel modo della sua semplicità, il fantoccio della strega poteva
ben sperare di conquistarla.
Non appena Polly udì i passi gottosi del padre avvicinarsi alla porta della sala,
accompagnati dal secco scalpiccio delle scarpe a tacco alto di Pennacchio, si mise a
sedere impettita e cominciò innocentemente a canticchiare una canzone.
«Polly, figlia mia!» gridò il vecchio mercante. «Vieni qui, piccola.»
L’aspetto di Gookin, quando aprì la porta, era esitante e preoccupato.
«Questo gentiluomo» continuò, presentando lo sconosciuto «è il Cavalier
Pennacchio... che dico, chiedo perdono, il Lord Pennacchio... che mi ha portato un
segno del ricordo di una mia vecchia amicizia. Rendi omaggio a sua signoria, figliola,
e onoralo come si conviene al suo rango.»
Dopo aver detto queste poche parole, l’eccellentissimo magistrato lasciò subito la
stanza. Ma, anche in quei brevi istanti, se la graziosa Polly avesse guardato di lato verso il padre,
anziché essere completamente assorbita dal brillante ospite, avrebbe
potuto trarre avvertimento di qualche pericolo incombente. Il vecchio era nervoso,
agitato, e molto pallido. Abbozzando un sorriso di cortesia aveva deformato il viso in
una sorta di smorfia che, mentre Pennacchio aveva le spalle girate, aveva trasformato
in un’occhiata torva, agitando contemporaneamente il pugno chiuso e battendo a terra
con forza il piede gottoso... un’indegnità che portò con sé l’immediata e dolorosa
punizione.
La verità sembra essere che la parola di presentazione di Mamma Rigby,
qualunque essa fosse, avesse fatto leva molto più sulla paura del mercante che sulla
sua buona volontà. Per di più, essendo egli un uomo dallo spirito di osservazione
eccezionalmente acuto, si era accorto che le figure dipinte sul fornello della pipa di
Pennacchio erano in movimento. Guardando più da vicino si era reso conto che
quelle figure rappresentavano un convegno di minuscoli diavoli, ognuno debitamente
provvisto di corna e coda, che danzavano mano nella mano con gesti di diabolica
soddisfazione attorno alla circonferenza del fornello della pipa. Come per confermare
i suoi sospetti, mentre Gookin accompagnava il suo ospite lungo un tetro corridoio
dalla sua stanza privata alla sala dei ricevimenti, la stella sul petto di Pennacchio
aveva brillato di vere fiamme, proiettando un bagliore guizzante sulle pareti, il
soffitto e il pavimento.
Con tali sinistri presentimenti che si manifestavano da ogni parte, non c’era da
meravigliarsi se il mercante si sentiva come se stesse costringendo la figlia a una
conoscenza molto discutibile. Malediceva in cuor suo l’eleganza insincera dei modi
di Pennacchio mentre il brillante personaggio si inchinava, sorrideva, portava la mano
al cuore, aspirava lunghe boccate dalla sua pipa e arricchiva l’atmosfera con i vapori
fumosi di un sospiro fragrante e visibile. Volentieri il povero Gookin avrebbe
cacciato nella strada il suo pericoloso ospite, ma su di lui gravava la costrizione del
terrore. Questo rispettabile vecchio gentiluomo, ne abbiamo il timore, durante un
precedente periodo della sua vita doveva aver dato qualche pegno alla causa del male,
ed ora forse era il momento di riscattarlo mediante il sacrificio della figlia.
Si dava il caso che la porta della sala dei ricevimenti fosse in parte di vetro,
schermata da una tenda di seta le cui pieghe pendevano in modo obliquo. Tanta era la
curiosità del mercante di osservare ciò che sarebbe intercorso tra la bella Polly e il
galante Pennacchio che, dopo aver lasciato la sala, non riuscì assolutamente a
trattenersi dallo sbirciare attraverso la fessura della tenda.
Suerte!

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #445 il: 01 Giugno 2010, 12:39:21 »


Ma non c’era nulla di tanto miracoloso da vedere – tranne i particolari
insignificanti che aveva precedentemente notato – nulla che potesse confermare
l’idea di un pericolo soprannaturale che circuisse la bella Polly. Lo straniero, in
verità, era decisamente un uomo di mondo, abile ed esperto, metodico e sicuro di sé,
e quindi proprio il tipo di persona alla quale un genitore non dovrebbe affidare
un’ingenua fanciulla senza la dovuta vigilanza per evitare eventuali conseguenze.
Il rispettabile magistrato, che aveva dimestichezza con ogni tipo e genere di
umanità, non poteva non accorgersi che tutti i movimenti, tutti i gesti del distinto
Pennacchio erano appropriati. In lui non c’era nulla di maleducato o rozzo; un
conformismo perfettamente collaudato si era incorporato nel profondo della sua
essenza, trasformandolo in un’opera d’arte. Forse era proprio quella peculiarità che gli conferiva un aspetto spettrale e spaventoso. Il tipico effetto di qualcosa di
completamente ed esageratamente artificiale nella figura umana con cui una persona
ci colpisce come irreale, quasi non possedesse abbastanza corporalità da proiettare
un’ombra al suolo. Nel caso di Pennacchio, tutto ciò risultava in una stravagante,
bizzarra e fantastica impressione, come se la sua vita e la sua essenza fossero simili al
fumo che si levava in spire dalla sua pipa.
Ma la bella Polly non notava tutto questo. La coppia stava ora passeggiando lungo
la sala; Pennacchio con la sua andatura delicata e una non meno delicata smorfia; la
fanciulla con la sua naturale grazia femminile, appena macchiata, non contaminata,
da un atteggiamento lievemente affettato che pareva rubato alla perfetta perizia del
suo compagno. Quanto più a lungo continuava l’incontro, tanto più ammaliata ne era
la bella Polly; finché, dopo il primo quarto d’ora (come il vecchio magistrato osservò
sul suo orologio) lei cominciò visibilmente a innamorarsi. E non sarebbe neppure
stata necessaria una stregoneria per vincerla tanto in fretta; il povero cuore della
giovane, probabilmente, era così ardente che si dissolse per il proprio calore riflesso
dalle vuote sembianze di un amante. Non importava ciò che Pennacchio dicesse; le
sue parole trovavano profondità e risonanze nelle orecchie di lei, non importava ciò
che facesse, le sue azioni apparivano eroiche ai suoi occhi. Ormai c’era un certo
rossore sulle guance di Polly, un sorriso dolce sulle sue labbra e una morbidezza
acquosa nel suo sguardo, mentre la stella continuava a scintillare sul petto di
Pennacchio e i minuscoli diavoli erano impegnati in una baldoria più frenetica che
mai lungo la circonferenza del fornello della pipa. Q graziosa Polly Gookin, perché
quei maligni si rallegravano così follemente che il cuore di una giovane sciocca stesse
per cedere a un’ambra? È forse una sventura tanto insolita, un trionfo così raro?
Poco dopo Pennacchio si fermò e assunse un atteggiamento di comando, invitando
quasi la ragazza a contemplare la sua figura e a resistergli più a lungo, se poteva. La
sua stella, i suoi ricami, le fibbie, brillarono in quell’istante di uno splendore
indicibile; i colori pittoreschi del suo abbigliamento assunsero una profondità di tono
più ricca; su tutta la sua figura calò un luccichio luminescente che annunciò il
perfetto compimento dell’incantesimo. La fanciulla alzò gli occhi e si sforzò di
lasciarli posati sul suo compagno in uno sguardo di timida ammirazione. Poi, come se
fosse desiderosa di giudicare il valore della sua semplice bellezza di fianco a tanto
splendore, lanciò un’occhiata verso lo specchio a grandezza naturale di fronte al
quale stavano passando. Era quello uno dei cristalli più sinceri del mondo, incapace
di adulazioni. Non appena le immagini riflesse colpirono l’occhio di Polly, la ragazza
urlò, ritraendosi dal fianco dello straniero. Lo guardò per un attimo, nella più assoluta
incredulità, e crollò a terra svenuta. Anche Pennacchio aveva guardato nello specchio
e vi aveva scorto non la luminosa parodia del suo spettacolo esteriore, ma l’immagine
dello squallido raffazzonamento della sua composizione reale, spogliata di ogni
incantesimo.
Che sciagurata contraffazione! Ne abbiamo quasi compassione. La sagoma proiettò
in aria le braccia in un’espressione disperata che superò ogni precedente tentativo di
farsi passare per umano; per la prima volta, forse, da quando questa vuota e ingannevole vita di mortali iniziò il suo corso, un’illusione aveva visto se stessa,
riconoscendosi perfettamente per quale era.
Mamma Rigby era seduta accanto al focolare della sua cucina al crepuscolo di
quella giornata ricca di avvenimenti e aveva appena scosso le ceneri da una nuova
pipa, quando udì un tramestio frettoloso lungo la strada. Eppure quello non sembrava
tanto un suono di passi umani, quanto uno scalpitio di legni o uno sbattere di ossa
rinsecchite.
“Ehi!” pensò la vecchia strega. “Che razza di passi sono questi? Quale scheletro
sarà mai uscito dalla tomba a quest’ora?”
Una figura irruppe dalla porta del casolare. Era Pennacchio! La sua pipa era ancora
accesa, la stella fiammeggiava ancora sul suo petto, i ricami continuavano a
risplendere sui suoi abiti e non aveva perduto in nessun grado o misura, che si potesse
notare, l’aspetto che lo associava con i nostri fratelli mortali. Ma pure, in qualche
modo indescrivibile (come è il caso di tutto ciò che ci delude una volta che ne
abbiamo smascherato l’essenza), la misera realtà era avvertibile al di sotto dell’abile
finzione.
«Che è successo di sbagliato?» chiese la strega. «Quell’ipocrita dal naso
gocciolante ha scacciato il mio caro dalla sua porta? Che furfante! Manderò venti
diavoli a tormentarlo finché verrà da te in ginocchio a offrirti sua figlia!»
«No, madre», disse Pennacchio abbattuto «non è stato quello.»
«Forse la ragazza ha respinto il mio tesoro?» chiese Mamma Rigby con gli occhi
ardenti come due carboni di Tophet. «Le coprirò il viso di pustole! Avrà il naso rosso
come le braci della tua pipa! Le cadranno i denti davanti! Tra una settimana sarà così
orribile che non varrà la pena per te di averla!»
«Lasciala stare, madre» ribatté il povero Pennacchio. «La ragazza era quasi
conquistata, e credo che un bacio delle sue dolci labbra mi avrebbero trasformato del
tutto in un uomo. Ma...» aggiunse dopo una breve pausa e un sospiro di
autocommiserazione «mi sono visto, madre! Ho visto me stesso come la cosa misera,
stracciata e vuota che sono in realtà! Non continuerò ad esistere!»
Cavandosi la pipa di bocca, Pennacchio la scagliò con tutta la sua forza contro il
camino e nello stesso istante crollò sul pavimento in un mucchio di paglia e abiti
sdruciti, con alcuni stecchi che spuntavano dall’ammasso e una zucca disseccata nel
mezzo. I buchi degli occhi erano ora opachi, ma la fessura tagliata rozzamente, e che
fino a poco prima era stata una bocca, sembrava ancora contorta in una smorfia
disperata e tuttora umana.
«Poveretto!» disse Mamma Rigby con uno sguardo pietoso ai resti della sua
sfortunata creazione. «Mio povero caro, grazioso Pennacchio! Ci sono migliaia e
migliaia e migliaia di ciarlatani e damerini nel mondo, costruiti dallo stesso insieme
di pattume vecchio, abbandonato e buono a nulla, come eri tu! Eppure vivono in
ottima reputazione e non vedono mai se stessi per quello che sono. Perché dovrebbe
essere il mio povero fantoccio l’unico a riconoscersi e a morirne?»
Mentre borbottava queste parole, la strega si era riempita di nuovo la pipa di
tabacco e la teneva con il cannello tra le dita, incerta se cacciarla nella sua bocca o in
quella di Pennacchio.
«Povero Pennacchio!» continuò. «Potrei facilmente dargli un’altra possibilità e
rimandarlo indietro domani. Ma no, i suoi sentimenti sono troppo delicati, la sua
sensibilità troppo profonda. Si direbbe che abbia troppo buon cuore per muoversi a
proprio vantaggio in un mondo tanto vuoto e privo di cuore. Bene! Bene! Dopo tutto
posso sempre farne uno spaventapasseri. È un’occupazione innocente e utile e si
adatterà bene al mio caro; e se ognuno dei suoi fratelli umani ne avesse una
altrettanto appropriata, sarebbe molto meglio per l’umanità. Quanto a questa pipa di
tabacco, serve più a me che a lui.»
Così dicendo Mamma Rigby si infilò il bocchino tra le labbra. «Dickon!» gridò nel
suo tono alto e stridulo. «Un altro tizzone per la mia pipa!»

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #446 il: 05 Giugno 2010, 12:00:58 »
Frammenti atto terzo

Maxence Fermine

L’apicoltore

La sera del secondo giorno di cammino, la carovana si fermò nei pressi di un uadi, per abbeverare i cammelli. Dopo aver mangiato, gli uomini stesero a terra le stuoie e si addormentarono.
Il Faranji riempì di tabacco una piccola pipa di schiuma e si mise a fumare guardando le stelle. Aurélien gli si avvicinò in silenzio e si sedette di fronte a lui.
“Cosa facevi quand’eri in Francia?” chiese Rochefer.
“Mi annoiavo.”

J.G. Ballard

La zona del disastro

E la tua mano, zio? — Conrad indicò il bendaggio che avvolgeva fino al polso la mano dello zio. Il velo d’ironia nella voce dello zio rammentò al ragazzo la studiata ambiguità del dottor Knight. Già Conrad intuiva che, attorno a lui, la gente prendeva partito.
— La mia mano? — Zio Theodore si strinse nelle spalle. — Mi ha servito per sessant’anni, ormai. Un dito mancante non impedirà certo di accendere la pipa.

William Wilkie Collins

Il truffatore truffato

Come altri tipi dissoluti, ha mangiato poco o niente a colazione. Poi ha fumato la pipa, una sporca pipa in terracotta, che un signore si vergognerebbe di tenere fra le labbra. Dopo aver fumato, ha preso una penna, l’inchiostro e la carta e si è seduto a scrivere tirando un profondo respiro, che non sono in grado di dire se fosse per il rimorso d’aver preso le banconote o per disgusto circa il compito che aveva dinanzi.

Truman Capote

UN NATALE E ALTRI RACCONTI

L’olezzo virile dei sigari, il pungente aroma delle pipe, l’opulenza variegata che evocavano erano per me come un’esca, che mi attirava costantemente dal salotto nella veranda; preferivo però il salotto per via delle sorelle Conklin, che suonavano a turno sul nostro piano scordato, con molta abilità e altrettanta allegria, ma senza darsi arie.

Gettò un’occhiata di riconoscenza alle signore grasse e sfiorite, agli uomini che fumavano la pipa sui gradini di pietra bruna di un edificio. Nove ragazzine pallide facevano chiasso all’angolo intorno a un carretto di fiori per farsi dare qualche margherita da infilare nei capelli.

James Lloyd Carr
Un mese in campagna
(pipa archeologica)

Quello era l’inizio abituale di quasi tutte le mie giornate: una tazza di tè nello scavo di Moon. Di solito non parlavamo molto. Lui fumava la pipa. Gli chiedevo come andavano le cose, chi aveva dato un’occhiata dentro il suo buco; poi lui mi chiedeva come andava in cima alla scala, chi era venuto a farsi due passi in chiesa. Di tanto in tanto, oltre la nuvola di fumo della pipa, mi guardava con aria meditabonda.

«Dritti sul bersaglio!». Ma non volle proseguire prima di essersi fatto una tirata di pipa. «Calma, calma», disse. «Abbi pazienza. Qualunque cosa ci sia lì dentro, ci è rimasta per parecchio tempo;
certamente non scapperà entro i prossimi venti minuti».

Jeffery Deaver
Requiem per una pornostar

Tucker era concentrato sull’elaborato rituale dell’accensione della pipa. Ben
presto, una nuvola di fumo che odorava vagamente di ciliegia invase la stanza.
Indicò la sedia, e Rune si accomodò. Inarcò un sopracciglio, come a voler dire:
continua.

Tracy Chevalier
La ragazza con l’orecchino di perla

Il quadro mi aveva talmente sbigottito che non mi accorsi della donna che stava in un angolo, fino a quando non la sentii dire: «Bene, ragazza, questa è certo una novità per te». Sedeva in una poltrona e fumava la pipa. I denti con cui stringeva il bocchino erano ingialliti dal tabacco, le dita macchiate di inchiostro. Quanto al resto – il vestito nero, l’ampio colletto di pizzo, la cuffia bianca inamidata – tutto era impeccabile. Il volto rugoso era severo, ma gli occhi castano chiaro sembravano divertiti.

DONATO CARRISI
IL SUGGERITORE



Si misero a tavola. Il pollo con il contorno di patate era condito a puntino e
croccante. Joseph si riempì più volte il piatto. Il tizio - ormai nella sua mente lo
chiamava così - mangiava con la bocca aperta e aveva bevuto già tre birre. Dopo cena
tirò fuori una pipa intagliata a mano e del tabacco. Mentre si preparava da fumare, gli
disse: «Sai, ho pensato molto a quello che mi hai detto stamattina».
«A cosa esattamente?»
«A quel discorso sul ‘desiderare’. Mi ha colpito.»
Il tizio prese un rametto dal fuoco e con la punta rovente si accese la pipa. Aspirò
una profonda boccata prima di rispondere. «Potere e desiderio vanno di pari passo.
Sono fatti della stessa, maledettissima sostanza. Il secondo dipende dal primo, e viceversa.
E non lo dice un filosofo del cazzo, perché è la natura stessa che lo stabilisce.



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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #447 il: 05 Giugno 2010, 12:36:06 »
Recensione rinvenuta buricchiando quà e là,mi sembra notevole,libro compreso.

UNA PIPA POCO FA. . .

nostalgie, ricordi, citazioni, notizie sul modo di

fumare piu ' anacronistico e da alcuni piu' amato nel

libro di Alexis Liebaert e Alain Maya " il grande libro

della pipa " , ed. IdeaLibri  Pagine 216, lire 80.000



- - - - - Sulla mensola del caminetto stavano allineate

venti pipe. Ero nella casa di Georges Simenon, in Avenue

des Figuiers a Losanna, e il grande scrittore mi lascio'

, sorridendo, il tempo di contarle. Gli domandai: "Sono

sue o di Maigret?". Rispose: "Di entrambi perche' mi

hanno aiutato a far vivere Maigret. Lui, per la verita'

, ne possedeva soltanto tre, e la prediletta era di

radica e lievemente curva". Quel pomeriggio piovoso, che

risale al maggio del 1985, e' tornato nella memoria

leggendo Il grande libro della pipa dei francesi Alexis

Liebaert e Alain Maya, con prefazione di Giuseppe

Bossini e con uno straordinario apparato d'

illustrazioni. Fumatore, ma non di pipa, mi sono

accostato a queste pagine con la curiosita' di uno che

si accinga a un viaggio in un mondo pressoche'

sconosciuto. Fin dall' inizio, i due autori mi hanno

immerso nei tanti aromi del tabacco prima e dopo la

combustione: aromi, essi scrivono, "di cacao, di rum o

di vaniglia, e sentore di sottobosco in autunno, lieve

effluvio di terra bagnata di pioggia, un po' di spezie

orientali". Se questa immaginosa atmosfera corrisponde

alla realta' , e' facile capire perche' il genio di

Baudelaire possa aver dato la parola alla pipa che dice

del suo padrone: So allacciargli l' anima e cullarla

.nella rete mobile e azzurrina. che sale dalla mia bocca

ardente. Qui comincia il carosello delle citazioni. Un

filosofo della grandezza di Schopenhauer: "Fumare la

pipa dispensa dal pensare". Mallarme' : "Avevo appena

fatto il primo tiro, e subito dimenticavo i grandi libri

da scrivere, stupito, intenerito, respiravo "inverno

passato che tornava". I fratelli Goncourt: "Tutto

sommato, l' amore e' terra terra se paragonato alla

spiritualita' di una bella pipata". Einstein: "Prima di

rispondere a una domanda, bisognerebbe sempre accendersi

la pipa". Il Gotha dei pipatori comprende altri nomi:

Rimbaud (che cito' la sua pipa nel sonetto "Preghiera

della sera"), Tristan Corbie' re, Francis Jamme,

Apollinaire, Arthur Conan Doyle (e, dunque, Sherlock

Holmes), Mark Twain, Hemingway, Sartre, Van Gogh, Manet

e, fuori della letteratura e della pittura, Bismarck,

Oppenheimer, Konrad Lorenz, Bertrand Russell, Bing

Crosby, Clark Gable, Jacques Tati, il generale MacArthur

e Stalin: tra i crimini che gli si attribuiscono, anche

quello di non pulire mai le sue pipe e di appestare i

suoi collaboratori. Rare le donne: la Pompadour che ne

aveva collezionate trecento e l' intrepida George Sand.

Liebaert e Maya s' interrogano sulle ragioni del declino

della pipa. Con i riti lenti e claustrali che

accompagnano la preparazione e l' accensione, essa e'

simbolo di un tipo d' esistenza che trova riscontri

sempre piu' rari nelle nostre giornate. Contro la

pacatezza e l' assorta calma che la pipa esige, si

accampano gli opposti riti della fretta, della velocita'

, dell' immediatezza. La sigaretta e' in perfetta

sintonia con questo "modus vivendi" che morde e incalza:

tra il desiderio, c' e' uno scatto minimo di qualche

secondo. La pipa, invece, e' come un bacio ottenuto dopo

un lungo corteggiamento, e' l' amore devoto al posto del

rapido flirt. C' e' anche un' altra, importante

differenza. Mentre la sigaretta e il sigaro si

estinguono nel nulla della cenere e nella derelitta

poverta' della cicca, la pipa resta perche' e' un

oggetto. Questo chiama in campo la varieta' dei

materiali di cui e' composta: la schiuma, la radica, l'

argilla, la porcellana, la calabassa (scorza di zucca

tropicale), il mais (detto "schiuma del Missouri"), sono

stati trasformati dalla sapienza artigianale in piccoli

capolavori, ai quali si accede anche attraverso un

lessico che per un profano risulta vagamente misterioso.

Ma il libro di Liebaert e Maya spiega che cosa sono la

ghiera e il pigin, l' astina e lo scovolino, la grana

dritta e la rusticata. Nella prefazione Giuseppe

Bozzini, che confessa di nutrirsi "di pane (poco) e pipe

(tante)", scrive che noi italiani non abbiamo avuto, a

cantare la pipa, un Baudelaire o un Rimbaud, e ci siamo

dovuti accontentare di due poeti dialettali, il veronese

Berto Barbarani e il romano Cesare Pascarella. Di

Barbarani e' nota una "Canzone d' autunno" che comincia

cosi' : O ciosota pipa mia,. can da cassa dei pensieri,.

quanto mal me trovaria . no savendote vissin... ("O pipa

mia chioggiotta, . cane da caccia dei pensieri, . quanto

mi troverei male (non sapendoti vicina..."). Mi permetto

di aggiungere un altro poeta, Umberto Saba, e riascolto

la sua limpida malinconia: Qui tranquillo a riposo, dove

penso . che ho dato invano, che la fine approssima,.

piu' mi piace quel cielo, quelle rondini, . quelle nubi.

Non chiedo altro.. Fumare . la mia pipa in silenzio come

un vecchio . lupo di mare.



Nascimbeni Giulio
(24 ottobre 1994) - Corriere della Sera



« Ultima modifica: 05 Giugno 2010, 12:37:44 da Aqualong »
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #448 il: 16 Giugno 2010, 10:47:08 »
Pipe doppiogiochiste........

John Le Carre'

La Talpa.

"Arabi" ripeté Alleline, spingendo da parte la cartella e tirando fuori dalla
tasca una rozza pipa ''Qualunque imbecille può bruciare un arabo, non trovi
Bifl? Puoi comprarti tutto un gabinetto arabo con mezza corona, se ti salta il
ticchio." Da un'altra tasca cavò fuori una borsa di tabacco che gettò
tranquillamente sul tavolo. "Mi dicono che lei è andato sgavazzando col nostro
fratello Tarr, buon'anima.
Come se la cava?"
Un turbine di pensieri attraversò la mente di Guillam mentre sentiva la propria
voce rispondere.
Che, ne era sicuro, la sorveglianza al suo appartamento era cominciata soltanto
la sera prima; che durante il weekend non gli stavano addosso, a meno che Fawn,
il piantone, non facesse il doppio gioco, ciò che era difficile; che Roy Bland
somigliava straordinariamente al defunto Dylan Thomas (Roy gli aveva sempre
ricordato qualcuno, e fino a quel momento non era mai riuscito a stabilire chi),
e che Mo Delaware era sempre riuscita a passare per una donna grazie alla sua
scura mascolinità. (Si chiese anche se Dylan Thomas aveva gli occhi
straordinariamente chiari di Roy.) Che Toby Esterhase stava prendendo una
sigaretta dal suo portasigarette d'oro e che Alleline di solito non tollerava le
sigarette ma soltanto le pipe, per cui Toby doveva proprio essere in ottimi
rapporti con lui.
Che Bill Haydon aveva una strana aria giovanile e che le voci che circolavano
nel Circus sulla sua vita amorosa dopotutto non erano tanto ridicole, dicevano
che era ambidestro.
Che Paul Skordeno aveva un palmo scuro schiacciato sul tavolo e il pollice
leggermente sollevato, in maniera da tendere al massimo la surperficie di
contatto.
Pensò anche alla sua borsa da viaggio: Alwyn l'aveva consegnata alla navetta?
Oppure se ne era andato a colazione lasciandola lì perché venisse ispezionata da
uno di quei giovani mastini avidi di promozione? E, non certo per la prima
volta, si chiese da quanto tempo Toby s'aggirava li nell'archivio prima che lui
avesse cominciato a notarlo?
Scelse un tono faceto: "Esatto, capo.
Tarr e io ci incontriamo ogni pomeriggio da Fortnum and Mason".
Alleline stava succhiando la pipa spenta, provando la consistenza della carica di tabacco.
"Peter Guillam" disse lentamente, col suo forte accento, forse non se ne rende
conto, ma io ho un carattere molto gentile.
In realtà, trabocco letteralmente di buona volontà.
quello che desidero sapere è l'argomento della sua conversazione con Tarr.
Non chiedo infatti la sua testa né alcuna altra parte del suo maledetto corpo e,
personalmente, soffocherò l'impulso di strangolarlo.
O a strangolare lei." Strofinò un fiammifero e accese la pipa, producendo una
fiammata mostruosa. "Arrivo fino al punto di pensare di passarle una catena
d'oro intorn al collo e di riportarla al palazzo da quell'odiosa Brixton."
"In tal caso, non vedo l'ora che si faccia vivo" rispose.
"E c'è la grazia per Tarr, finché non gli metto le mani dosso."
"Glielo dirò.
Ne sarà eccitato."
Una gran nube di fumo veleggiò sul tavolo.


All'improvviso divenne una conversazione animata.
Bland aveva cacciato le mani in tasca e, attraversata a passo pesantc la stanza,
s'era andato ad appoggiare alla porta in fondo.
Alleline aveva riacceso la pipa e stava spegnendo il fiammifero con un ampio
movimento della mano mentre, attraverso il fumo, scrutava Guillam. "Chi sta
corteggiando in questi ultimi tempi, Peter, chi è la fortunata prescelta?"
Porteous stava facendo scivolare un foglio di carta verso Guillam perché lo
firmasse. "Per te, Peter, per piacere." Paul Skordeno stava bisbigliando
qualcosa nell'orecchio di uno dei Russi e Esterhase stava sulla porta dando
ordini male accolti alle madri.

Spalancò la porta spingendola con tutta la forza e si precipitò dentro con la
pistola in pugno.
Haydon e un uomo tarchiato con un ciuffo di capelli neri sulla fronte stavano
seduti intorno a un tavolino.
Poljakov,Guillam lo riconobbe dalle fotografie,stava fumando una pipa
inglesissima.
Indossava un maglione grigio con una lampo sul davanti, come la blusa di una
tuta.
Non s'era tolto neppure la pipa di bocca quando Guillam afferrò Haydon per il
collo.

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #449 il: 07 Luglio 2010, 12:33:12 »
ARTHUR C. CLARKE

Arthur Charles Clarke nacque a Minehead, nel Somerset (Inghilterra), il 16 dicembre del 1917. Da ragazzo, Clarke si divertiva leggendo con trasporto ed entusiasmo vecchie riviste di fantascienza. Dopo le scuole superiori (secondarie), non riuscì ad entrare in nessun college e di conseguenza iniziò a lavorare. Il suo primo lavoro fu di revisore dei conti per il governo.
Durante la seconda guerra mondiale lavorò per la Royal Air Force come esperto di radar e fu coinvolto nel successivo sviluppo del sistema di difesa radar che aveva consentito alla RAF di vincere la battaglia contro le forze aeree tedesche. Dopo la guerra si laureò al King's College dell'Università di Londra.
Il suo più importante contributo scientifico può essere considerato l'idea che i satelliti geostazionari potrebbero essere il sistema ideale per le telecomunicazioni: propose questo concetto in un articolo scientifico dal titolo Can Rocket Stations Give Worldwide Radio Coverage? ("Possono le stazioni razzo fornire una copertura radio mondiale?"), pubblicato su Wireless World nell'ottobre del 1945. Proprio grazie a questo contributo, l'orbita geostazionaria è oggi nota anche come orbita Clarke o fascia di Clarke in suo onore.
Clarke è ai più noto per il suo romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, cresciuto assieme alla sceneggiatura del film omonimo realizzato con il regista Stanley Kubrick.

PRELUDIO ALLO SPAZIO

Era un tipo dall'aspetto piuttosto duro che faceva ricordare Winston Churchill. La rassomiglianza era un po' guastata dalla sua mania per le pipe, delle quali, a quanto si diceva, possedeva due varietà: "normale" e "di emergenza". Il modello "emergenza" era sempre pronto per essere messo in azione immediatamente quando giungevano visitatori indesiderati. Si pensava che la miscela segreta usata a questo scopo consistesse di foglie di tè solforate. Sir Robert era un tipo così singolare che una serie di leggende si era creata intorno a lui. Molte di queste erano state inventate dai suoi assistenti, che sarebbero andati fino all'inferno per il loro capo.

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