Autore Topic: Autori con la pipa in bocca  (Letto 325776 volte)

Offline Aqualong

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #465 il: 24 Agosto 2011, 11:03:48 »
Enzo Biagi in questo libro commenta gli appunti di Enzo Ferrari,riguardanti eventi e personaggi incontrati nella sua carriera.
Un personaggio con un'immagine fortemente bonaria,quando è con la pipa in bocca.

Enzo Biagi

FERRARI TESTIMONE DEL TEMPO

C'erano sul suo tavolo molte bottiglie, e tanti piatti, e gli faceva piacere vedere gli
ospiti mangiare. Lui assaggiava un po' di tutto, caviale, salmone, trota affumicata,
cetrioli freschi, melanzane in salamoia, pasticci di carne, formaggi piccanti, torte e
tanti tipi di frutta. Non è vero che fosse ingordo: era, magari, piuttosto goloso ».
Churchill, che di bevute se ne intendeva, racconta che durante un pranzo Stalin
brindò trenta volte; Bidault, che a un festino gli sedeva accanto, a metà della serata lo
portarono via ubriaco; Gilas parla di una cena che si prolungò per sei ore; i vecchi
compagni narrano di certe scampagnate sul Mar Nero, con uova di fagiano cotte nella
cenere, e fuochi di faggio sui quali si cuoceva lo sciaslik, l'agnello allo spiedo.
Del resto, Stalin diceva, ed è Trotzki che ne dà conferma, che non c'è nulla di
meglio che « identificare l'avversario, predisporre ogni cosa, vendicarsi per bene,
mangiarsi un arrosto, bere una bottiglia di Mukuzani, accendere la pipa, e poi
andarsene a dormire ».
Una « Dunhill » fa parte dell'iconografia privata: non c'è uno Stalin allegrone, con
gli amici o coi visitatori, che non mostri la sua predilezione per il fumo. Smise
soltanto, e per ragioni di salute, pochi mesi prima di morire.

Raccontava Ehrenburg che Litvinov, durante la seduta nella quale fu espulso dal
Comitato centrale, chiese con concitata apprensione al segretario: « Ma allora, mi
considerate un nemico del popolo? ».
Silenzio. Al termine della discussione, e uscendo dalla sala, Stalin si tolse la pipa di
bocca e finalmente rispose: « No ».
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Offline Aqualong

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #466 il: 25 Agosto 2011, 11:42:57 »
Per far felice qualche amico d'oltralpe e per inserire un autore funambolico  che non poteva mancare.
Il tutto in un paio di post. 8)

Lèo Malet (Montpellier, 7 marzo 1909 – Parigi, 3 marzo 1996)

A sedici anni si trasferisce a Parigi e incontra André Colomer, che lo introduce negli ambienti anarchici. Collabora come freelance alle pubblicazioni del movimento (l'En dehors, l'Insurgé, Journal de l'Homme aux Sandales, La Revue Anarchiste).
In gioventù esercita diversi mestieri: commesso, impiegato di banca, magazziniere da Hachette, operaio, lavatore di bottiglie, venditore di giornali e comparsa, soprattutto per i film sceneggiati dall'amico Jacques Prévert. Vagabonda per Parigi e, nel 1925, debutta come chansonnier al cabaret Vache énragée.
Nel 1931, su invito di André Breton, si lega all'ambiente surrealista, facendo amicizia con Dalí, Tanguy, Prévert. Nel 1932 il suo nome compare nel primo dei dodici manifesti del surrealismo e vi resta legato fino al 1949. Scrive tra l'altro alcune raccolte di poesie surrealiste: Ne pas voir plus loin que le bout de son sexe (1936), J'arbre comme cadavre (1937) e Hurle a la vie (1940). Viene espulso dal movimento perché accusato di essere diventato "il seguace di una pedagogia poliziesca". Si sposa con Paulette Doucet e insieme fondano il Cabaret du Poète Pendu.
Dopo una dura esperienza in un campo di concentramento nazista, nel 1941 inizia a scrivere polizieschi firmandosi con svariati pseudonimi: Frank Harding, Leo Latimer, Louis Refreger, Omer Refreger, Lionel Doucet, Jean de Selneuves, John Silver Lee. In particolare, con lo pseudonimo di Frank Harding, crea il personaggio del reporter Johnny Métal, protagonista di una decina di romanzi gialli.
Nel 1943 pubblica 120, Rue de la Gare, con cui esordisce il suo personaggio più celebre, l'investigatore privato Nestor Burma, che sarà protagonista di una trentina di avventure, inclusa un'interessante "serie nella serie" intitolata I nuovi misteri di Parigi, che va dal 1954 al 1959 e che comprende quindici racconti, ognuno dei quali dedicato a un diverso arrondissement di Parigi. Sarà proprio il personaggio di Nestor Burma a far riscuotere a Malet i primi consensi di pubblico (mentre la critica lo "riscoprirà" parecchi anni più tardi), guadagnandosi l'onore di alcune trasposizioni cinematografiche e di una serie televisiva (1991-1995) di 85 episodi, con protagonista l'attore Guy Marchand.
In secondo piano rispetto a quella di giallista, ma comunque degna di nota, è la sua attività di scrittore di romanzi del genere cappa e spada, circoscritta al periodo tra il 1944 e il 1945. Nel 1948 viene insignito del Grand prix de littérature policière. Nel 1958 la serie I nuovi misteri di Parigi viene premiata con il Gran Prix de l'Humour noir.

Negli anni ottanta Jaques Tardi inizia l'adattamento a fumetti in bianco e nero dei romanzi che hanno per protagonista Nestor Burma.


120, rue de la Gare

Si era in luglio. Faceva bel tempo. Un tiepido sole addolciva
lo spoglio paesaggio. Spirava una brezza leggera da sud. Sulla
torretta, la sentinella continuava il suo andirivieni. La canna del
fucile riluceva al sole.
Tornai di lì a poco al mio tavolo, tirando di gusto nella pipa.
Il belga s’era sbrogliato alla meno peggio. Potevamo ricominciare.
Col mio coltello, appuntii meticolosamente la matita
all’anilina fornitaci dalla Schreibstube, poi trassi a me una scheda
bianca.
- Il primo, – dissi, senza alzare il capo. – Nome?
Non lo so.

I piedi affondati nel terreno viscido, fumavo la pipa
fantasticando, addossato alla baracca.
Tagliato nel mezzo dalle rotaie traballanti e sbilenche della
linea Decauville, il viale centrale del campo mi squadernava
dinanzi la sua lunga prospettiva. Evitando le pozze di fango,
gruppi di prigionieri passeggiavano. Sulle soglie delle baracche,
appoggiati agli stipiti delle porte o seduti sugli scalini, mani infilate
nei cinturoni o sprofondate nelle saccocce, altri fumavano
chiacchierando. Biancheria mossa dal vento asciugava alle
finestre.
Battei la pipa contro i gradini di legno. Al posto della cenere,
sparsa sui magri ciuffi della brughiera, misi il prodotto polacco
che ci veniva venduto allo spaccio sotto il nome di tabacco. Era
una specie di dinamite da sfondare lo stomaco, affumicare il
paesaggio e spandere all’intorno un odore polveroso,
piacevolmente acre.

Rividi con emozione l’avenue de la République, poi i piccoli
passages, nei pressi della statua di Carnot, in uno dei quali c’era il
celebre Guignol. In un angolo di quell’intrico di strade coperte,
c’era un tempo un piccolo cabaret da cui ero stato
ignominiosamente sbattuto fuori perché mi mancava qualche
franco al porto-flip che avevo bevuto.
Spipacchiando, cercai quel bistrò… se ancora esisteva.
Il 40 di rue de la Monnaie corrispondeva a un albergo di
terz’ordine (camere a mese e a giornata), ma pulito, tenuto da una
specie di ex boxeur che fumava la pipa davanti al camino
ascoltando con aria scettica i lamenti di un arabo che domandava
verosimilmente una dilazione di pagamento.

Mi offrì un lussuoso astuccio d’oro.
- Prendete, – disse. – Non ne troverete da nessuna parte.
Sono Philip Morris. Ne ho una piccola riserva.
-E ’ una marca rarissima, in effetti, ma… Scusatemi, non
sono un amatore… preferisco la mia pipa.
- Ah, la vecchia vaporiera… Come volete…
Accese la mia pipa e la sua sigaretta.
- Per tornare a Colomer, – disse, esalando un’odorosa nuvola
di fumo, – il brillante detective ha qualche idea?

Mi guardò preoccupato.
- Qualcosa non va, vero? Lo capisco da come tirate nella
pipa vuota. Niente più tabacco?
Indicò la sua giacca gettata su una sedia.
- Prendete una sigaretta.
- No. Mi piace solo la pipa.
- Scorticate una Gauloise e ficcatela nel fornello.
-No.
- Un goccetto di rum, allora? Ho un fondo di…
- Sentite, lasciatemi in pace, fate voi stesso domande e
risposte.
Mi alzai dalla poltrona.
- Volete che vi accompagni? – propose Montbrison.
- Siete matto? Che penserebbero vedendomi presentare con
un avvocato? Mi metterebbero di sicuro le manette.
Rise e non insistè. Promisi di tenerlo al corrente e me ne
andai. Avevo tempo davanti a me. Scrissi tre cartoline in un
ufficio postale lì accanto. Comprai quindi un pezzo di pane e lo
mangiai in un bar, annaffiato da un caffè con abbondante
saccarina. Acquistai da un tabaccaio un pacchetto di gris e caricai
la pipa dirigendomi verso i locali della polizia.




Baraonda agli Champs-Élysées

Entrammo nel bar,
brulicante di un’umanità chiassosa. Marc Covet scelse uno
sgabello, quindi mi abbandonò quasi immediatamente per andare
a salutare qualcuno. Mi sedetti, tirai fuori la pipa, la riempii e
ordinai da bere. Poi mi sbottonai il colletto che mi dava fastidio e,
tenendolo staccato dalla pelle con due dita, mi misi a pensare, in
quell’elegante posa, a un seno intravisto furtivamente. «Ni vu ni
connu, le temps d’un sein nu…» come dice il poeta. Attorno a me
si discuteva di Sourdes menaces. Qualcuno dichiarava con voce di
testa che era sen-sa-zio-na-le. Il tizio separava le sillabe, tagliando
le parole a fette, come fossero salsicce, di cui si riempiva la bocca.
«…pletamente d’accordo con lei. Un linguaggio ellittico
davvero riuscito».
«Sì, grande arte. Potrebbe vincere qualsiasi festival».
Con un solo movimento, puntai mento e pipa verso l’ingresso
del bar. Nel locale stava entrando una coppia, salutata da
mormorii di adulazione. L’uomo, un ciccione dal cranio sguarnito
di capelli e madido di sudore, l’avevo già incontrato nei corridoi
del Cosmopolitan.

«Piacere di conoscerla, signor Nestor Burma», mi salutò il
mio ospite.
Mi venne incontro, con la mano calorosamente tesa. Un
metro e ottanta. Sulla quarantina. Ben piazzato. Capelli corti. Viso
abbronzato. Occhi grigi simpatici brillavano dietro le spesse lenti
degli occhiali cerchiati d’oro. Dettaglio che mi piacque: fumava la
pipa. Spinse verso di me una borsa di tabacco e il giornale già
segnalato. Era «Le Crépu». Ne ero certo. Cominciai a riempire la
pipa.




Febbre nel Marais

Entrai nel mio ufficio privato, appoggiai sul tavolo un revolver,
una foto e una busta rosa barrata in diagonale con la
scritta in lettere blu pervinca: «Rosyanne, calze, biancheria intima
». Mi sedetti, riempii la pipa, guardai la pistola, la foto e le
mutandine di nylon, infilai il tutto in un cassetto, eccetto la
pipa, che tenni in bocca, e presi il telefono.

Ripensai a tutto ciò per una buona oretta, fumando una
pipa dietro l’altra, e cogitazioni e tabacco mi fecero venire sete.
In ufficio avevo solo dell’armagnac. La gola richiedeva però un
liquido meno nobile e meno forte. Scesi dal tabaccaio di fronte
dove la scelta era ben più vasta.
Checché ne pensino alcuni, talvolta è utile avere sete e bere
un bicchiere.
Uscito dal locale, dopo aver bevuto la mia birretta, il pacchetto
di tabacco che avevo appena comprato mi sfuggì dalle
dita. Rotolò sul marciapiede, pericolosamente diretto verso il
tombino. Per fortuna non ci si infilò dentro. Mi abbassai per
raccoglierlo e un passante fu costretto a eseguire un brusco
scarto, più per non stritolarmi la mano che per non calpestare il
mio acquisto. Poi, dopo qualche secondo, un’altra scarpa, questa
volta di donna, si fermò a qualche centimetro da me.
Mi sembrò di essere riportato indietro di due giorni.
Al mondo non c’è un solo paio di scarpe da donna in pelle
di serpente. Sarebbe troppo bello per i serpenti.


«I matti vivono nel loro mondo… Ebbene, credo che me
ne andrò. Ha l’aria calma…».
«Oh! Ma certo, signore… Non è vero piccolo mio che tu
sei buono, sempre tanto buono?».
Per coccolarlo, mi girò le spalle. Mi misi la pipa in bocca e
accesi un fiammifero.
«Dio Mio!», gridò la vecchia, girandosi. «Ma lei non sa quindi?
Il fuoco… il fuoco…».
Il malato si contrasse nella sua poltrona come sotto l’effetto
di una scarica elettrica. Il suo volto espresse un terrore atroce.
Poi si mise le mani a uncino tra i capelli e lanciò un lugubre
e atroce urlo.



« Ultima modifica: 25 Agosto 2011, 12:00:43 da Aqualong »
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #467 il: 25 Agosto 2011, 14:52:01 »
Malet Léo

Il sole non è per noi

Terminato l’interrogatorio, ho atteso nella stanza attigua che
Gina finisse il suo. Seduti a un tavolo, gli sbirri che ci avevano
accompagnato stavano sudando mille camicie sul loro rapporto. È
arrivato un arzillo giovanotto con la pipa in bocca. Ha stretto la
mano ai poliziotti e m’ha lanciato un’occhiata interessata. —
Novità su Villejuif?
— Nessuna — ha risposto un agente. — Non avevano
complici. Hanno commesso il crimine da soli.
La pipa si è puntata su di me. — E quello?
— Un amico dei due. Carne da galera pure lui. Per ora se la
cava, ma non tarderà a ritrovarsi con le manette ai polsi.

Ci siamo scoperti compaesani, il che ha definitivamente rotto
il ghiaccio. Grabel era simpatico. Doveva avere sei o sette anni
più di me, e non avere mai avuto a che fare con la miseria. Se ci
teneva, potevo metterlo al corrente di quanto conoscevo. Ha
svuotato e ricaricato la pipa, e tolto di tasca un pacchetto di
sigarette riservato agli intervistati. Abbiamo acceso con il suo
accendino.

L’ampia sala del ristorante del Centro Vegetariano, con i suoi
sgabelli di legno bianco intorno a tavoli ricoperti di tela cerata,
profumava di pulizia e di un certo puritanesimo. I manifesti
contro il tabacco e l’alcol appesi ai muri smaltati evangelizzavano
un pubblico verosimilmente già fedele.


IL SOLE SORGE DIETRO IL LOUVRE

Strinsi i denti sul cannello della pipa, abbassai la testa per sembrare un corridore e mi diressi verso rue Jean-Lantier, riparata dalla tramontana.
Qualche mese prima, in quella strada, una bionda chiamata Gaby consumava accuratamente le suole delle scarpe tra due ingressi dalbergo. Forse era ancora lì.

Lei sospirò laconica: «In questo ufficio non c'è bisogno di zucchero. C'è sempre qualcuno pronto a fare lo sdolcinato. Non ha niente di meglio da fare con quel Corbigny?».
«Fare la guardia del corpo non è poi così impegnativo».
Infilai la lettera in un cassetto e riempii una pipa: «Guardia del corpo! Di cosa ha paura quel cliente?».

Sul camino, la pendola scandiva melanconica il tempo. Labat-jour proiettava un cerchio di luce sul sottomano immacolato su cui le mie mani giocavano con un biglietto da visita e un pezzo di carta strappata. Con la pipa in bocca, riflettevo. Nella piccola sala dattesa lì vicino, scricchiolò un mobile. Due piani sotto passò uno strillone, che proponeva, ruggendo, la propria mercanzia: «Lultimo “Crépuscule”… Le ultime del “Crépu”…». Si allontanò o entrò a fare qualche gargarismo al bar tabacchi dellangolo. Di nuovo silenzio, disturbato solo dal tic tac della pendola e dalla mia pipa che gorgheggiava. Mi misi a pulirla. All'improvviso, all'incrocio, per poco due auto non si scontrarono. I freni stridettero, facendomi drizzare i peli delle braccia. Scoppi di voci corrucciate arrivarono fino a me, attraverso le persiane e i vetri chiusi.
Feci scivolare il biglietto da visita e il frammento di carta nellangolo di cuoio del sottomano e mi alzai. Caricai la pipa, curata e ricurata, l'accesi, indossai il cappotto e andai a vedere nella notte fredda e buia se c'era qualcosa per Nestor.
Qualcosa c'era.
La solita manganellata. La classica botta in testa cui sono abbonato.

Entrai nel cabaret, lasciai il cappotto nel guardaroba e scesi nella sala dello spettacolo, dove regnava un'atmosfera satinata e lussuosa. C'era odore di tabacco biondo, alcol e profumi costosi. Forse anche di pelle. Sul fondo era allestito un minuscolo palcoscenico e il pubblico si affollava intorno a una minuscola pista da ballo. Solo i bicchieri in cui si beveva non erano minuscoli. Era perfetto.

Tirai fuori dalla tasca il piccolo utensile che mi serve a pulire la pipa, ma anche ad altre cose. Sottili bastoncini di nickel per gente distratta, che perde spesso le chiavi. La serratura cedette subito, come una donna facile, ma con meno rumore.


La notte di Saint-Germain des-Prés

Tornai sui miei passi, lentamente. Un po sonnambulo anchio, a mia volta. Appoggiato al parapetto del ponte guardai scorrere la Senna, fumando la pipa. Tutto considerato, preferiva il buon Dio ai suoi santi. La banale guardia di quartiere andava bene per le stupidaggini. Lui, quando scopriva un cadavere, avvertiva direttamente la Tour Pointue. In pochi minuti, stipata di poliziotti in divisa, unauto sarebbe sbucata da quegli duri edifici e si sarebbe fiondata a tutta velocità e a sirene spiegate verso rue des Quatre-Vents e… come non detto! Rue des Quatre-Vents? Che sciocchezze! Già si fa fatica a credere a Babbo Natale a dicembre, ma in giugno poi…
…Le acque scure della Senna scorrevano pigramente…
«Dormiamo o ci tuffiamo?», strombazzò una voce dalle sonorità rauche.
Mi scossi, alzai uno sguardo affaticato sul poliziotto che mi parlava. Stava arrivando il tramonto. Ero lì da un secolo.
«Credo che sia così», dissi.
Gli feci un sorriso, un sorriso da scemo, un sorriso triste.
«Così cosa?».
«Non lo so… una fortuna che non mi sia caduta la pipa in acqua, eh?

«Sputa il rospo. Ma niente storie, ok? Lascia il tuo corno a Roncisvalle.
«Cerca di non dimostrarti coglione quanto MacGow».
Gridò:
«Maledetto sbirro schifoso, perché gli dà del coglione?».
«Non lo era? Be, tanto meglio. Ma io lo considero un povero negro deficiente per essersi fatto ammazzare così prima che avessi finito con lui. Si può dire che mi abbia complicato lesistenza».
Per un momento credetti che mi volesse saltare al collo. Illividì, fremette, strinse spasmodicamente i pugni. Riuscì a controllarsi:
«Le auguro di incontrare nella sua vita schifosa una così bella persona, maledetto sbirro figlio di puttana», sputò lui, con la voce vibrante di emozione. «Me ne vado, addio».
«Ti accompagno», dissi. «Non vorrei che ti cadesse una tegola in testa».
Non protestò. Infilai la pistola nel fodero, la pipa in tasca e i soldi che il signor Grandier aveva depositato sul tavolo nel portafoglio. Nemmeno lui protestò. Voleva che lo liberassi dal pacco. Lo stavo facendo.

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Offline Tino Bombarda

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #468 il: 26 Agosto 2011, 09:08:22 »
la pipa con le corna! me l'aveva regalata mia madre 20 anni fa... brebbia se non ricordo male...
Tino Bombarda

Pipae, vina, venus corrumpunt corpora nostra / sed vitam faciunt pipae, vina, venus.

Offline Aqualong

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #469 il: 26 Agosto 2011, 12:33:43 »
In spagna ne ho viste alcune,con corna di varie dimensioni,detto fra noi che se le fumino


Léo Malet

PANDEMONIO A RUE DES ROSIERS

«Ho urgente bisogno di vederla», ha detto con una strana voce.
E sono venuto al quai d'Orléans per trovarlo in compagnia della giovane ebrea morta.
«Bere e scervellarmi», prosegue. «Non sono riuscito a riubriacarmi granché… forse dovrei ingoiare un torcibudella… né sono riuscito a capirci qualcosa, eccetto che ho un cadavere in casa di cui farei volentieri a meno. Ma adesso che è arrivato lei, forse andrà meglio».
Dalla tasca della veste da camera estrae una sigaretta come fosse un cavatappi, se la mette in bocca e l'accende. Seguo il suo esempio e introduco la mia pipa nell'arredo.

«Forse è stata la lega contro l'alcolismo. Ovunque la gente si ubriachi, loro depositano un cadavere. È sicuramente più efficace del delirium tremens per ricondurre sulla strada della salute-sobrietà… Comunque, prima parlava di una pelliccia e di una borsetta, mi sembra».
«Sono di là».
La pelliccia e la borsa non mi dicono più di quanto abbiano già detto al mio ospite. La borsa non contiene nulla di
interessante e la pelliccia non ha alcun marchio di fabbrica o del negozio in cui è stata acquistata.
Torno dalla morta e frugo le tasche del trench. Contengono polvere di tabacco, il fornello di una pipa rotta e un biglietto da visita stropicciato su cui leggo: «Jacques Ditvrai».

Una sigaretta finisce di consumarsi nel posacenere sul tavolo, accanto a una macchina per scrivere portatile, una bottiglia di acqua minerale, un tubo di aspirina e diverse cartacce. È un fumatore eclettico. Una pipa in schiuma è appoggiata su un pacchetto di Gauloises e uno di tabacco.
«Prego si accomodi», mi invita il tipo indicandomi la poltrona.
Lui prende posto sul divano ingombro di giornali e riviste e si appoggia allo schienale, in una posa che deve essergli molto familiare.

Oeters sta per chiudere – ha già tirato dentro l'espositore esterno – ma è ancora aperto. Quando mi annuncio, sta terminando con una cliente bionda del tipo che amo. Tacchi a spillo, gonna a tubo che sagoma le natiche e il resto.
«Chi si vede!», fa lui. «Nestor Burma! Sta seguendo un'inchiesta da queste parti?».
«Sono a passeggio».
Dà il resto alla bionda e lei, con l'acquisto sotto il braccio, si congeda sorridendoci gentilmente.
Oeters mi stringe la mano, sceglie una pipa tra la dozzina che orna la sua scrivania – begli strumenti di ogni forma e tipo – la riempie, l'accende e sorride, anche lui:
«Sta davvero passeggiando?».
«Diciamo che cerco il libro di un certo Ditvrai e ho pensato a lei».

Con le mani in tasca e la pipa in bocca, mi avventuro nella buia rue des Lombards, come un ometto. Di notte come di giorno il posto brulica di una s;rana umanità, circospetta e furtiva, allo stesso tempo dimessa e agitata, indefinita e precisa. Ma la notte il suo carattere è decisamente più percepibile. Di giorno è piena di auto che la percorrono, madri di famiglia accompagnate dalla progenie che vi si perdono dirette al Bazar de l'Hotel de Ville o verso casa, con le borse della spesa. La notte è invece il regno incontestato delle prostitute e tutto ciò che ne consegue. Mentre certe ragazze passeggiano sui marciapiedi, altre restano immobili all'ingresso degli hotel o in angoli bui. Ce ne sono per tutti i gusti, se non per tutte le tasche. Giovani e anzianotte. Di prima o seconda mano. Come in tutti i posti dove ci si prostituisce. Avviluppate in un impermeabile, un cappotto o un semplice maglione. E tutte con tette e natiche di dimensioni impressionanti. Le prime aggressivamente a strapiombo, le seconde per illustrare la teoria della meccanica ondulatoria. Un corridoio semibuio vomita un cliente che si allontana di fretta, rasente i muri, colmo di vergogna, con la testa bassa. Lo assorbe la notte. Altri amanti dei brevi accoppiamenti gironzolano facendo la scelta al loro passaggio o immagazzinando immagini in testa, sognando un po' a occhi aperti per alimentare, più tardi, il proprio cinema personale.

Dédé versa da bere. A quel punto ci raggiunge il grassoccio, sempre adorabile, con in bocca un altro fiammifero. Dédé accende una Gauloise e il turista una profumata sigaretta inglese. Tengo loro compagnia con la mia pipa. Beviamo tutti un bicchiere, poi finalmente Dédé comincia.

NEBBIA SUL PONTE DI TOLBIAC

Con la pipa in una mano, la borsa del tabacco nell’altra,
contemplavo il paesaggio esterno che sfilava sotto i miei occhi, ma
continuavo a sentire su di me il peso dello sguardo della giovane gitana.
Il fiume trascinava acque color piombo. Ne saliva una timida
bruma, che avrebbe di certo preso coraggio. Al port d’Austerlitz era
ormeggiato un cargo battente bandiera britannica su cui si
affaccendavano alcuni tozzi marinai, sfidando la maledetta pioggerellina
che il cielo basso non cessava di far cadere. Poco oltre, verso il pont de
Bercy, una gru scheletrica il ruotava sulla propria base, come
un’indossatrice che presenta un nuovo abito.
Riuscii a caricare la pipa solo quando spuntarono nel mio campo
visivo le gigantesche travi metalliche disposte a X che costituiscono la
barriera mediana alla gare d’Austerlitz, sullo sfondo fumoso della
prospettiva dei binari della linea di Orléans. Il metrò si fermò facendo
stridere tutti i freni a sua disposizione.
Scesi.
Anche la gitana era scesa dal vagone.
Se non era un pedinamento, ne era comunque un’ottima
imitazione. A dire il vero mi stava davanti, ma certi pedinamenti si
fanno così. Non credevo però di avere a che fare con una collega gitana.
La vidi fendere la marea di viaggiatori e dirigersi verso la pianta
della rete metropolitana, con il passo morbido e aggraziato di una
ballerina, indifferente alla curiosità che suscitava intorno a lei.
La gonna di feltro, animata dal dolce e armonioso movimento
delle anche, era un po’ più lunga del trench e sfregava contro i comodi
stivali di cuoio marrone, dalla forma elegante malgrado la mancanza di
tacco.
Si fermò davanti alla pianta come per studiarla, ma il tutto sapeva
molto di messinscena.
Il metrò ripartì. Arrivò un altro convoglio, sul marciapiede
opposto, si fermò e ripartì a sua volta, comunicando alle mie suole
intense vibrazioni. Nella cabina del capostazione si sentì squillare la
suoneria del telefono. Accesi la pipa.
Adesso eravamo soli sul marciapiede. I viaggiatori lasciati dal
convoglio che ci aveva portati lì, per la maggior parte gente che andava
a visitare i malati dell’ospedale, non si erano attardati e l’operatore
incaricato di tracciare con tanta arte, e l’aiuto di un annaffiatoio, degli
otto in parte per terra in parte sulle scarpe dei passeggeri in attesa, non
aveva ancora preso servizio, forse proprio perché il marciapiede era, per
l’appunto, deserto.
Mi avvicinai alla bella creatura.
Non doveva avermi perso di vista un attimo perché si girò di
scatto verso di me proprio quando ci separavano appena due passi. Non
mi lasciò il tempo di aprir bocca. Attaccò per prima:
«Lei è… Nestor Burma, vero?».
«Sì. E lei?».
«Non ci vada», disse in risposta. «Non ci vada. È inutile».
Con un gesto automatico, portò la mano alla tasca del trench,
tomba di messaggi urgenti, tirò fuori un pacchetto di Gauloise tutto
accartocciato e lo infilò di nuovo in tasca senza prendere nemmeno una
sigaretta. Quel gesto mi ricordò la mia pipa, che avevo lasciato
spegnersi. Non la riaccesi e la feci sparire.


La nebbia si era fatta più spessa. Avvolgeva il triste
paesaggio nel suo perfido cotone. Tirai fuori la pipa e la caricai. Mi
tremavano le dita, mi sentivo a disagio.
Bélita era indaffarata. La sentii aprire la credenza, maneggiare una
pentola. Accesi la pipa.
C’erano solo verdure e niente vino. L’insegnamento di Lenantais
aveva dato i suoi frutti. Frutti e verdure. Personalmente io mi sarei fatto
volentieri una bistecca succulenta e un litrozzo di rosso, ma per una
volta non sarei morto. Bélita tirò fuori un tavolo pieghevole da dietro la
credenza, uno di quei tavoli da giardino o da bistrot di campagna, lo
sistemò, andò a cercare due sgabelli al piano terra e si mise a preparare
la cena. Seduto sul letto, la pipa in bocca, la guardai andare e venire,
darsi da fare tra i dolci fruscii della sua gonna di feltro. Buon Dio! In
cosa mi ero imbarcato questa volta?
«Ho tutti i vizi», dissi per scuotermi. «Fumo. Spero che non la
disturbi».
Mi sentivo pietoso e ridicolo.
«Anch’io fumo», rispose lei. «Ogni tanto».


Mentre preparava il
caffè tirai fuori la pipa e la riempii.
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. Se gli orizzonti che speravo di
scoprire erano ostruiti come quello che vedevo dal mio osservatorio,
non avremmo fatto molta strada. Sembrava che il passage des Hautes-
Formes non esistesse più. La nebbia l’aveva inghiottito.
«…Non si vede a due metri. Posso tentare di forzare la serratura
del portone senza attirare l’attenzione. A meno che lei non possegga
una chiave…».
«Non ho la chiave», disse Bélita, raggiungendomi. (Il suo profumo
a buon mercato e il suo odore di giovane animale mi accarezzavano le
narici). «I poliziotti me le hanno chieste e io gliele ho date. Ma si può
entrare a casa sua anche senza passare dal portone sulla strada. Laggiù,
in cortile, c’è una porticina…». «Andiamo!».
Mi rimisi la canadese, la gitana si avvolse nel suo trench e
scendemmo. La nebbia che invadeva il cortile si appiccicò alle nostre
spalle come biancheria bagnata. Il fumo della mia pipa e il vapore
condensato dei nostri fiati si mescolavano alla bruma fuligginosa.

Più vicino, steso sul letto, sognante, calmo e solitario, un giovane fumava
beatamente una pipa dal lungo cannello. Lo chiamavano il Poeta, ma nessuno aveva
mai letto i suoi versi. Sotto le coperte, lo spagnolo si agitava. Il suo vicino russava
protetto da un manifesto che annunciava per la sera stessa, alla Casa dei Sindacati,
boulevard Auguste-Blanqui, la seduta del “Club degli Insorti”. Argomento trattato:
Chi è il colpevole? La Società o il Bandito? Oratore: André Colomer.
Un uomo magro, capelluto e
barbuto, con i piedi nudi calzati in sandali di cuoio entrò nel dormitorio,
martellando il pavimento di legno con un bastone nodoso, e chiese:
«Il compagno Dubois c’è?».
«No», rispose qualcuno.
L’uomo aspirò profondamente:
«C’è puzza qui. Puzza di…».
Si interruppe vedendo il Poeta che fumava. Si precipitò verso di lui, gli strappò
la pipa dalla bocca e la lanciò con violenza contro un muro, facendola andare in
mille pezzi. Si sollevarono diverse proteste e Lenantais prese la parola:
«Compagno Garone, hai appena compiuto un atto autoritario, indegno di un
anarchico. Non è che per caso un giorno vorrai obbligarci a seguire il tuo esempio e
farci mettere tutti a quattro zampe a mangiare verdura perché, secondo le tue teorie, è
il solo modo per consumarla secondo natura? Sei libero di agire come vuoi,
denunciando la nocività del tabacco — io stesso me ne astengo, non fumo – ma devi
convincere i compagni ancora schiavi di queste passioni, di questi bisogni, con
argomentazioni, non con atti di autorità. È importante…».
I.‘incidente diede il via a una discussione che si prolungò.


Uscimmo. Appena fuori dall’edificio, caricai la pipa e l’accesi.
Senza offesa per l’idiota che aveva forse ormai finito di rompere le pipe
– e le scatole – agli altri, il fumo che mi riempì i polmoni mi procurò un
certo benessere.
Il commissario accese la sigaretta, mescolò il suo fumo a quello
della mia pipa.
«…Non militava più, non frequentava alcun gruppo politico o
filosofico.
Quella lettera rischia di cambiare ogni cosa. È davvero
seccante che l’abbia mandata a chiamare, Burma! Che abbia aspettato di
essere in un letto di ospedale, ferito a coltellate, per riprendere i contatti.
Così l’ha tirata nel mezzo. Non so in mezzo a cosa, ma…». Mi strinsi
nelle spalle:
«In mezzo a cosa vuole che mi abbia messo? Lei sta facendo di un
buco una voragine. È una deformazione professionale. L’ispettore…».
Indicai con la pipa il subalterno di Florimond:
«…l’ispettore ha una sua teoria, credo».
I baffi superiori assorbirono il rilascio della mia pipa.


Nestor Burma e la spilla a forma di cuore


Restammo un buon mezzo minuto faccia a faccia, studiandoci a vicenda, lei in poltrona, io di fronte in piedi, il cappello in mano, la gola attanagliata da una voglia furiosa di fumare, come sempre quando capisco che sarebbe scorretto mettere all‘opera la pipa. Un mezzo minuto a squadrarci in silenzio.
Mi raschiai la gola, gli occhi bassi sulla grana tuttora in mano mia. Provavo sempre più
violentemente quella maledetta voglia di fumare, esasperata dalla vista di uno gnomo in biscuit di Sèvres, sul ripiano di un tavolinetto, con un'enorme pipa nel becco. Oh! Presto sarei andato a inebriarmi a sazietà e a spese mie. Non c‘erano molti chilometri per ritornare ai miei cari riti tabagici. Lo sentivo. Troppo intelligente, Nestor Burma. Talmente intelligente, sottile e astuto che passa per una testa di rapa. La signora Ailot sospirò. Sorrise.
— Lei è un uomo dalle molte risorse.

Passai sul marciapiede opposto, preparandomi una bella pipa rilassante. Mentre imbottivo il fornello della mia pipa a forma di toro, e mi domandavo se qualcuno non avesse tentato di riempirmi la testa di fandonie, lanciai un ultimo sguardo alla casa da dove ero uscito. Una tendina fremette, a una finestra del primo piano, agitata dalla corrente d‘aria o sollevata da una mano. Uhm… La signora Ailot forse trovava anche me un bel ragazzo. Non si sa mai! Accesi la pipa, mi diressi verso il mio macinino, mi sedetti e rimasi stravaccato sul sedile a fumare, più o meno pensieroso. In quel momento, una voce giovane e fresca mi salutò con un cordiale: — Buongiorno, signore.
Senza trucco, assomigliava a una piccola selvaggia simpatica, con la sua camicetta blu generosamente aperta, per l‘assenza dei bottoni in alto.
— Buongiorno, signorina. — E le ricambiai il sorriso, togliendomi la pipa di bocca. Un po‘ di fumo, che si levava dal
fornello, le sfiorò il naso. Lo fiutò, quasi voluttuosamente. Strizzò l‘occhio.
— So chi è lei — disse.
— Addirittura! E chi sono?
— Il principe azzurro.
— Sbagliato. Sono d‘Artagnan.


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #470 il: 29 Agosto 2011, 15:02:38 »
Ancora Isabelita.....


Isabel Allende

Ritratto in seppia

Frederick Williams giocava a bridge e leggeva quotidiani
inglesi, come gli altri gentiluomini della prima classe. Si era lasciato
crescere basette e baffi frondosi dalle punte impomatate che gli
conferivano un aspetto distinto, fumava la pipa e sigari cubani.
Confessò alla nonna di essere un fumatore accanito e che la cosa più
difficile del suo lavoro da maggiordomo era stato l'astenersi dal farlo
in pubblico; finalmente adesso poteva assaporarsi il suo tabacco e
buttare nell'immondizia quelle pastiglie alla menta comprate
all'ingrosso che gli avevano perforato lo stomaco.

Me ne vado sereno, Tao, perché nessuno
più di lei potrebbe aver maggior cura di mia figlia."
"Nessuno potrebbe amarla più di me, signore."
"Quando non ci sarò più, qualcuno dovrà occuparsi di mia sorella.
Lei sa che Rose è stata come una madre per Eliza..."
"Non si preoccupi. Io ed Eliza ce ne occuperemo," gli promise il
genero.
"La morte... intendo dire... sarà veloce e dignitosa? Come farò a
sapere che sta arrivando la fine?"
"Vomiterà sangue, signore," disse Tao Chi'en tristemente.
Accadde tre settimane dopo. In mezzo al Pacifico, nell'intimità della
sua cabina di capitano. Non appena fu in grado di reggersi
nuovamente in piedi, il vecchio navigatore ripulì le tracce di vomito,
si sciacquò la bocca, si cambiò la camicia insanguinata, accese la pipa
e si diresse a prua, dove si sistemò a guardare per l'ultima volta le
tremule stelle nel cielo di velluto nero. Diversi marinai lo videro e si
tennero a distanza in attesa, con i berretti in mano. Quando il tabacco
finì, il capitano John Sommers scavalcò il parapetto e si lasciò cadere
silenziosamente in mare.

La foresta dei pigmei

Angie Ninderera fumava delle sigarette che, secondo lei,
rappresentavano il suo unico lusso, ed era orgogliosa del tanfo del suo
aereo. "Chi non gradisce l'odore di tabacco può andare a piedi" era solita
dire ai clienti che si lamentavano. Da fumatrice pentita, Kate seguiva con
occhi avidi la mano della nuova amica. Aveva smesso di fumare da poco
più di un anno, ma la voglia non era sparita e contemplando l'andirivieni
della sigaretta di Angie le veniva da piangere. Estrasse allora dalla tasca la
pipa vuota, che portava sempre con sé per i momenti duri, e si mise a
masticarla con tristezza.

Camminarono per ore tra la fitta vegetazione. Nadia e Alexander si
lasciavano guidare senza fare domande anche se spesso sembrava loro di
essere già passati diverse volte per il medesimo luogo. I cacciatori
procedevano fiduciosi, a passo sostenuto, senza mangiare né bere,
infaticabili, sorretti solamente dal tabacco nero delle loro pipe di bambù.
Insieme alle reti, alle lance e ai dardi, quelle pipe erano gli unici loro beni.
I due ragazzi li seguivano inciampando di continuo, finché non si
sentirono sul punto di svenire per la stanchezza e il caldo e si buttarono a
terra, rifiutandosi di andare avanti. Avevano bisogno di riposare e di
mangiare qualcosa.

Il Regno del Drago d'oro

A un lato del computer c'era una caraffa di tè ghiacciato con vodka, una
miscela esplosiva della cui invenzione si sentiva molto orgogliosa.
Dall'altro, riposava la sua pipa da marinaio, spenta. Si era rassegnata a
fumare meno da quando la tosse non le dava tregua, ma teneva la pipa
sempre carica a farle compagnia: il profumo del tabacco nero le
risollevava lo spirito. "A sessantacinque anni non sono molti i vizi che una
befana come me si può permettere" pensava. E non era disposta a
rinunciare a nessuno di essi.

La città delle Bestie

Era fiera dei suoi denti, grandi
e forti, capaci di rompere noci e stappare bottiglie; era anche orgogliosa di
non essersi mai rotta un osso, di non aver mai dovuto far ricorso a un
medico e di essere sopravvissuta ad attacchi di malaria e persino a punture
di scorpione. Beveva vodka liscia e fumava tabacco nero in una pipa da
marinaio. D'inverno e d'estate indossava sempre gli stessi comodi
pantaloni e un gilet con molte tasche in cui riponeva l'indispensabile per
sopravvivere in caso di cataclisma. In alcune occasioni, quando era
necessario vestirsi elegante, si toglieva il gilet e si metteva una collana di
canini d'orso, regalo di un capo apache.
Dopo cena, mentre la nonna beveva vodka e fumava la pipa in
compagnia degli uomini, Alex andò all'imbarcadero con Nadia. La luna
luccicava nel cielo come una lampada gialla. Il rumore della foresta faceva
da musica di sottofondo: gridi di uccelli, urli di scimmie e gracidio di rospi
e grilli. Migliaia di lucciole correvano veloci accanto ai ragazzi, sfiorando
loro il viso.

Poi gli aveva insegnato a staccare le sanguisughe bruciandole con una
sigaretta, per evitare che i denti restassero incastrati sotto pelle provocando
un'infezione. Non era un metodo semplicissimo per Alex, visto che non
fumava, ma aveva scoperto che un po' di tabacco caldo della pipa di sua
nonna sortiva lo stesso effetto. Era più facile farle fuori che vivere
nell'angoscia di evitarle.


"Così giovane e già fumi, Alexander?" gli aveva chiesto con tono
allegro. Lui aveva tentato di abbozzare una risposta negativa, ma la nonna
non gliene aveva dato il tempo. "Vieni con me, andiamo a fare una
passeggiata" aveva detto.
Il ragazzo era salito in macchina, aveva allacciato per benino la cintura
di sicurezza e aveva mormorato tra i denti uno scongiuro perché sua nonna
era una terrorista del volante; guidava come se fosse sempre in corso un
inseguimento. L'aveva condotto a scossoni e frenate fino al supermercato,
dove aveva comprato quattro grandi sigari di tabacco nero; poi si era scelta
una via tranquilla, aveva parcheggiato lontano da sguardi indiscreti e
aveva acceso un sigaro a testa. Avevano continuato a fumare con le
portiere e i finestrini chiusi fino a quando il fumo impedì di vedere fuori.
Alex sentiva che la testa gli girava e che lo stomaco saliva e scendeva. Ben
presto non ce l'aveva più fatta, aveva aperto lo sportello e si era lasciato
cadere per strada come un sacco, in preda a un terribile malessere. Sua
nonna aveva atteso sorridendo che finisse di vomitare l'anima, senza
offrirsi di tenergli una mano sulla fronte e di consolarlo, come avrebbe
fatto la mamma, e poi si era accesa un altro sigaro e glielo aveva passato.
"Forza, Alexander, dimostrami che sei un uomo e fumane un altro"
l'aveva sfidato, quanto mai divertita.
Per i due giorni successivi il ragazzo era dovuto rimanere a letto, verde
come una lucertola, convinto che la nausea e il mal di testa l'avrebbero
ucciso. Suo padre aveva pensato che si trattasse di un virus mentre sua
madre aveva subito sospettato della suocera, ma non aveva osato accusarla
direttamente di aver avvelenato il nipote. Da allora il vizio del fumo, che
tanto successo riscuoteva tra alcuni dei suoi amici, ad Alex faceva rivoltare
le budella.


La figlia della fortuna

Giusto mentre il pubblico si stava disperdendo
dopo il combattimento dell'orso, nell'unica strada del paese stavano
entrando dei carri trainati da muli preceduti da un ragazzino indiano che
suonava un tamburo. Non erano veicoli come tutti gli altri, i rivestimenti di
stoffa erano dipinti, dai tetti pendevano frange, pompon e lampade cinesi e
i muli, addobbati come animali da circo, erano accompagnati da un
insopportabile tintinnio di campanacci di rame. Seduta a cassetta sulla
prima vettura si trovava un donnone dai seni enormi, vestita con abiti
maschili e con una pipa da bucaniere tra i denti. Il secondo carro era
guidato da un gigantesco individuo ricoperto da lise pelli di lupo, testa
rasata, cerchi alle orecchie, armato come se dovesse partire per il fronte.
Entrambe le carrozze ne avevano una a rimorchio su cui viaggiava il resto
della compagnia: quattro ragazze acconciate di velluto sgualcito e broccato
avvizzito, che mandavano baci al pubblico stupefatto. Lo sbigottimento
durò solamente un istante; non appena riconobbero i carriaggi, una salva di
grida e di colpi di pistola in aria ravvivò il pomeriggio. Fino ad allora le
colombe infangate avevano regnato senza concorrenza femminile, ma la
situazione era cambiata quando nei nuovi paesi si erano insediate le prime
famiglie e i predicatori che scuotevano le coscienze minacciando la
condanna eterna. In mancanza di chiese, organizzavano le funzioni
religiose negli stessi saloon dove prosperava il vizio. Per un'ora veniva
sospesa la vendita d'alcol, i mazzi di carte venivano ritirati, i quadri lascivi
girati, e gli avventori ricevevano i severi rimproveri del pastore per i loro
errori e la loro dissolutezza. Affacciate al balcone del secondo piano, le
prostitute sopportavano filosoficamente la lavata di capo, consolate dalla
certezza che nel giro di un'ora tutto sarebbe tornato nel suo alveo naturale.
Finché gli affari andavano bene, non aveva molta importanza se chi le
pagava per fornicare poi le incolpasse di ricevere il pagamento, come se il
vizio fosse non di chi lo cercava, ma di chi induceva in tentazione. Una
netta divisione tra le donne decenti e le donnacce veniva così stabilita.
Stanche di corrompere le autorità e di sopportare umiliazioni, alcune si
spostavano con i loro bauli in un altro luogo, dove prima o poi il ciclo si
compiva nuovamente. L'idea di un servizio itinerante offriva il vantaggio
non solo di eludere l'assedio delle mogli e dei religiosi, ma anche di
espandere l'orizzonte alle zone più remote dove si incassava il doppio. Gli
affari andavano a gonfie vele quando il clima era buono, ma l'inverno era
alle porte, presto sarebbe caduta la neve e le strade sarebbero diventate
intransitabili; questo era uno degli ultimi viaggi della comitiva.
I carri percorsero la strada e si fermarono all'uscita del paese, seguiti da
una processione di uomini ringalluzziti dall'alcol e dal combattimento
dell'orso. Anche Eliza si avviò in quella direzione per vedere da vicino la
novità. Capì che sarebbero venuti meno i clienti della sua attività
epistolare e che doveva trovarsi un altro modo di guadagnarsi la cena.
Approfittando del cielo sereno, diversi volontari si offrirono per sganciare
i muli e aiutare a scaricare un pianoforte sconquassato, che collocarono sul
prato agli ordini della tenutaria che tutti chiamavano con il grazioso nome
di Joe Spaccaossa. In un battibaleno fu sgomberato un pezzo di terra,
vennero sistemati i tavoli e per magia apparvero bottiglie di rum e pile di
cartoline di donne nude. E anche due casse di libri a poco prezzo che
vennero annunciati come "romanzi d'alcova con le scene più piccanti di
Francia". Venivano venduti a dieci dollari, una bazzecola, perché grazie a
loro ci si poteva eccitare tutte le volte che si voleva e si potevano anche
prestare agli amici; erano molto più convenienti di una donna vera, spiegò
la Spaccaossa, e per dimostrarlo lesse un passaggio che il pubblicò ascoltò
in un silenzio di tomba, come se si trattasse di una rivelazione profetica.
Uno scroscio di risate e di battute accolse la fine della lettura e in pochi
minuti non rimase un solo libro nelle casse. Nel frattempo era scesa la
notte e si dovette illuminare la festa con torce. La maîtresse annunciò il
prezzo esorbitante delle bottiglie di rum, ma ballare con le ragazze costava
un quarto. "C'è qualcuno che sappia suonare questo maledetto pianoforte?"
chiese. Allora Eliza, che ci vedeva doppio dalla fame, si fece avanti senza
pensarci due volte e si sedette di fronte allo strumento scordato, invocando
Miss Rose. Non suonava da dieci mesi e non aveva un buon orecchio, ma
accorsero in suo aiuto l'allenamento di anni con la bacchetta metallica sulla
schiena e i colpi sulle mani del professore belga. Attaccò con una delle
canzonette ammiccanti che Miss Rose e suo fratello, il capitano, erano
soliti cantare in duetto nei tempi innocenti delle serate musicali, prima che
il destino desse un colpo di coda e il suo mondo si capovolgesse. Con
stupore notò che la sua goffa esecuzione veniva accolta molto bene. In
meno di due minuti comparve un rozzo violino di accompagnamento, si
animò il ballo e gli uomini si contendevano le quattro donne per saltare e
trottare sulla pista improvvisata. L'orco con le pelli tolse il cappello a Eliza
e lo mise sul piano con un gesto talmente risoluto che nessuno osò
ignorarlo e presto si riempì di mance.
Uno dei carri veniva usato esclusivamente come alloggio della tenutaria
e del figlio adottivo, il bambino del tamburo; su un altro viaggiavano
pigiate le altre donne, e i due rimorchi erano trasformati in alcove. Ognuno
di essi, foderato con foulard multicolori, conteneva una branda con quattro
colonnine e baldacchino con lembi di zanzariera, uno specchio dalla
cornice dorata, lavamano e bacinella di maiolica, tappeti persiani stinti e
un po' tarlati, ma ancora appariscenti, e bugie con grandi candele. Questa
decorazione teatrale incoraggiava gli avventati, nascondeva la polvere
delle strade e i danni derivanti dall'uso. Mentre due ragazze ballavano al
suono della musica, le altre due sbrigavano rapidamente il loro compito
nei carriaggi. La maîtresse, dotata di mani di fata per le carte, non
trascurava di frequentare i tavoli da gioco né di riscuotere anticipatamente
i servizi delle sue colombe, di vendere il rum e di ravvivare la baldoria,
sempre con la pipa tra i denti.


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #471 il: 01 Settembre 2011, 18:49:09 »
Frammenti di pipa

Joseph S. Fletcher

Il Doppio Mistero Di Ravensdene Court

Attraversai il villaggio di Lesburg per raggiungere la costa e presto mi
trovai davanti al mare, immensa distesa di scintillante raso azzurro. La
superficie splendeva sotto i raggi del sole primaverile. All'orizzonte non
una vela, non un filo di fumo che rivelasse la presenza di una nave. Ebbi
l'impressione del silenzio e della solitudine assoluta; era un assaggio della
vita nuova che stavo per vivere almeno per qualche tempo. Avevo
compiuto, proprio allora, trent'anni.
A prima vista la costa del Northumberland mi affascinò e provai un vero
piacere a vagare lungo quei pendii.
Verso mezzogiorno il sole cominciò a scottare come se fossimo d'estate.
Per ripararmi dal grande calore mi distesi ai piedi di una enorme roccia
sporgente. Le delizie di una buona pipa mi misero in uno stato di beata
fantasticheria.

Arturo Pérez-Reverte
La Regina del Sud

Chiunque, a seconda della prospettiva, poteva essere un bravo ragazzo. O una brava ragazza. Il mondo era un brutto posto, c'erano regole complicate, e ognuno ricopriva il ruolo che gli era stato assegnato dal destino. E non era sempre possibile scegliere. Tutte le persone che conosco, avevano sentito dire al dottore una volta, hanno le loro buone ragioni per fare quello che fanno. Una volta che hai accettato questa verità sui tuoi simili, concludeva, non è difficile andarci d'accordo. Il trucco è cercare sempre il lato positivo. E fumare la pipa aiuta parecchio. Richiede tempo, riflessione. Ti permette di muovere lentamente le mani, di guardare in te stesso e di guardare gli altri.
Il dottore ordinò un secondo cognac e Teresa  non servivano tequila nella locanda  un orujo galiziano che faceva uscire fiamme dal naso.
Fumava con pipe dai forelli bruciati, riempiendole con flemma  di un tabacco inglese conservato in scatole di latta che gli deformavano le tasche piene di chiavi, monete, accendini, curapipe, e di altri oggetti inimmaginabili. Una volta, tirando fuori un fazzoletto  li aveva con le iniziali ricamate, come andavano un tempo  gli era caduta per terra una piccola torcia agganciata a un portachiavi gadget dello yogurt Danone. Quando camminava, tintinnava come un ferrivecchi.

Andy McNab
Azione Immediata

Jack, Bob e io tornammo ai locali incrostati di muffa e puzzolenti di
piscio di gatto. Con loro sommo disappunto, i due piloti avevano finito di
parlare di squash per occuparsi dell'analisi di alcune fotografie aeree del
bersaglio che erano appena state consegnate. Per riportare la bilancia in
pari, Steve tirò fuori la sua premiata pipa da lupo di mare e lanciò un
attacco di gas tossici nei confronti di tutti. L'aggeggio maledetto
continuava a spegnersi, e lui continuava a riaccenderlo. In breve, quei
locali, già fetenti di per sé, si trasformarono nella camera a gas di San
Quintino.
 
Hermann Hesse
Pellegrinaggio d’autunno

Era una bella mattina e la terra e l’aria, ancora autunnali, erano sfiorate dal primo
profumo invernale, la cui aspra chiarezza scemò con l’avanzare del giorno. Grandi
stormi di storni volavano sui campi in formazione a V, con un forte frullar d’ali.
Nella valle avanzava lentamente il gregge di un pastore nomade e alla sua leggera
polvere si mischiava l’esile fumo azzurrognolo della pipa del pastore. Tutto
questo,insieme alle catene montuose, alle variopinte dorsali coperte di boschi e ai
corsi d’acqua costeggiati dai salici, risaltava nell’aria cristallina come un quadretto
dipinto: e la bellezza della terra parlava la sua lingua lieve e struggente, senza curarsi
di chi la ascoltasse.


Ken Follett
LA CADUTA DEI GIGANTI

Lev intascò le banconote e riempì la pipa.
«Dimmi una cosa, Grigorij.» Era così che Lev aveva detto di chiamarsi, dato che viaggiava con i documenti del fratello. «Cosa faresti se rifiutassi di darti la tua parte?»
Il discorso aveva preso una piega pericolosa. Lev con un gesto lento mise via il tabacco e ripose la pipa spenta nella tasca della giacca. Poi afferrò Spirya per il bavero e, spingendolo contro il parapetto, lo fece piegare all‟indietro e sporgere nel vuoto. Spirya era più alto di Lev ma di gran lunga meno forte. «Ti spezzerei il collo e mi prenderei tutti i soldi che ti sei fatto grazie a me.» Lo spinse ancora più in fuori. «Poi ti farei volare in questo dannatissimo mare.»
Spirya era terrorizzato. «D‟accordo! Lasciami andare!»
Lev mollò la presa.
«Gesù!» esclamò Spirya ansimante. «Ti ho fatto solo una domanda.»
Lev accese la pipa. «E io ti ho dato una risposta. Non dimenticartene.»

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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #472 il: 02 Settembre 2011, 12:05:13 »
Ancora un uso eterodosso della pipa

CLARA MICCINELLI  e CARLO ANIMATO
Clara Miccinelli, docente di Lettere e giornalista, è un’audace investigatrice dell’insolito, affascinata
dai misteri del passato. E’ proprietaria di una straordinaria collezione di manoscritti e oggetti
antichi appartenuti all’enigmatico Principe di Sansevero, di cui è la riconosciuta biografa: su di lui
ha pubblicato infatti tre saggi, ricavandone un serial televisivo per la Rai.

NEROFUMO

«La llicta, stemperandosi in bocca, sollecita la secrezione delle ghiandole salivari.
Il bolo costituito da foglie e llicta si chiama acullico. Va messo sulla lingua e masticato
lentamente. S’imbibisce di saliva e va fatto riposare a lungo nelle concavità dell’una
e dell’altra guancia. Infine se ne inghiotte il succo.»
«Così facendo, assomigli a un ruminante!»
«Ne sono fiero. Del resto io l’acullico posso offrirvi per i vostri disturbi. Avete di
meglio? Oppure preferite il fumo del sayri, insufflato con la pipa per via rettale, allo
scopo di scacciare tutti i perfidi umori dal corpo? Se non sbaglio, siffatta trovata è di
voi civilizzatori. Mai a noi peruviani sarebbe venuta in mente l’idiozia di infilarsi
dentro il culo un clistere di tabacco! Che ne deducete, caro il mio gesuita?»
L’altro non rispose, prese la paccottiglia, la osservò con sospetto, poi la mise in
bocca. Il meticcio urlò: «Reverendo, per amor di Dio, succhiatela ma non ingoiatela!
Solo così vi stimolerà circolazione e nuova linfa vitale».
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #473 il: 02 Settembre 2011, 12:32:41 »
Ancora...


Frederick Forsyth

IL QUARTO PROTOCOLLO

Il mercoledì mattina, Louis Zablonsky passò senza difficoltà attraverso i
controlli dell'aeroporto di Heathrow. Con il cappotto pesante e il cappello
di tweed, la valigetta in mano e la grossa pipa di radica fra i denti, si
mescolò alla fiumana di uomini d'affari che ogni giorno partivano da
Londra per Bruxelles.
Sull'aereo, una delle hostess si chinò su di lui e bisbigliò: «Mi dispiace,
signore, ma non può accendere la pipa in cabina». Zablonsky si scusò e si
cacciò in tasca la pipa di radica. Quel divieto non rappresentava un
inconveniente. Non fumava, e anche se avesse acceso la pipa non avrebbe
tirato molto bene. Non poteva tirare bene, con quattro diamanti a goccia a
58 sfaccettature nascosti nella base, sotto il tabacco ben pressato.
All'aeroporto nazionale di Bruxelles prese a nolo una macchina e si
diresse verso nord, lungo l'autostrada, uscendo da Zaventem per puntare
verso Mechelen, dove svoltò a destra, verso nord-est, per proseguire fino a
Lier e Nijlen.
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #474 il: 02 Settembre 2011, 13:23:33 »
E poi....

Ezio Greggio

È Lui O Non È Lui?
(Cerrrrto Che È Lui)


Alberto, forse per lo champagne o forse abbagliato da quella figura che
ostruiva l'ingresso, prese una topica pazzesca e urlò: «Maurizio Costanzo,
che piacere, si accomodi».
«A' bischero,» lo rimbrottò la Rosy col suo tipico accento tosco-sanitario
«ma che Costanzo e Costanzo, so' la Bindi, o che tu c'hai gli occhi foderati
con le fiches del casinò di Montecarlo?»
Alberto si scusò immediatamente e, andatole incontro dopo essersi
beccato uno sputo in un occhio, fece accomodare il ministro della Sanità
accanto alla Schiffer.
Mai scelta si rivelò più errata.
La Rosy, per ingraziarsi Alberto, si lanciò in una serie di complimenti
che avevano il sapore dell'adulazione finalizzata alla conquista.
«A' Ranieri, lo sai che tu c'hai proprio un bel gozzetto... potresti venire a
prendermi sull'Arno e poi, ovvia, si potrebbe andare insieme al Vespro.»
Tra una portata e l'altra (che la Bindi divorava a bocca spalancata), il
ministro ammollava sorrisetti maliziosi al principe.
La Schiffer, che essendo contrattualmente fidanzata col mago
Copperfield conosceva tutti i trucchi e aveva scritto a tal proposito il libro
Due sistemi per conquistare tutti: dal principe al mago - successo
garantito, cominciò a spazientirsi.
Dapprima le starnutì nella minestra, poi si soffiò il naso con la tagliata di
manzo del ministro, infine le vuotò la pipa sul tiramisù.
Ma la Bindi, un po' per non attaccar briga, un po' perché aveva un
appetito da bovino, mangiò tutto, senza fare neppure un piega.
Saranno state poi le ceneri ancora accese della pipa della Schiffer a darle
fastidio nello stomaco o la gelosia, fatto sta che la Rosy cominciò a
pizzicare con velate allusioni e nello stesso tempo a provocare la
fotomodella tedesca.
«O' Topa Modella, la stia un po' attenta quando la si gira,» attaccò con
foga la Bindi «con quella lametta fine fine che c'ha al posto del su' nasino
la rischia di sgozzarmi.»
«Non si prieocchiupi del mio nasio,» rispose la Schiffer con la cantilena
di Stan Laurei «se anchie fosse, con tiutto quel lardo che c'ha sotto pelle
non riuscirei mai a ferirla, ah ah ah.»
I commensali esplosero in una risata piegandosi sul tavolo. Poggiolince
e De Loronzo, approfittando della posizione, con un risucchio fulmineo si
ciucciarono un portasale e un portapepe in argento.
«O' scostumata, ora ti fo' vedere io chi l'è un omo vero fra noi due.»
La cena degenerò.
La Bindi saltò sul collo della povera Claudia, e cominciò a martellarle la
testa con uno stinco di maiale.
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #475 il: 04 Settembre 2011, 10:35:35 »
Pipe Immerse.......

Tom Clancy

La Grande Fuga Dell'Ottobre Rosso

Appoggiato all'indietro sulla sedia girevole, Franklin fumava con aria
contemplativa una vecchia pipa di radica. Tutt'intorno a lui, la sala era
immersa in un silenzio sepolcrale; ma, anche se non lo fosse stata, la cuffia
da cinquecento dollari l'avrebbe comunque efficacemente isolato dal
mondo esterno "Capo" ventiseienne, Franklin aveva percorso tutta la
carriera a bordo di cacciatorpediniere e fregate Per lui, sommergibili e
sommergibilisti erano il nemico, indipendentemente dalla bandiera battuta
o dall'uniforme indossata.
Un sopracciglio inarcato, la testa quasi calva s'inclinò da una parte, e gli
sbuffi della pipa si fecero irregolari. La mano destra si posò sul quadro di
controllo a spegnere i processori di segnale, così da eliminare dal suono
l'interferenza elettronica.  No, niente da fare: il rumore di fondo era
sempre troppo intenso Reinseriti i filtri, Franklin provò allora a variare i
comandi azimutali I sensori SOSUS erano programmati in modo da
consentire controlli di rilevamento per mezzo dell'impiego selettivo di
ricevitori individuali manipolabili elettronicamente Franklin poteva così
prima effettuare un rilevamento, poi valersi di un gruppo attiguo di sensori
per la triangolazione Il contatto era debolissimo, ma non troppo lontano
dalla linea Il terminale, interrogato, gli disse che da quelle parti c'era
l'USS Dallas,beccato , si disse con un sorrisetto Arrivò un altro
rumore, un brusio a bassa frequenza che diminuì dopo soli pochi secondi
senza spegnersi del tutto, però, Come mai non l'aveva udito prima
della variazione dell'angolo di ricezione? Deposta la pipa, passò a regolare
il quadro di controllo.
Capo?, gli arrivò in cuffia, la voce dell'ufficiale di servizio
Comandante può venire in sala controllo? C'è qualcosa che vorrei farle ascoltare.


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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #476 il: 04 Settembre 2011, 11:00:16 »
Serene atmosfere di pipe archeologiche....

Paul Sussman

L'Armata Perduta Di Cambise

Lo vide appena entrata in fondo alla sala,
intento a fumare una pipa, con la testa china sulla scacchiera di una
tavola reale, assorto. Non era molto diverso dall'ultima volta che lo aveva
visto sei anni prima, sebbene con i capelli lunghi e il volto più abbronzato.
Lo fissò per un momento, dominando un senso di nausea, poi andò da lui.
Gli era davanti prima che lui alzasse la testa.
Tara! Sgranò gli occhi scuri, si guardarono per un lungo momento,
senza che nessuno dei due parlasse, poi, sporgendosi in avanti, lei alzò il
braccio e lo schiaffeggiò
Pezzo di merda!

Raccolse il papiro dal tavolo, lo appallottolò e lo gettò nel cestino.
Girò intorno alla scrivania e si sedette pesantemente nella vecchia
poltrona di pelle, prese una pipa di radica da una mensola che aveva alle
spalle, la caricò e l'accese. Khalif si accese una sigaretta e si tolse di tasca
l'involto con i manufatti, che posò sul tavolo davanti a Habibi.
Bene, disse con un sorriso. Ora tocca a lei. Che cosa mi sa dire di
questi?
Habibi lo fissò attraverso un velo di fumo azzurrognolo e disfece
l'involto con un sorriso incuriosito sulle labbra. Abbassò quindi lo sguardo
sui sette oggetti che Khalif aveva trovato nel negozio di Iqbar.
La sua pipa si era spenta e si prese un altro minuto per
ricaricarla e riaccenderla con tutta calma. Stava gustando quel momento,
come qualcuno a cui è stato chiesto di identificare un vino molto raro e,
dopo un attento assaggio, intimamente sicuro di avercela fatta.
Occupazione, persiana dichiarò

Ormai nell'ufficio il buio era fitto, a parte il cono di luce proiettato dalla
lampada sulla scrivania. Di tanto in tanto il professore udiva i passi della
guardia nel corridoio, ma per il resto nel museo regnava la quiete assoluta.
L'aria sopra la sua testa era densa di fumo di pipa, come un nembo
azzurrognolo.
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #477 il: 06 Settembre 2011, 20:58:36 »
Gary Jennings

(Buena Vista, 20 settembre 1928 – Pompton Lakes, 13 febbraio 1999) è stato uno scrittore e giornalista statunitense.
Visse per lungo tempo in Messico, dove studiò e svolse numerose e accurate ricerche sulla civiltà azteca. A diretto contatto con le antiche tribù locali, ne condivise i riti e le usanze.
Grazie al suo lavoro di giornalista e corrispondente di guerra ebbe modo di viaggiare in tutto il mondo.
Giunse al successo nel 1980 grazie al romanzo storico L'azteco, che nel 1982 vinse il Premio Bancarella.
Le sue cronache sono intrise di bestialità,incesti,omicidi truculenti.
Le vittime il popolo amerindo,i carnefici missionari e coquistadores


L'Autunno Dell'Atzeco

Ho già accennato al modo in cui la nostra gente di solito fumava il
picìetl: avvolto in quello che chiamiamo poquietl, un tubetto di canna o di
foglia che brucia lentamente insieme alle foglie più piccole e non in una pipa d'argilla
che non brucia, come invece fanno gli spagnoli.
Talvolta sia noi sia i bianchi amavamo mescolare al picìetl qualche altro
ingrediente  cacao in polvere, certi semi o certi fiori secchi  per
modificarne il gusto.

Non lontano, Mateo riposava accanto al suo otre di vino, spesso il suo
compagno preferito, circondato dalle nuvole di fumo che si alzavano dal
tabacco che fumava senza l'aiuto della pipa. Questo tabacco era stato
compresso e arrotolato fino ad assomigliare a un escremento umano, e
quando lo avevo assaggiato, avevo scoperto che era molto peggio di come
immaginavo fosse la mierda.



Il sangue dell'azteco

Guzmàn viaggiava spesso con persone più vecchie di lui. Il vecchio
stregone indio poteva aver bisogno di un giovane che lo assistesse e lo
servisse, durante il viaggio, ma anche durante le sue esibizioni.
Ben presto ebbi la pancia piena di tortillas calde, fagioli e chilis.
Calmata la fame, mi accovacciai vicino al fuoco mentre il Guaritore
fumava la sua pipa.
L'oggetto era finemente intagliato e aveva le sembianze di un dio azteco
- Chac Mool - che si vedeva spesso scolpito nella pietra in molte antiche
rovine. La divinità veniva raffigurata sdraiata sulla schiena con una grande
ciotola sulla pancia in cui venivano gettati i cuori strappati dal petto delle
vittime sacrificali per nutrire gli dei.
La ciotola di Chac Mool adesso era colma di tabacco, che il Guaritore
accese.
"Sono scappato dal mio padrone spagnolo" gli dissi.
"Mi picchia troppo e mi fa lavorare più di una coppia di muli." Inventai
quelle bugie come solo un lèpero sapeva fare.
Il vecchio mi ascoltò in silenzio, mentre il fumo si alzava in volute dalla
sua pipa. Mi venne in mente che forse il fumo avrebbe potuto dirgli che
stavo mentendo, ma il solo suono che provenne da lui fu un flebile
mormorio.

A mezzogiorno arrivammo a un piccolo villaggio e fummo accolti dal
cacique, il capo indio, che ci invitò a sedere fuori della sua capanna
insieme ad alcuni anziani.
Gran parte degli abitanti del villaggio erano a lavorare nei campi.
Il Guaritore distribuì alle persone riunite in cerchio il tabacco per
accendere le pipe e parlò con loro del raccolto e degli altri abitanti.
Qualunque fosse il motivo che ci aveva portati in quel villaggio, non ne
parlarono. Ne mostrarono urgenza di farlo. Per quegli anziani la vita
scorreva lenta, solo la morte arrivava al galoppo.
Una cortina di fumo si alzò dalle sei persone che fumavano la pipa.


In un villaggio dove ci eravamo fermati per curare gli abitanti, qualcuno
aveva rubato la preziosa pipa del Guaritore, quella che aveva le sembianze
del dio Chac Mool.
Solo uno sciocco avrebbe rubato la pipa di uno stregone, e di uno
sciocco sicuramente si trattava. Il Guaritore possedeva la sua pipa da molto
prima che io nascessi, e dalla silenziosa intensità del suo sguardo capii che
la perdita lo aveva contrariato molto più di quanto non rivelasse la sua
impassibile espressione.
Per prendere il ladro, mi disse, avrebbe usato la trappola del serpente.
"Che cos'è la trappola del serpente?" domandai.
"La trappola del serpente sono due uova e un anello.
L'anello è attaccato a un bastoncino. Le due uova devono essere
sistemate davanti all'apertura della tana di un serpente con l'anello in
mezzo.
Quando il serpente vede l'uovo, esce dalla tana e lo inghiotte. Ma i
serpenti, come gli esseri umani, sono ingordi, e invece di rubarne uno solo,
appena il primo uovo è sceso un po' nel suo corpo, subito il serpente esce
di nuovo dalla tana, si infila dentro l'anello e ingoia anche il secondo uovo.
E così facendo si mette in trappola da solo, perché finché non digerisce il
cibo, non può più strisciare via dall'anello, rimasto stretto tra le due uova."
"Ma non puoi aspettarti che un uomo sgusci dentro a un anello per un
uovo."
Il Guaritore cinguettò. "Non per un uovo, ma forse per un po' di tabacco
da fumare nella pipa che ha rubato sì."
Il Guaritore allora mise una borsetta di tabacco nel punto in cui era stata
rubata la pipa. Ma dietro alcune foglie di tabacco sparse un po' di polvere
di peperoncino piccante.
"Il ladro ha già infilato la testa nell'anello, quando è venuto al nostro
campo per rubare la pipa. Adesso vediamo se, invece di ritirarsi dall'anello,
prende il tabacco."
Lasciammo il nostro campo e andammo alla capanna del cacique, dove
si erano riunite le persone che avevano bisogno delle cure del Guaritore.
Dopo un'ora tornai al campo con il pretesto di prendere qualcosa. Il
tabacco non c'era più. Tornai indietro di corsa per dirlo al Guaritore.
Qualche momento dopo il cacique ordinò a ogni persona del villaggio di
uscire in strada e di sollevare le mani.
Un uomo aveva della polvere rossa sulle dita. E trovammo la pipa sotto
il pagliericcio della sua capanna.
Lasciammo il ladro ai suoi compagni di villaggio per la punizione.
E quando il Guaritore spiegò come la punizione dovesse essere
impartita, imparai un'altra lezione sulla tradizione azteca.
"Il nostro popolo crede che un crimine dovrebbe essere punito con lo
stesso strumento con cui viene commesso. Quindi, se un uomo uccide un
altro uomo con un coltello, l'assassino verrà ucciso con un coltello,
possibilmente lo stesso; in questo modo il male che l'assassino ha inferto
con il coltello torna indietro all'assassino stesso." La scelta della punizione
per il furto di tabacco era meno chiara rispetto a quella per un omicidio.
Chissà che punizione avrebbero deciso il cacique e gli anziani del
villaggio?
Si sedettero in cerchio e si consultarono bevendo il pulque, e fumando
l'onnipresente tabacco, ovviamente.
Infine giunsero a una conclusione.
Il ladro fu legato a un albero con un sacco di tela sulla testa in cui era
stato aperto un piccolo foro. Uno a uno, gli uomini del villaggio si
avvicinarono al sacco con le pipe accese e soffiarono una boccata di fumo
nel foro.
All'inizio udii solo qualche colpo di tosse. Poi la tosse divenne un
accesso irrefrenabile. E, quando cominciò a suonare come il rantolo della
morte, me ne andai e tornai al nostro campo.



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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #478 il: 08 Settembre 2011, 18:01:26 »
Sir Fred Hoyle

(Bingley, 24 giugno 1915 – Bournemouth, 20 agosto 2001) è stato un matematico, fisico e astronomo britannico, noto al grande pubblico soprattutto per le sue argomentazioni non convenzionali e per svariate teorie non ortodosse entro la comunità scientifica.
I suoi numerosi contributi scientifici vanno dalla spiegazione della genesi degli elementi "pesanti" a quella della frammentazione del gas in stelle, ma egli è noto soprattutto come sostenitore della teoria cosmologica dello stato stazionario e dell'ipotesi della Panspermia.

Il Viaggio di Ossian

Un ometto di
circa sessantanni, molto abbronzato, dall'aspetto sportivo, calvo, mi indicò
una sedia. Aveva il volto provato dalle intemperie, le tempie segnate da una
fitta ragnatela di rughe e tra i denti stringeva con forza un'enorme pipa di
schiuma.
Emise sbuffi di fumo per qualche momento, osservandomi con attenzione.
Poi scoppiò in una risata chiocciante: « Bene, bene, signor Sherwood, e così è
caduto nella vecchia trappola delle tredici e quindici, dopo tutto! »
« Sono anche troppo soddisfatto che la trappola non sia soltanto un volgare
sbaglio, signor...? »
« Parsonage, Percy Parsonage, per servirla. »
Bussarono alla porta e la brunetta entrò reggendo un vassoio.
« Il pranzo per il signor Sherwood », spiegò.
« Benissimo, alimentiamolo », annuì Parsonage. « Io non mi sento di
mangiare... ho fatto colazione alle undici e mezzo. »
Mi ero messo in bocca il primo boccone, quando mi domandò: « Che ne
direbbe di fare una gita in Irlanda? »
Inghiottii placidamente. « Da quanto ho sentito dire a proposito
dell'Irlanda, uno si può ritrovare assassinato al massimo nello spazio di una
settimana... nel suo mestiere, signor Parsonage! »
« E lei che cosa ne sa del mio mestiere? »
« Assolutamente nulla. Proprio per questo sarebbe una pazzia per me
andare in Irlanda per i suoi interessi. »
Papà Percy (così veniva chiamato, come appresi ben presto) impugnò la
grossa pipa e disse: « Non credevo fosse quel tipo di giovanotto che si affretta
a girare alla larga appena sente odore di pericolo ».
"Parsonage si diresse con aria pensosa verso una parete sulla quale stava
appesa una grande carta geografica dell'Irlanda. Indicandola disse: « Mi
consenta di mostrarle il cordone al di là del quale nessun comune viaggiatore
che si rechi in Irlanda può passare e che nemmeno gli stessi irlandesi possono
superare senza essere stati sottoposti al più rigoroso controllo per la sicurezza.
Guardi come si stende da Tarbert, nel nord, verso Athea, a sud di Kanturk e
direttamente oltre e sopra i monti Boggerath fino a Macroom e a Dunmanway.
Guardi come piega qui verso il mare nella Dunmanus Bay ».
Per un momento emise furiosi sbuffi di fumo, poi continuò: « Entro questo
muro impenetrabile stanno accadendo cose incredibili. L'attività maggiore, a
quanto pare, è limitata alla penisola di Kerry, immediatamente a sud del lago
Caragh...
Tirò fuori tre documenti da una piccola cassaforte e li gettò sulla scrivania,
accanto a me. Il primo trattava un argomento batteriologico; il secondo aveva
tutto l'aspetto, a prima vista, di essere il progetto per una fornace. Il terzo,
costituito da formule matematiche, mi era più congeniale. Quando
incominciai a leggerlo con più attenzione, Parsonage ruggì: « Lasci perdere.
Si tratta di madornali sciocchezze. Lasci che le dica qualcosa a proposito di
questo». Prese il primo documento. « Ce ne siamo impadroniti grazie a una
delle più disperate operazioni. Due dei miei uomini migliori sono rimasti
uccisi. E ciononostante non contiene altro se non assurdità senza senso. »
Incominciò a percorrere la stanza a grandi passi, masticando con foga la pipa
di schiuma.
« Vede, quando ci troviamo ad avere a che fare con questa roba scientifica,
tutte le nostre idee in fatto di lavoro spionistico perdono ogni significato. »
Afferrò i fogli e li sventolò in aria. « I nostri uomini non possono rendersi
conto se si tratta di roba di valore o no. Tutto quello che riescono a fare è
combattere per impossessarsene, e combattono, spesso lasciandoci la pelle. »
« Quindi vorrebbe che io esaminassi questa roba? Non sono poi così
esperto in fatto di scienze, sa? »
« Voglio molto di più! Suppone do che queste porcherie contenessero
qualche verità, fino a che punto ci potrebbero servire? Potrebbero
ragguagliarci in misura minima su quello che sta succedendo da quelle parti?
» Puntò il cannello della pipa in direzione della carta geografica alla parete. «
No, voglio molto di più di questo, infinitamente di più. Sto per tenerle una
conferenza. Non mi interrompa! Quanto ne sa a proposito dell'I.C.E.?
Pochissimo, glielo garantisco io. Nessuno di noi ne sa molto, quanto a questo.
Le dirò quello che ne so io. » L'ometto aveva un aspetto strano mentre andava
su e giù per la stanza, circondato da nuvole di fumo e con le mani dietro la
schiena.

Emisi un sibilo di stupore. Le ricerche nel campo termonucleare
rappresentano, è ovvio, una attività dalle vastissime applicazioni, e quindi non
possedeva una precisa competenza di come stessero le cose in Gran Bretagna
o negli Stati Uniti o in qualsiasi altro posto. Ma era ormai evidente che l'intera
faccenda stava per rivelarsi un problema assai poco piacevole.
« Ma com'è possibile? »
Parsonage posò la pipa con un ampio gesto. Ci fu una pioggia di scintille
che mi affrettai a spegnere.
« Ma perché ha scelto proprio me? »
« E perché no? »
Mentre meditavo su una impossibile risposta, egli continuò: « Possiede
tutte le qualifiche di bisogno ». (C'era qualcosa che non andava
grammaticalmente in quella frase.) « Proprio come un bambino riesce a
imparare a parlare dalla madre, così un giovane delle sua età deve riuscire a
rendersi padrone delle informazioni. È stato accuratamente allenato a pensare
nella giusta maniera. Questo è un problema logico, non ha niente a che fare
con quesiti di carattere scientifico o tecnico. »
Batté con una mano sulla carta geografica. « L'ambiente in cui si svolgerà
la vicenda è una contrada selvaggia. Lei è un ragazzo cresciuto in campagna;
un cittadino potrebbe trovarsi nei guai in un posto simile. Cosa potevamo
desiderare di più? » Mentre meditavo sulla cosa, riempì con grosse prese di
tabacco il fornello della pipa. Nonostante la sua esposizione confusionaria,
Parsonage aveva condotto in porto la sua iniziativa.
« Potremmo farla entrare di straforo in Irlanda attraverso il solito
oleodotto, oppure preferisce viaggiare più all'aperto? Sta a lei decidere. Ci
pensi per un paio di giorni. Ha bisogno di soldi? »
Annuii ed egli mi offrì un fascio di banconote. Dissi: « Non una cifra
simile, circa quindici sterline mi basteranno. Non ho nessuna intenzione di
farmi notare. E tanto vale che cominci subito a non mettermi in mostra ».
C'era una domanda che avrei voluto porre, ma me ne mancò il coraggio.
Avevo sempre sentito dire che il pericolo maggiore per un agente segreto era
rappresentato proprio da quelli che stavano dalla sua parte. Temevo che
Parsonage e la sua pipa potessero esplodere qualora mi fossi azzardato a
domandargli se le cose stessero effettivamente così.
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Re:Autori con la pipa in bocca
« Risposta #479 il: 25 Settembre 2011, 13:20:56 »
Un personagglo,più che scrittore che va assolutamente approfondito ci vorranno  3-4 post

Mario Rigoni Stern

Nato ad Asiago, sull'Altopiano dei Sette Comuni, nel 1921 da Giovanni Battista Rigoni e Annetta Vescovi, terzo di sette fratelli, e una sorella, trascorre l'infanzia tra i pastori e la gente di montagna dell'altopiano di Asiago. La famiglia Rigoni soprannominata "Stern" commerciava con la pianura in prodotti delle malghe alpine, pezze di lino, lana e manufatti in legno della comunità dell'Altipiano. Studia fino alla terza avviamento al lavoro, poi lavora presso la bottega di famiglia.
Nel 1938 si arruola volontario alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo (ora Centro Addestramento Alpino) di Aosta e ha come istruttori: il maestro di sci Gigi Panei, la guida alpina Renato Chabod e l'alpinista Giacomo Chiara. Più tardi, combatte come alpino nella divisione Tridentina, nel battaglione Vestone, al confine con la Francia al tempo dell'entrata in guerra dell'Italia, quindi Albania, Grecia, e Russia dove vive l'immane tragedia della ritirata. Fatto prigioniero dai tedeschi allorché l'Italia firma l'armistizio di Cassibile (8 settembre 1943), è deportato come IMI in un campo di concentramento a Hohenstein (oggi Olsztynek), in Prussia Orientale, ove rimane prigioniero rifiutando, come la stragrande maggioranza dei militari italiani catturati dai nazisti, di ottenere la libertà in cambio dell'arruolamento nelle forze armate della Repubblica sociale italiana. Dopo la liberazione del campo durante l'avanzata dell'Armata Rossa verso il cuore della Germania, rientra a casa a piedi dopo due anni di prigionia, il 5 maggio 1945.

Le stagioni di Giacomo

 Ma se vai qui dietro
il barco del Zai trovi un ciliegio selvatico che adesso
ha tutte le foglie rosse. Forse quello va bene anche per la
tua maestra. Ferme è un bell'alberello».
Le patate raccolte dalla terra sassosa erano tutte dentro
i sacchi. Le donne si erano sedute sull'argine a riposare
e da quel terrazzo guardavano il paese, laggiù, dentro
la cerchia dei monti, nel colori dell'autunno. Bepi si
accese la pipa. Giacomo andò a tagliare il ramo che gli
era stato suggerito. Poco dopo ritornò tenendolo alto,
con cura per non rovinare le foglie.
U sole se ne andava dietro il Pasubio che già aveva messo
il cappello bianco, le cornacchie si chiamavano volando
alte per raggrupparsi prima di andare a pollaio sugli
alberi. Un merlo venne a beccolare fra la terra smossa.
Bepi spense la pipa e aiutò le donne a caricare i sacchi sui
carrettini e tutti insieme presero la redola del Rossebech.
Nella contrada i camini avevano ripreso a fumare.

Chi, poi, aveva
combattuto proprio tra queste montagne di casa, bene
ricordava come erano piazzate le artiglierie e dove sparavano;
i magazzini e i depositi e certi angoli fuori mano
dove qualcosa la guerra aveva lasciato. E come certi repani,
durante uno spostamento si alleggerissero del peso
delle munizioni, nascondendole tra le fessure delle
rocce o nelle forre dei boschi.
Dai resti dei caduti, dalle piastrine di riconoscimento
ancora leggibili, da tracce come coltelli, barattali, gavette,
pipe, scatole per il tabacco, portamonete, bottiglie,
medagliette con santi e madonne particolari si veniva a
conoscere di quale corpo fossero, da quale regione d'Italia
0 dell'Impero asburgico venissero.

Le squadre addette a questo lavoro molte volte nel discoprire
le tombe, specialmente quelle nei cimiteri sui
campi di battaglia, raccoglievano gli oggetti sepolti con i
caduti: le cartucce dentro le giberne diventavano materiale
da vendere come recupero mentre medagliette,
portafogli, pipe o altro venivano consegnati al cappellano.

Il padre di Giacomo spense la cicca su un sasso e la ripose
dentro la scatola del trinciato; riprese in mano il
piccone. Scavava. Il Colonnello Matto commentava sottovoce
quello che usciva dai sassi frantumati dalle sue
cannonate. Quando vide una mandibola con tutti i denti
sani e bianchi, la raccolse la baciò e la ripose accanto
al materiale recuperato; quindi si mise sull'attenti e salutò
portando la mano destra alla tesa del cappello di
paglia e se ne andò saltellando tra i massi che la mina
dell'8 giugno 1916 aveva scagliato tutt'intorno.

Quota Albania

Anche il vecchio servitore ubriacone e bestemmiatore
era stato licenziato, e il pomeriggio che andai a salutarlo
nella sua casetta in fondo al paese, era a letto ammalato.
In tasca avevo per lui due pacchetti di tabacco da pipa,
per farmi perdonare le birbonate di una volta. Ero impacciato
e non sapevo come darglieli. Rimasi per un po'
in fondo al letto a raccontargli della cantina francese
piena di bottiglie, e quando lo salutai per uscire gli scesero
due lagrime sino a bagnargli i baffi bianchi e lunghi:
«Stai attento, stai attento» mi raccomandava, «e
quando sparano nasconditi bene dietro un sasso».

Siamo infreddoliti e assonnati, non abbiamo desiderio
di parlare; Marco mi chiede se ho sigarette, lui sa che
non fumo e che le poche che ci danno ogni tanto, le passo
a lui. Nel taschino della giubba ho ancora il pacchetto
che ci avevano distribuito a Durazzo: una confezione
elegante della manifattura di Zara. Gliele offro. «Fumane
una anche tu» mi dice, «tiene compagnia.» L'accende
e me la passa. È la mia prima sigaretta. In Val d'Aosta,
l'estate scorsa, avevo comperato una pipa di marasca;
ma quello era un fumare per posa, come il tentativo di
farmi crescere la barba al corso rocciatori era per im
ptessionare le reclute. Ora no, questa sigaretta è cosa seria
e ì miei compagni non ridono o scherzano su questo.



Sentieri sotto la neve

Nel pomeriggio scrivevo qualcosa su un quaderno, o andavo a
camminare per le montagne. E a sera, attorno al fuoco, fumando trinciato forte, ci
raccontavamo storie e vicende della vita.
Il più anziano tra tutti noi era Barba Matto. Non era sposato e aveva sempre fatto il
servo pastore o servo vaccaro. Non imprecava mai e il suo parlare era pacato e saggio;
fumava volentieri tabacco da sentieri nella sua corta pipetta, vecchia quasi quanto lui.
Quella notte, quando l'oste e la moglie avranno abbandonato l'Osteria, dall'ampio
sottotetto, dalle stanze disadorne, dai corridoi ma anche da strade che partono da lontano,
gli spiriti si ritroveranno davanti al focolare - è sempre quello da secoli, l'unico manufatto
rimasto dopo guerre e incendi! - dov'è acceso il fuoco che non si consuma; come non si
consuma il petrolio che alimenta la lampada, e il vino e la grappa, il pane e il formaggio.
Le sedie di legno con il fondo di paglia verranno occupate da chi primo arriva accanto
al fuoco. Potrà capitare che il feldmaresciallo barone Franz Conrad von Hötzendorf si
segga sulla pietra del focolare e il contrabbandiere Tönle nella comoda sedia, che Musil
rimanga in piedi appoggiato alla cornice di marmo, il generale conte Luigi Cadorna
accanto a Tönle, e Barba Matto, così, per abitudine piacevole, curi il fuoco e la sua
pipetta. Parleranno della vita trascorsa, dei fatti grandi e piccoli e di molte altre cose.
Tutti, chi più chi meno, hanno avuto rapporti con questa Osteria di confine.
Una sera giungerà anche il conte Pula Dolfin a parlare delle sue cacce al Polo Nord;
un'altra Brocca il partigiano a spiegare perché e come ha vendicato il padre ucciso dai
fascisti sull'uscio di casa; anche Nello, il casaro del Dosso che vuole raccontare di pascoli,
vacche e formaggi. Una sera Tan, il boscaiolo, discuterà con l'Ispettore forestale su come
vorrebbe vedere governati i boschi che incominciano a infittirsi troppo. Insomma, queste
ombre diranno delle cose passate e delle presenti.
- Per conto mio, - dirà una sera Tönle a Vittorio Emanuele e a Francesco d'Asburgo,
- avete sbagliato a dichiararvi guerra. Non eravate anche parenti ? E poi, cosa credete di
avere risolto? Niente. Tanto di guerra ne hanno fatta un'altra più brutta. Non vedete
com'è andata a finire? Io stavo bene con la gente. Con tutti, di qua e di là dei confini.
Vedi, caro amico, - risponderà Francesco Giuseppe, - non ero io che volevo la
guerra. Nella tua Italia c'erano alcuni che alzavano la voce, e chi grida più forte viene
ascoltato anche se ha torto. Io, in Austria, avevo i generali con in testa Conrad von
Hötzendorf che voleva addirittura che vi attaccassi al tempo del terremoto di Messina. E
poi non si fidavano dell'Alleanza. Avevano ragione, siete stati voi a tradire il patto.
- Non noi, non noi mein lieber Franz, quelli che governavano. Insieme mi avete
distrutto la casa e disperso la famiglia.
- Vedi cugino, - interverrà Vittorio Emanuele, - nel mio proclama dicevo che seguivo
l'esempio del mio grande Avo e chiedevo ai miei soldati di compiere l'opera con tanto
eroismo iniziata dai nostri padri. Tu ai tuoi popoli richiamavi la memoria di Novara,
Mortara, Custoza, Lissa, battaglie gloriose della tua gioventù, lo spirito di Radetzky. Ci
dicevi perfidi nemici e chiedevi la benedizione dell'Onnipotente...
Barba Matto ascolterà tirando il fumo dalla sua pipetta e a un
Barba Matto ascolterà tirando il fumo dalla sua pipetta e a un certo punto interverrà
dicendo: - Ma come fate a dire «miei soldati», «mio popolo»? Credete di essere padroni
della vita degli uomini ? Se è vero, come andate ragionando, che è stata tutta colpa dei
generali, dei ministri e degli industriali, delle banche, dei poeti, che re e imperatori eravate
mai voi ? Non contavate proprio niente? Era meglio se vi giocavate il Trentino a dama e
Trieste a briscola...
- Bambinate, ignoranza storica, - si intrometterà a questo punto il feldmaresciallo
Conrad, - il mio imperatore doveva mettere in atto la mia proposta: lasciare pure avanzare
l'esercito italiano fino a Lubiana o anche oltre verso Vienna, e poi sferrare il nostro
attacco da qui. Sarebbe tutto finito in fretta...
Robert Musil, fino a quel momento un po' appartato, uscirà dall'ombra, accenderà una
sigaretta sottile prendendo il fiammifero dalla scatola che è sul tavolo, con un cenno del
capo saluterà, sorriderà a Tönle, e dopo aver espirato il fumo dirà sottovoce alla
compagnia:
Miei signori, ascoltate qui rivolti,
batte l'orologio i suoi dodici colpi.
Fate attenzione alla luce e al fuoco,
che una sventura è questione di poco!

Ma poi l'inverno diventava lungo; le scorte di legna si assottigliavano perche il focolare
mangiava, mangiava.
 La sedia del nonno era vicina alla stufa, era lì che amava fumare la pipa e io,
quando rientravo bagnato e infreddolito,
mi mettevo tra la sedia e la stufa per appoggiare la schiena al caldo della parete. L'Amia mi
brontolava perché diceva che mi cucinavo il sangue.
Quando l'inverno stava per finire la sneea diventava haapar. Sulle rive al sole andava via
per la terra in mille e mille gocce, e appariva il bruno del suolo. Era in questo periodo che
si sentivano le prime allodole: una mattina ti correva un brivido per la pelle ed era il loro
canto alto nel cielo sopra l' haapar.
La primavera aveva sciolto la neve, la pioggia lavato i tetti e le strade; i due pioppi
dell'orto avevano aperto le loro gemme e nella strada, di sera, era un allegro giocare: come
nel cielo i rondoni e nel cortile le vitelle.
Il nonno fumava la pipa sulle scale di pietra e guardava il cielo, il cortile, la strada, i
ragazzi, il fumo della sua pipa. Il ragazzo aveva passato il giorno sul prato a spargere il
letame odoroso e ora giocava come tutti nelle sere di primavera.
Suerte!