Autore Topic: Il fumatore di pipa  (Letto 205913 volte)

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #330 il: 22 Febbraio 2013, 12:52:08 »
ALESSANDRO CURZI

Alessandro Curzi, detto Sandro (Roma, 4 marzo 1930 – Roma, 22 novembre 2008 - 78 anni )

.........................................................stato un giornalista, politico e personaggio televisivo italiano


Frequentando il ginnasio "Tasso" a Roma, a tredici anni entra in contatto con gruppi della Resistenza antifascista capeggiati da Alfredo Reichlin; insieme a lui Citto Maselli, i fratelli Aggeo e Arminio Ravioli. Il suo primo articolo, pubblicato su "Unità clandestina", racconta l’assassinio di uno studente da parte di fascisti repubblichini.
Le manifestazioni studentesche antifasciste sono attive in tutta Roma e Curzi collabora attivamente con il gruppo partigiano romano che opera nella zona Ponte Milvio-Flaminio.
Nel marzo del 1944 gli viene concessa, nonostante la minore età, la tessera del Pci.
Tra il 1947 e il 1948 lavora al settimanale social-comunista Pattuglia, diretto dal socialista Dario Valori e dal comunista Gillo Pontecorvo. Nel 1949 diventa redattore del quotidiano della sera romano "La Repubblica d’Italia", diretto da Michele Rago. Nello stesso anno è tra i fondatori della Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci), di cui viene eletto segretario generale Enrico Berlinguer.
Divenuto capo-redattore del mensile della Fgci "Gioventù Nuova", diretto dallo stesso Enrico Berlinguer, cura anche l’antologia per giovani “L’avvenire non viene da solo” illustrata dalla pittrice Anna Salvatore, di cui si vendono 150 000 copie.
Nel 1951 è inviato nel Polesine per raccontare le conseguenze della tragica alluvione e vi rimane per un lungo periodo come segretario della Fgci.
 
Nel 1954 sposa la giornalista e “compagna” Bruna Bellonzi (avranno una figlia, Candida, destinata anch’essa a fare il mestiere di giornalista, da ultimo presso l'Agenzia ANSA).
 
Tornato a Roma, nel 1956 partecipa, insieme a Saverio Tutino, Carlo Ripa di Meana, Guido Vicario, Luciana Castellina ed altri, alla fondazione del settimanale Nuova Generazione, di cui diventa direttore nel 1957.
Nel 1959 passa a l'Unità, organo del PCI, come capo-cronista a Roma. Nell’anno successivo, è inviato in Algeria per seguire la guerra di liberazione dal colonialismo francese e intervista il capo del fronte di liberazione nazionale Ben Bella.
Divenuto caporedattore centrale e direttore responsabile de L'Unità, nel 1964, per un breve periodo, ricopre la carica di responsabile Stampa e Propaganda della direzione del Pci, sotto il coordinamento politico di Gian Carlo Pajetta.
 
Dopo la morte di Palmiro Togliatti, accompagna il nuovo segretario del Pci Luigi Longo alla sua prima “Tribuna politica” televisiva diretta da Jader Jacobelli.
Fonda e dirige l’agenzia quotidiana Parcomit, voce ufficiale del Pci; collabora attivamente alla crescita della radio Oggi in Italia, che trasmetteva da Praga e che, seguita in quasi tutta l’Europa dagli emigrati italiani, poteva contare su uffici di corrispondenza particolarmente attivi in Germania (nella Volkswagen) e in Belgio fra i minatori italiani.
Dal 1967 al 1975 è vicedirettore di Paese Sera, quotidiano della sera di rilevante importanza nella seconda parte del novecento, con un grande ruolo nella rappresentazione della rivolta giovanile del 1968 e della riscossa operaia del 1969.
 
Nella RAI :
Nel 1975, rispondendo a un bando di concorso indetto dalla Rai per l’assunzione di giornalisti di “chiara fama” disposti a lavorare come redattori ordinari, entra nella redazione del Gr1 diretto da Sergio Zavoli. Nel 1976, con Biagio Agnes e Alberto La Volpe, dà vita alla Terza Rete televisiva della Rai. Nel 1978 è condirettore del TG3, diretto da Agnes, e collabora alla realizzazione della popolare trasmissione Samarcanda.
Dal 1987 al 1993 dirige il TG3, di cui è ricordato come uno dei più importanti direttori.
Nel 1992 pubblica, con Corradino Mineo, il saggio "Giù le mani dalla Tv" (Sperling & Kupfer). Nel 1994, in contrasto con il nuovo consiglio di amministrazione della Rai (direttore generale Gianni Locatelli e presidente Claudio Dematté), si dimette.
Dal 1994 dirige il telegiornale dell'emittente televisiva Telemontecarlo. Nel 1994 pubblica "Il compagno scomodo" (Arnoldo Mondadori Editore). Dopo un'esperienza di editorialista quotidiano all'interno del "Maurizio Costanzo Show", nel 1996 conduce le quattordici puntate del programma "I grandi processi" su Rai Uno.
 
Nel 1997, in polemica con la candidatura dell'ex magistrato di Milano Antonio Di Pietro nelle liste de L'Ulivo, si presenta candidato al Senato in una lista di sinistra denominata "Unità Socialista", ottenendo il 14% dei voti.
Dal 1998 al 2005 dirige Liberazione, organo del Partito della Rifondazione Comunista guidato da Fausto Bertinotti. Eletto consigliere di amministrazione della Rai dalla Commissione parlamentare di vigilanza, con i voti di Rifondazione, dei Verdi e della sinistra del PDS, diventa per tre mesi presidente della Rai, in qualità di consigliere anziano, prima di lasciare il posto a Claudio Petruccioli.
 
Muore a Roma il 22 novembre 2008 a 78 anni dopo una lunga malattia.

« Le radici di una collettività possono essere minate se tutto è mercato, dalla salute alle scelte della politica. »
(dall'intervista di Paolo Conti, «Combatto contro il cancro e contro ogni accanimento», Corriere della sera, 24 gennaio 2007, p. 18)


da Wikipedia

seguono immagini
« Ultima modifica: 22 Febbraio 2013, 14:12:21 da StefanoG »

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #331 il: 22 Febbraio 2013, 14:27:19 »
ALESSANDRO CURZI

riportiamo di seguito un intervista a Curzi, in memoria di un vero fumatore di pipa e, sigari.


L' INTERVISTA
E Curzi tiene accesa la pipa: nel mio ufficio libertà di fumo
Aperitivo e accendino in piazza Navona, pranzo a casa, poi la zona franca: la stanza al partito
 
ROMA - Splendido mezzogiorno romano. Tavolino bar a piazza Navona. Sandro Curzi ordina un Martini dry: «Non bevo mai a quest' ora. Ma leggo che il prossimo passo di Sirchia sarà contro l' alcol. Oggi gioco d' anticipo, aperitivo con fumata». La lieve Corn Cob del Missouri, pipa gialla ribattezzata in Italia «pannocchietta» perché figlia dal granturco, si riempie di Dunhill: «È quella di Braccio di Ferro, una moda che credo di aver lanciato io in Italia». Prima giornata di divieto per Sandro Curzi, fumatore per scelta nonostante un tumore e un infarto: «Ho smesso. Non mi venivano più idee. Ho cominciato a 13 anni, il fumo è parte di me. Ho sostituito le sigarette con la pipa». Tutto comincia al mattino nella vecchia casa di via San Martino ai Monti, a un passo dai Fori Imperiali, condivisa con la moglie (fumatrice) Bruna Bellonzi. Sveglia con calma, colazione. Prima leggera «pipata». E poi in strada. Sotto casa quattro muratori, due italiani e due rumeni, lo salutano fumando: «Dottor Curzi, facciamo una cosa clandestina...» Commento dell' ex direttore del Tg3 e di Liberazione: «La confusione è tanta. Ci vorrebbe meno terrorismo e più informazione costante. Basterebbe spiegare senza giri di parole che col fumo cala l' attività sessuale. Vedi poi che succede...». Lunga camminata verso piazza Navona. Fori Imperiali, piazza Venezia, largo Argentina: «Il medico mi ha ordinato mezz' ora di cammino a passo svelto ogni giorno. Eccomi qui». A largo Argentina un dubbio: «Lo smog degli autobus comunali è insopportabile, basta starsene qui qualche minuto per ritrovarsi nei polmoni l' equivalente, forse, di un mezzo pacchetto. E Sirchia che dice?». L' ex direttore del Tg3 e di Liberazione promette che non sarà complice di infrazioni nei ristoranti e nei bar: «Sono un vecchio comunista: Costituzione e legge non si infrangono, anche se certe volte non ti piacciono. Non si può scambiare una sigaretta in una trattoria per un gesto rivoluzionario. Fesserie, così metti nei guai solo il gestore. E si avvia un gioco distruttivo che può diventare pericoloso, quando si associa ad aspetti della realtà ben più seri del fumo». Passa Alberto Ronchey, grande giornalista e notevole fumatore: «Sandro, guarda qui, Sirchia mi ha sabotato l' accendino». L' aggeggio appena comprato non funziona. Risate. Curzi sbuffa: «In questi giorni non faccio che parlare di fumo e del braccio di Di Canio. Eppure ho fatto altre cose nella vita... Siamo un Paese strano, ci dividiamo sulle fesserie. Su Indymedia, dopo la faccenda Di Canio, ho letto: "Testa di Curzi, devi morire, Curzi filofascista sei peggio di Togliatti". Qualcosa non va bene. Vedo un' Italia slabbrata, sfiduciata, pronta alle risse. Guardiamo cosa succede sia nel centrodestra che nel centrosinistra. E adesso col fumo.» Arriva l' ora del pranzo. Oggi si va a casa. E se fosse al ristorante? «Cercherei uno spazio per fumatori. Sotto casa la Taverna dei Fori Imperiali s' è attrezzata. Piccola copertura esterna per due tavolini. Civilissima». A casa, per via di Bruna, nessun problema: «Quando organizziamo tornei di scopone, con Valentino Parlato e consorte o Lucio Magri e sua moglie, casa diventa una camera a gas. Dopo bisogna lasciare le finestre aperte anche per ore». Fumo continuo, senza paura. Il pomeriggio se ne va, prima sacra pennichella e salto a Rifondazione Comunista, dietro il policlinico Umberto I: «Ho una stanza gentilmente concessa come ex direttore. Fumo tranquillamente e vengono a farsi una sigaretta in santa pace anche i colleghi di Liberazione». E giù, nuovo lavoro per la pannocchietta. In serata trasferimento a La7 per il processo di Biscardi, studi ex Rai in via Novaro, per parlare di Di Canio. Come promesso, nessuna «pipata» provocatoria. La legge è legge. Paolo Conti
 
Conti Paolo
Pagina 11
(11 gennaio 2005) - Corriere della Sera

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #332 il: 22 Febbraio 2013, 14:29:45 »
di seguito dalla Prima :

L'8 Settembre 1943
8 Settembre Morte (e resurrezione) della Patria
Le testimonianze di Tremaglia e Curzi

di Aldo Cazzullo

La Farnesina è deserta. Studio del ministro Mirko Tremaglia. Riproduzione della Bocca della Verità. Sul tavolino, un libro, «Pinochet. Le "scomode" verità». Un fascicolo con carte sull'8 settembre, alcune inedite. Alessandro Curzi si è portato la pipa e «Liberazione», il giornale che dirige.
TREMAGLIA. Sessant'anni fa ero a Bergamo, a casa. Facevo la terza liceo. Appresi la notizia dell'armistizio dalla radio. Fu peggio del 25 luglio. La caduta del Duce fu dolorosa; ma allora avevamo creduto alla menzogna di Badoglio, avevamo davvero pensato che la guerra a fianco dei tedeschi sarebbe continuata. Quella invece era la fine di tutto. Il crollo totale. Il tradimento, la vergogna. Io ero orfano di guerra, mio padre era ed è sepolto all'Asmara, dove sono stato ancora la settimana scorsa. Pensai subito che bisognava riscattare tutto questo. Onore e fedeltà. Uscii per strada, vidi una bandiera. Un tricolore non listato a lutto, ma agitato in segno di gioia. Come per un giorno di festa. Mi sentii male fisicamente.
CURZI. A me le bandiere fecero un effetto uguale e contrario. Sventolavamo il tricolore con un buco al centro: avevamo strappato via lo stemma dei Savoia. L'Italia eravamo noi. Sentivamo che una pagina si era chiusa ed era arrivato il momento del riscatto. L'8 settembre '43 avevo girato per Roma tutto il giorno, insieme con Citto Maselli. Sentivamo che c'era qualcosa nell'aria. L'annuncio ci venne dai romani che urlavano dalle finestre, in via XX Settembre, di fronte al ministero della guerra: «Pace! Pace!». Il giorno dopo accorremmo a Porta San Paolo, in tempo per veder ripiegare i granatieri e i popolani che avevano tentato la difesa della città. Avevano dovuto cedere, ma avevano dato a tutti il segnale che bisognava riscattare il fascismo, la guerra perduta, e anche lo spettacolo doloroso dei soldati che gettavano le divise.
TREMAGLIA. Il disastro, l'umiliazione, l'ipocrisia furono totali. Il re e Badoglio scapparono senza neppure predisporre un piano per la difesa di Roma. Non fu solo la morte della patria, fu il disfacimento dello Stato. Non c'era più il capo dello Stato, non c'erano più ordini. L'ha detto anche Ciampi, a Cefalonia, quando parlò di soldati «rimasti senza ordini e colpevolmente abbandonati»; io c'ero, e mi sono congratulato con lui. Oltre un milione di italiani cedettero le armi a 400 mila tedeschi. Qual era lo Stato legale? La Repubblica sociale, che batteva moneta, o il Regno del Sud, che aveva le amlire? La Rsi fu necessaria: evitò tragedie ancora più grandi. Lo prova il telegramma di Hitler a Mussolini, citato da De Felice ne "Il rosso e il nero", il cui il Führer minacciava di comportarsi in Italia «come in Polonia e anche peggio» se il Duce non avesse accettato di andare a Salò. E poi avevamo un grande programma sociale, con la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese.
CURZI. E com'è che ora fai il ministro di Berlusconi?
TREMAGLIA. Io faccio il ministro degli italiani all'estero.
CURZI. Anche noi avemmo la percezione dello sfascio, avvertimmo il senso della fine, del crollo. Non era solo il fascismo o la monarchia, era un'intera classe dirigente a collassare. Era il fallimento della borghesia. Capii subito che dovevo scegliere da quale parte stare. Ma non fu una scelta facile.
TREMAGLIA. Vuoi dire che mancò poco che venissi pure tu con noi?
CURZI. Ero giovanissimo, avevo 13 anni, ero ancora alle medie. Alcuni ragazzi più grandi andarono a combattere ad Anzio con i tedeschi, con la brigata «Roma o morte». Erano figli di poveri, e io sono sempre stato portato a schierarmi con i deboli. Fu una scelta che non mi lasciò indifferente. La rispettai.
TREMAGLIA. E ci credo! Il fascino di Mussolini. La crociera di Italo Balbo. L'Impero. Te lo ricordi, l'Impero?
CURZI. Avevo appena sei anni, ma mi ricordo a scuola le bandierine italiane che segnavano l'avanzata sulle mappe. Ero stato un balilla convinto. Dei miei due zii materni, uno era un tranviere comunista, l'altro era stato squadrista e poi diplomatico. Ma poi prevalse l'esempio di altri ragazzi più grandi, che si avvicinarono alla Resistenza e al partito comunista. Così cominciai a diffondere l'Unità clandestina nella scuola, con la complicità del bidello.
TREMAGLIA. Ero ansioso di combattere, di riscattare il tradimento. La Rsi aveva nove scuole ufficiali. Io andai a quella di Modena. Ma anziché al fronte ci mandarono a Brescia, al comando della Guardia nazionale repubblicana, e da lì a Torino. Fronte interno. Con i Rau, reparti arditi ufficiali. Noi protestiamo, un colonnello ci minaccia: «Otto passi indietro traditori della camicia nera, chi se ne va sarà passato per le armi!». Traditori a noi? Un'ora dopo siamo già sull'autostrada, verso Brescia. In quattro proseguiamo per il Garda, c'è anche Livio Zanetti. Ci fanno consegnare le pistole e ci arrestano per insubordinazione. Ma interviene il Duce, per farci liberare e mandare finalmente al fronte, contro gli alleati. In Garfagnana. Supervolontari. La voglia di combattere è tanta che facciamo l'ultimo tratto a piedi. Ma mi fanno prigioniero e finisco in campo di concentramento, ad Aversa. Un giorno, l'8 agosto, ci fanno salire sui vagoni piombati, 50 per ogni carro bestiame, e ci portano verso Nord. Tre giorni senz'acqua. Una tortura. Ci fanno scendere a scudisciate. Al campo di Coltano.
CURZI. A Coltano andai anch'io. Anzi, andavamo tutti i giorni, finita la guerra, per parlare con i fascisti che venivano liberati. La direttiva del partito era di conquistarli alla nostra causa. Ripubblicammo l'appello di Togliatti ai «fratelli in camicia nera». Prima avevamo tentato di arruolarci nelle truppe italiane che risalivano la penisola, ma molti di noi furono respinti a calci perché troppo giovani. Allora ci radunammo nel cortile della caserma e intonammo Bandiera rossa.
TREMAGLIA. Le condizioni di prigionia erano durissime. Eravamo 36 mila alla fame. Gli alleati avevano viveri e ci passavano pillole. C'era un campo di punizione irto di sassi appuntiti, dove ti facevano stare per ore senza scarpe, ne uscivi con i piedi e il sedere piagati...
CURZI. Guarda che stai parlando con uno che è stato a via Tasso, dopo la partenza dei tedeschi, che ha visto i segni e ascoltato i racconti delle torture...
TREMAGLIA. Noi stavamo con i tedeschi, e voi con Stalin. Siamo testimoni di un tempo terribile, e dobbiamo conservarne la memoria senza strumentalizzarla con la politica.
CURZI. Ma con noi c'erano anche gli americani.
TREMAGLIA. Che avevano continuato, anche dopo la caduta di Mussolini, a bombardare, a massacrare. Milano è stata massacrata ad agosto, una bomba cadde su una scuola e ammazzò trecento bambini. Il trattato di pace contiene punti ignominiosi, come l'articolo 16, che vieta di perseguire penalmente chi durante la guerra era stato al servizio dell'altra parte. Segno che i traditori di cui parlava il regime c'erano.
CURZI. E' vero, il trattato aveva anche clausole segrete per cui l'Italia non divenne mai pienamente autonoma nel dopoguerra. Ma cosa ci fa nel tuo studio quella targa con la bandiera americana intrecciata al tricolore?
TREMAGLIA. E' un regalo degli italiani d'America.
CURZI. Comunque anche noi avevamo forte l'idea di patria. Quando arrivarono gli alleati a Roma, io e i miei compagni eravamo lì, armati, con il fasciale del corpo di liberazione, e non vedevamo di buon occhio quelli che chiedevano sigarette e cioccolata. Se ti rileggi le lettere dei condannati a morte della Resistenza, vedi che anche i comunisti morivano gridando: viva l'Italia!
TREMAGLIA. E' vero, l'ha scritto anche Bruno Gravagnuolo sull'Unità: non ci fu mai tanto volontarismo come in quei giorni.
CURZI. I peggiori erano quelli che non sceglievano. Noi li chiamavamo i badogliani.
TREMAGLIA. I pescecani. Però Amendola, nell'«Intervista sull'antifascismo», fa notare che la Resistenza fu una sorta di necessità logistica: i soldati che non volevano andare in Germania andavano alla macchia.
CURZI. Io, che ero ingraiano, quel libro di Amendola l'ho letto e l'ho convidiso. La Resistenza fu avviata da nuclei d'avanguardia, tra cui alcuni, piccolissimi, di comunisti, che seppero trascinarsi dietro molti altri. Pensa alla divisione Gramsci, in Albania, composta da uomini che Gramsci non sapevano neppure chi fosse, ma combattevano agli ordini di un sottotenente comunista.
TREMAGLIA. I ragazzi e le ragazze che venivano da noi obbedivano invece a un impulso immediato. E, certo, erano attratti dal fascino di Mussolini. Quali erano i miei pensieri? Vincere. A 17 anni pensi di vincere. Avevamo fiducia nelle armi segrete di Hitler; e non era un pensiero campato in aria, c'erano le V2, le ricerche sul nucleare... Rinnegare qualcosa? E perché? È la mia vita. Non si può rinnegare la propria vita. Me l'ha riconosciuto anche Violante: i valori per cui ci siamo battuti appartengono alla storia del paese.


(lastampa.it, 8 settembre 2003)

immagini di seguito

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #333 il: 22 Febbraio 2013, 14:45:46 »
VITTORIO  FELTRI

Vittorio Feltri (Bergamo, 25 giugno 1943) è un giornalista italiano.

diciannove anni, nel 1962, inizia a collaborare con L'Eco di Bergamo, con l'incarico di recensire le prime visioni cinematografiche, viene assunto per concorso alla Provincia come impiegato. Lavora all'I.p.a.m.i., il brefotrofio. Quando è già di ruolo lascia tutto per riprendere la carriera giornalistica. Si trasferisce a Milano, dove viene assunto dal quotidiano La Notte come praticante. Il 16 dicembre 1971 è iscritto all'Albo dei giornalisti professionisti.
 
Nel 1974 Gino Palumbo lo chiama al Corriere d'Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera): dopo tre anni Feltri passa al Corriere della Sera, allora diretto da Piero Ottone.
Negli anni 1981-82 scrive sul mensile Prima Comunicazione sotto lo pseudonimo Claudio Cavina.
Dal 1983 è direttore di Bergamo-oggi, ma l'anno successivo è richiamato al Corriere della Sera come inviato speciale (1984-89, direttore Piero Ostellino).
 
Nel 1989 assume la direzione del settimanale L'Europeo, portandolo in due anni da 78.000 a 130.000 copie[1][3]. Durante la sua direzione, venne pubblicato un falso scoop da parte del giornalista pubblicista Antonio Motta. Motta sostenne di essersi infiltrato nelle Brigate Rosse come "agente di Carlo Alberto Dalla Chiesa" e di aver scoperto particolari eclatanti e scabrosi sul rapimento di Aldo Moro. L'inchiesta, che fu pubblicata il 26 ottobre 1990, si rivelò invece un falso. Motta fu rinviato a giudizio per truffa e diffusione di notizie false e tendenziose
Nel 1992 sostituisce Ricardo Franco Levi alla direzione de l'Indipendente, in grave crisi di vendite. Feltri rilancia il giornale e ne fa un quotidiano di successo, cavalcando lo sdegno popolare a seguito dell'inchiesta Mani pulite:
« Ammesso e non concesso che un magistrato abbia sbagliato, ecceduto, ciò non deve autorizzare i ladri e i tifosi dei ladri... gli avvoltoi del garantismo... a gettare anche la più piccola ombra sulla lodevole e mai sufficientemente applaudita attività dei Borrelli e dei Di Pietro. »
concentrando più volte i suoi attacchi sulla figura dell'allora segretario socialista Bettino Craxi:
« Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio di questo firmato contro Craxi (il primo avviso di garanzia, nda) ... Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l'appesantito Bettino è campione suonato)... Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra gloria. Craxi ha commesso l'errore... di spacciare i compagni suicidi (per la vergogna di essere stati colti con le mani nel sacco) come vittime di complotti antisocialisti... È una menzogna, onorevole! »
Nell'aprile 1993 conosce Silvio Berlusconi; il Cavaliere gli propone di lavorare come giornalista televisivo a Canale 5, ma Feltri rifiuta[1]. Nel corso dell'anno l'Indipendente sale oltre le 120.000 copie, superando anche Il Giornale.
Nel dicembre 1993 Feltri dichiara:
« A Montanelli invidio tutto tranne che Il Giornale. In fondo l'Indipendente continua a guadagnar copie, non c'è motivo perché io lo debba lasciare... Io al Giornale? Ma che cretinata. Berlusconi non m'ha offerto neppure un posto da correttore di bozze. M'incazzo all'idea che io, proprio io, sembro voler fare la forca a Montanelli. Io qui a l'Indipendente, mi diverto, guadagno copie, faccio il padrone e il politico. Mi spiegate perché devo fare certe cazzate? A carico di Montanelli, poi... »
Nel gennaio 1994, Feltri viene contattato da Paolo Berlusconi, editore de Il Giornale, che gli offre la direzione del quotidiano - direzione che Indro Montanelli ha deciso di lasciare. Feltri accetta e rimane al Giornale per 4 anni, durante i quali riporta il quotidiano in auge, da 130.000 a 250.000 copie (media annuale del 1996)..
Nello stesso periodo, Feltri cura una rubrica sul settimanale Panorama (scriverà anche alcuni reportage dall'Umbria colpita dal terremoto del settembre 1997) , collabora con Il Foglio di Giuliano Ferrara e con altre testate nazionali, tra cui Il Messaggero e Il Gazzettino.
 
Durante la sua permanenza alla direzione del Giornale, Feltri accumula ben 35 querele da parte del magistrato Antonio Di Pietro. L'amministrazione del quotidiano decide di raggiungere un accordo con la controparte per la remissione delle querele. Feltri si uniforma alla decisione presa e il 7 novembre 1997 scrive in prima pagina una diplomatica lettera al magistrato. Nello stesso numero è pubblicata una lunga ricostruzione (due pagine) in cui tutte le accuse a Di Pietro vengono smontate. Un mese dopo il clamoroso articolo, Feltri lascia il Giornale.
 
Feltri spiega perché ha lasciato la direzione de Il Giornale:
« Pago del fatto di aver vinto la sfida con La Voce e del successo del Giornale, mi prese il disgusto, la nausea di venir qui ogni mattina. Possedevo il 6 per cento del pacchetto azionario e non escludo che dentro di me abbia giocato l'incoscio desiderio - inconscio mica tanto - di andarmene per farmi dare quel mucchio di soldi. »
Poi prosegue:
« L'affaire Di Pietro mi sembrò l'occasione propizia per accomiatarmi. Fu un errore. […] Non dovevo andarmene. Dovevo lasciare un paio di anni dopo, in una situazione di relax. »
Complessivamente, sui quattro anni trascorsi in via G. Negri, ricorda:
« Con Paolo ci siamo lasciati male. Metà Forza Italia mi detestava perché dirigevo Il Giornale a modo mio: tra l'altro dicevano che gridavo. A Silvio Berlusconi sto sulle balle perché una volta lo difendo e una volta lo punzecchio. Se non gli stessi sulle balle mi chiederei dove ho sbagliato! Sono stato ben pagato e Paolo ha rispettato in pieno la mia autonomia. Ma se Il Giornale non è morto una ragione ci sarà e ne ho tenuto conto nella parcella. »

Nel 1998 è editorialista per Panorama e il quotidiano Il Messaggero.
Il 1º settembre 1998 assume la direzione de Il Borghese, il settimanale fondato da Leo Longanesi e che fu diretto da Mario Tedeschi. L'obiettivo è di rilanciare il periodico, trasformandolo nel settimanale dei lettori che fanno riferimento al centrodestra. Il progetto però non decolla.
Il 1º giugno 1999 è direttore editoriale del Gruppo Monti-Riffeser.
Il 1º agosto 1999 è direttore editoriale del Quotidiano Nazionale, testata che comprende i giornali di proprietà del gruppo: Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno.
A fine febbraio 2000 lascia l'incarico per dedicarsi alla fondazione di un nuovo quotidiano. Il nome provvisorio è Il Giornale libero
Nel 2000 Feltri fonda Libero, giornale quotidiano indipendente di orientamento liberale-conservatore. Feltri ne è anche direttore ed editore per 9 anni, fino alle dimissioni del 30 luglio 2009.
Sulla sua creatura ha dichiarato:
« Quando siamo partiti, il 18 luglio del 2000, dominava la noia [presso il pubblico dei lettori]. Qualcuno, confidando nel mio passato, si è deciso ad acquistarci proprio per superare la noia, forse sperando che inventassi chissà cosa. Abbiamo drizzato le antenne. Ora il nostro Paese è attraversato dal desiderio di identità e di sicurezza. Cerchiamo di dar voce a questo e di chiamare i politici a rispondere su questi temi assai più che sulle loro beghe di giustizia. »
 

Libero, uscito per la prima volta in edicola il 18 luglio 2000, è molto vicino alle opinioni politiche del centro-destra, ma non lesina critiche contro di esso. Lo stile del giornale è sarcastico, pungente e «politicamente scorretto»: si utilizzano talvolta termini gergali per raccontare i fatti della politica e per descrivere i politici. Il giornale in pochi anni passa da una tiratura di 70.000 copie a 220.000.
Il 21 novembre 2000 Feltri viene radiato dall'albo dei giornalisti con delibera del Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia presa all'unanimità. Il fatto contestato è la «pubblicazione alla pagina 3 dell’edizione del 29 settembre 2000 del quotidiano di sette fotografie impressionanti e raccapriccianti di bambini ricavate da un sito pornografico reso disponibile dai pedofili russi e di una Deontologia - Minori e soggetti deboli 519 ottava fotografia a pagina 4 (raffigurante una scena di violenza tratta dai video di pedofilia sequestrati dalla magistratura), fotografie che appaiono tutte contrarie al buon costume e tali, illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti, da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare». Nel febbraio del 2003 l'Ordine Nazionale dei giornalisti di Roma annulla il provvedimento di radiazione che era stato preso a Milano e lo converte in censura.
Nel 2003 il quotidiano Libero ha ricevuto dallo Stato 5.371.000 euro come finanziamento agli organi di partito. Libero era registrato all'epoca come organo del Movimento Monarchico Italiano, poi trasformato in cooperativa per ottenere i contributi per l'editoria elargiti alle testate edite da cooperative di giornalisti, a fine dicembre 2006 diventava srl. In seguito è stata creata una fondazione ONLUS per controllare la s.r.l. e, di conseguenza, il quotidiano, in modo da continuare a percepire i contributi in quanto edito da fondazione.
Nel marzo 2005 Libero ha lanciato una raccolta di firme affinché il Presidente della Repubblica nominasse Oriana Fallaci senatore a vita. Sono state raccolte 75.000 firme.
 
Libero simpatizza per la posizione del movimento dei Riformatori Liberali di Benedetto Della Vedova. Vittorio Feltri è uno dei firmatari del manifesto promosso dalla minoranza radicale che da aprile 2006 è alleata del centro-destra.
Dal gennaio 2007 al 15 luglio 2008, direttore responsabile di Libero diviene Alessandro Sallusti, con Feltri direttore editoriale. Nel 2007 il vicedirettore di Libero Renato Farina, con Feltri dalla fondazione del giornale, viene radiato dall'Ordine dei Giornalisti per avere collaborato con i Servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando su Libero notizie in cambio di denaro.[21]
Feltri curava anche, assieme a Renato Brunetta, la collana di libri "manuali di conversazione politica", periodicamente allegati al quotidiano.
Il 21 agosto 2009 ha assunto nuovamente la carica di direttore responsabile de Il Giornale, subentrando a Mario Giordano. Ha firmato il numero in edicola il giorno successivo.
 
Negli ultimi giorni di agosto 2009 ha intrapreso un duro attacco a Dino Boffo, direttore del quotidiano Avvenire, rivelando che Boffo aveva patteggiato (cosa che effettivamente risulta, osservando il casellario giudiziario) una pena per molestie sessuali comminatagli nel 2004. La Conferenza Episcopale Italiana si schierò in difesa di Boffo[22], ma la polemica montò fino a provocare le sue dimissioni. Lo scandalo, diversamente da quanto erroneamente riportato da più parti, non nasce sulla veridicità della notizia[23], quanto sul fatto che tale notizia era già nota a Feltri e l'ha pubblicata solo nel momento in cui era necessario attaccare l'ex-direttore dell'Avvenire, in virtù delle sue posizioni fortemente critiche nei confronti di Berlusconi.
 
Il 25 marzo 2010 il Consiglio dell'ordine dei Giornalisti della Lombardia ha sospeso Vittorio Feltri dall'albo professionale per sei mesi, quale sanzione per il caso Boffo e per gli articoli firmati da Renato Farina pubblicati successivamente alla sua radiazione dall'albo.[24][25][26] Feltri ha reagito alla notizia affermando «Mi dispiace di non essere un prete pedofilo o almeno un semiprete omosessuale o un conduttore di sinistra, ma di essere semplicemente un giornalista che non può godere, quindi, della protezione dei vescovi, né diventare un martire dell'informazione». Tali affermazioni sono state severamente criticate dal quotidiano cattolico Avvenire.
In settembre ha attaccato direttamente il presidente della Camera Gianfranco Fini per le sue aperture su voto amministrativo agli immigrati e testamento biologico, invitandolo a "rientrare nei ranghi", e provocando la seconda dissociazione da parte di Berlusconi. Dopo un ulteriore attacco il presidente Fini ha dato mandato al proprio avvocato Giulia Bongiorno di presentare querela contro lo stesso Feltri.
Sempre a settembre 2010, facendo un resoconto del suo anno come direttore, Feltri ha affermato di essere stato chiamato a ricoprire quell'incarico per risanare il deficit del Giornale, ammontante allora ad oltre 22 milioni di euro, di cui avrebbe contribuito a recuperare quasi 15 milioni. Ha continuato dicendo che per raggiungere simili risultati «è necessario fare un giornale di un certo tipo» e che ciò può anche non piacere; in quel caso era pronto a lasciare il suo posto di direttore senza problemi o polemiche.
Il 24 settembre 2010 Feltri si è dimesso dalla carica di direttore del quotidiano Il Giornale per assumere quella di direttore editoriale. Al suo posto è andato Alessandro Sallusti, fino a quel momento condirettore L'11 novembre 2010 l'Ordine nazionale dei giornalisti ha ridotto da 6 a 3 mesi la sospensione che gli era stata inflitta il 25 marzo dello stesso anno dal Consiglio dell'ordine dei Giornalisti della Lombardia

Il 21 dicembre 2010 Feltri ha lasciato di nuovo il Giornale per assumere il ruolo di direttore editoriale di Libero al fianco del vecchio collega Maurizio Belpietro, confermato direttore responsabile[34]. I due giornalisti hanno acquistato il 10% ciascuno della società editrice. Nonostante posseggano una quota di minoranza, la gestione del giornale è stata affidata a loro. Grazie a una serie di patti parasociali, Feltri e Belpietro avranno anche la maggioranza nel consiglio di amministrazione.Il 3 giugno 2011, Vittorio Feltri lascia Libero[36] per la seconda volta e dopo pochi giorni approda al Il Giornale per la terza volta, in qualità di editorialista. La decisione comporta una nuova polemica tra l'editore di Libero, il deputato Pdl Antonio Angelucci, e il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (che è anche presidente dello stesso partito)[37].
Da gennaio 2012 tiene una rubrica su ilGiornale.it denominata "Il Bamba"[38], dove assegna un premio al personaggio che nel corso della settimana si è maggiormente distinto per ingenuità, gaffe o manifesta incapacità
Nel giugno 1997 Feltri è stato condannato in primo grado dal tribunale di Monza con Gianluigi Nuzzi, per diffamazione a mezzo stampa nei confronti di Antonio Di Pietro, per un articolo comparso sul Il Giornale il 30 gennaio 1996, in cui si sosteneva che negli anni di Mani Pulite "i verbali finivano direttamente in edicola e soprattutto all'Espresso".
Nel gennaio 2003 è stato condannato dal tribunale di Roma, insieme a Paolo Giordano, su richiesta di Francesco De Gregori, per avere travisato il pensiero del cantautore su Togliatti e sul PCI in un'intervista del 1997 pubblicata sul Il Giornale, di cui Feltri era direttore[40].
 
Il 14 febbraio 2006 è condannato dal giudice monocratico di Bologna, Letizio Magliaro, ad un anno e sei mesi di carcere per diffamazione nei confronti del senatore Ds Gerardo Chiaromonte (scomparso nel 1993). La condanna si riferisce ad un articolo comparso sul Quotidiano Nazionale alla fine degli anni '90, secondo il quale il nome del senatore compariva nel dossier Mitrokhin.[41]
 
Il 2 luglio 2007 è assolto dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione dall'accusa di diffamazione nei confronti dell'ex PM Gherardo Colombo per un editoriale pubblicato su Il Giorno nel 1999, nel quale, in contraddizione con quanto affermato dallo stesso Feltri ne Il Giornale del 25 novembre 1994 (non ho mai scritto che Di Pietro e colleghi hanno graziato il Pds: che prove avrei per affermare una cosa simile?), si accusava il pool di Mani Pulite di aver svolto indagini esclusivamente su Silvio Berlusconi e non più sugli ex comunisti. La sentenza di assoluzione si riferisce al diritto di critica garantito dall'articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana.[42]
 
Il 7 agosto 2007 è condannato assieme a Francobaldo Chiocci e alla società Europea di Edizioni spa dalla Corte di Cassazione a versare un risarcimento di 45 000 euro in favore di Rosario Bentivegna, uno degli autori dell'Attentato di via Rasella, per il reato di diffamazione. Il quotidiano Il Giornale aveva pubblicato alcuni articoli, tra i quali un editoriale di Feltri, nei quali Bentivegna era stato paragonato a Erich Priebke.
Nel dicembre 2011, il Tribunale di Milano condanna Feltri a risarcire l'ex senatore dei Verdi, tra i fondatori dell'Arcigay, Gianpaolo Silvestri (oggi dirigente di SEL) con 50mila euro, per un insulto a sfondo omofobo pronunciato dal giornalista e rivolto al senatore nel 2007 durante il programma Pensieri&Bamba su Odeon Tv.
Insieme con Furio Colombo, Vittorio Feltri è autore di Fascismo e antifascismo, un libro uscito nel novembre 1994 per l'editore Rizzoli.
Da qualche anno partecipa ad una trasmissione, Pensieri e bamba, dove viene intervistato su argomenti di attualità, su Odeon TV il lunedì.

È intervenuto alla Giornata per la Coscienza degli Animali del 13 maggio 2010, esprimendo posizioni animaliste, in particolare contro la pesca sportiva ed in favore del vegetarismo.

da wikipedia

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #334 il: 22 Febbraio 2013, 15:07:10 »
GIOVANNI  BEREA

Giovanni Luigi Brera (San Zenone al Po, 8 settembre 1919 – Codogno, 19 dicembre 1992)

...................................................................... è stato un giornalista e scrittore italiano.
 
Grazie alla sua inventiva e alla sua padronanza della lingua italiana è da molti considerato colui che più di tutti ha influenzato il giornalismo sportivo italiano del XX secolo. Di se stesso ha scritto:
« Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l'8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti (…) Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po. »
(Gianni Brera)

Inizia a giocare a calcio come terzino a 15 anni nella squadra "A" del G.C. Giosuè Carducci di Milano che partecipa al campionato milanese ragazzi 1934-1935[1] che lo vedrà convocato ad una partita di allenamento della rappresentativa milanese contro la squadra dell'Isotta Fraschini. In seguito è chiamato dall'allenatore Renato Rossi in rappresentativa milanese ragazzi in occasione del "Torneo Baravaglio"[2] organizzato dal Guerin Sportivo a Torino il 9 giugno 1935 dove sconfissero 2-1 i pari grado del Direttorio della Sezione Propaganda di Torino[3].
 
Ha solo 16 anni quando nel 1935 inizia a scrivere dei piccoli articoli a commento del campionato della Sezione Propaganda sul settimanale sportivo milanese "Lo schermo sportivo"[4] e continua a giocare nelle squadre ragazzi passando dal Carducci all'A.C. Vittoria di Milano nelle stagione 1935-1936[5].
 
Di lui si scrisse che aveva giocato al Milan[6]. Di fatto non arrivò mai a giocare nelle giovanili rossonere perché nelle cronache pubblicate da La Gazzetta dello Sport negli anni successivi lui, che ormai ha passato il limite di età per giocare nei ragazzi sia provinciali che regionali, non è mai citato. Il padre e la sorella lo convinsero che erano più importanti gli studi e lo costrinsero a smettere di giocare e a terminare il liceo a Pavia da dove continuò a spedire corrispondenze al settimanale sportivo milanese "Il nuovo schermo sportivo"[7].
 
A 18 anni è assunto dal "Guerin Sportivo"[8] dove è subito protagonista tanto da essere considerato la terza miglior penna dopo Bruno Slawitz e il Carlin.
 
Laureatosi in scienze politiche all'università di Pavia nel 1943, mentre prestava servizio come tenente paracadutista della Divisione Folgore, si rifugiò poi in Svizzera nel 1944 per sfuggire alla Gestapo, che ne sospettava la contiguità con la lotta partigiana. Rientrato in Italia, si unì alla Resistenza in Val d'Ossola, grazie all'intervento del senatore Bruno Maffi e di Giulio Seniga, che garantì per lui, salvandogli la vita. Come aiutante di campo della brigata Comoli, facente parte della Divisione Garibaldi Redi, fu l'autore del piano che sventò la distruzione per minamento del traforo del Sempione. Brera si gloriò sempre di aver attraversato tutto il periodo della seconda guerra mondiale, da paracadutista e da partigiano, senza aver mai sparato ad un altro essere umano.
 
Tornato alla vita civile, nel 1945 fu chiamato da Bruno Roghi alla Gazzetta dello Sport, il più importante quotidiano sportivo italiano, testata della quale diverrà direttore nel 1949, il più giovane nella storia del giornalismo italiano, dopo un fortunato reportage dal Tour de France di quell'anno.
 
Sposatosi nel 1943 con Rina Gramegna (1920-2000), ne ebbe quattro figli: Franco (n. e m. 1944), Carlo (pittore, 1946-1994), Paolo (scrittore, n. 1949), Franco (musicista, n. 1951).
 
Tra le numerose testate su cui Gianni Brera scrisse, vi sono, oltre alla citata Gazzetta, Il Giorno, Il Giornale, il Guerin Sportivo e la Repubblica. I suoi articoli sono stati tradotti in diverse lingue. Si devono a Brera anche numerosi libri: manuali, saggi, romanzi, racconti e pièce teatrali e radiofoniche. Il suo romanzo più celebre fu indubbiamente Il corpo della ragassa che nel 1978 venne adattato per il cinema da Alberto Lattuada e diretto da Pasquale Festa Campanile.
 
Comparve a lungo in televisione nelle trasmissioni Il processo del lunedì e "L'Accademia di Brera" (per l'emittente Telelombardia).
 
Nel 1956, quando Giulio Seniga ruppe con il Partito Comunista Italiano per i fatti d'Ungheria, si rifugiò a casa di Gianni Brera portando in una valigia un milione di dollari che rappresentavano il finanziamento dell'Unione Sovietica al Pci. Seniga utilizzò poi il denaro per l'attività politica, fondando in Svizzera la casa editrice "Azione Comune" che diresse riconoscendo a sé stesso solo uno stipendio da operaio.
 
Brera fu candidato alle elezioni al Parlamento nella circoscrizione di Milano-Pavia in due occasioni, con il Partito Socialista e con il Partito Radicale.
 
Morì il 19 dicembre 1992 in un incidente automobilistico !!

Morì sulla strada che collega Codogno a Casalpusterlengo, quando un'auto che andava in senso opposto a una velocità molto alta sbandò e invase la carreggiata dove viaggiava l'auto di Brera, uccidendone sul colpo i tre occupanti. Nel 2002 l'Arena Civica di Milano fu reintitolata a suo nome[9], e l'allora sindaco della città Gabriele Albertini disse: «Arena Civica era una definizione troppo formale, finalmente questo luogo ha un nome che sa di grande umanità e dedizione allo sport». Sulla tomba di Gianni Brera a San Zenone al Po ogni mese viene depositato come omaggio un sigaro toscano.

Gianni Brera ha legato indissolubilmente il proprio nome alla filosofia calcistica del "catenaccio" all'italiana.
 
L'idea di togliere un attaccante ed aggiungere un difensore esentato da marcature (il cosiddetto "libero") nacque in Svizzera negli anni trenta. Il successo dell'innovazione si misurò al mondiale del 1938, in cui la selezione elvetica riuscì a superare in un doppio confronto la forte compagine austro-tedesca. Il termine "verrou" con cui gli svizzeri definirono quella tattica, fu tradotto letteralmente con "catenaccio" in Italia. Fu solo nel corso degli anni cinquanta e sessanta che tale modulo fu preso in considerazione nella penisola: Gipo Viani e Nereo Rocco furono gli sperimentatori, Gianni Brera il "teorico".
 
Brera sosteneva la necessità di adottare il catenaccio in Italia per riportare il calcio giocato nel Paese ad alti livelli internazionali. Diceva, tra le altre cose, che gli italiani non erano fisicamente all'altezza degli altri popoli e che, di conseguenza, non potevano impostare un calcio sistematicamente offensivo per 90 minuti: a trascinare al successo sarebbero stati, a suo avviso, sempre personaggi di confine che - come Cavour e De Gasperi nella storia politica del Paese - si prendevano in carico la Nazionale emancipandola da tecniche offensive per giocare d'astuzia economizzando le energie ed utilizzando tattiche di opportunità. Il prototipo di questa descrizione fu il CT della Nazionale campione del mondo nel 1982, il friulano Enzo Bearzot, anche se in quella circostanza Brera fu protagonista di un clamoroso infortunio: all'esordio della trasferta spagnola dichiarò che se l'Italia fosse diventata campione del mondo avrebbe percorso a piedi la distanza tra la sua casa milanese e un santuario di devozione mariana lombardo; un mese dopo il trionfo del Santiago Bernabeu si fece fotografare in abito penitenziale e scalzo mentre saliva il sagrato del santuario.
 
Sebbene tali affermazioni non fossero indiscusse, Brera difese strenuamente sino alla fine quella visione delle cose. Anche per questo non vide mai di buon occhio Arrigo Sacchi e la concezione di calcio offensivo che introdusse in Italia, attribuendo i meriti dei successi del Milan ai soli giocatori olandesi.
 
Ma le polemiche che resero Brera celebre nel corso degli anni sessanta furono rivolte principalmente al "Golden Boy" rossonero Gianni Rivera e, più in generale, a quei giocatori tecnici, ma non combattivi che poco aderivano alla sua filosofia calcistica, ma che ricevevano invece un rilevante supporto dalla cosiddetta "scuola napoletana" e dal suo capostipite, Gino Palumbo. Brera soprannominò Rivera "abatino" e osteggiò apertamente in molte occasioni l'impiego del giocatore nella nazionale italiana, pur riconoscendone la grande intelligenza calcistica e personale. Nonostante i successi nazionali e, ancor di più, internazionali del Milan di quel periodo, la polemica col fuoriclasse rossonero non si sopì mai, entrando nell'immaginario collettivo italiano. Brera e Rivera comunque si rispettavano molto a vicenda e dopo la morte di Brera, Rivera fu tra i fondatori dell'Associazione Amici di Gianni Brera, oggi Simposio Gianni Brera.
 
Nel periodo anni settanta/ottanta Brera scaricò la propria insofferenza per i giocatori tecnici, ma non gladiatori, sul regista della Fiorentina e della nazionale Giancarlo Antognoni e sul fantasista nerazzurro Evaristo Beccalossi. A detta del giornalista queste critiche gli causarono, nel corso degli anni, molti attriti con giornalisti e tifosi d'opinione diversa.

da wikipedia

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #335 il: 22 Febbraio 2013, 17:08:31 »
FRANCO MARINI

Franco Marini (San Pio delle Camere, 9 aprile 1933)

.................................................. è un sindacalista e politico italiano.
 
È stato segretario generale della CISL, Presidente del Senato, ministro del Lavoro, segretario del Partito Popolare Italiano e parlamentare europeo. Attualmente è senatore iscritto nel Partito Democratico
Primogenito di una numerosa famiglia di modeste condizioni economiche, si diplomò al liceo classico "M.T.Varrone" di Rieti e conseguì la laurea in giurisprudenza, svolse quindi la leva come ufficiale negli alpini. Iscritto alla Democrazia Cristiana dal 1950 e attivo nell'Azione Cattolica e nelle ACLI, iniziò la sua attività lavorativa, durante gli studi universitari, in un ufficio contratti e vertenze della CISL. Dopo alcuni anni di formazione e di esperienza, Giulio Pastore lo portò all'ufficio studi del ministero per il Mezzogiorno. Segretario generale aggiunto della Federazione dei Dipendenti Pubblici nel 1965, nel sindacato della CISL, discepolo di Pastore, assunse un ruolo sempre maggiore, diventando negli anni settanta vicesegretario, e nel 1985 venne scelto come segretario nazionale.Nel 1991 alla morte di Carlo Donat Cattin ne ereditò la corrente politica di Forze nuove, interna alla Democrazia Cristiana, tradizionalmente più sensibile alle prerogative del mondo del lavoro, e passò nell'aprile dello stesso anno dalla segreteria del sindacato al Governo, diventando Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale del VII Governo Andreotti.
 
La Democrazia Cristiana lo candidò per la prima volta nelle elezioni politiche del 1992, risultando il primo degli eletti a livello nazionale, e Mino Martinazzoli lo scelse per l'incarico di responsabile organizzativo.
Seguendo il partito nella formazione nel 1994 del Partito Popolare Italiano, ne divenne segretario nel 1997 succedendo a Gerardo Bianco. Guidò una segreteria volta a rimarcare la propria individualità all'interno dell'alleanza dell'Ulivo, in contrasto con l'idea di Romano Prodi di una vera e propria unione dei partiti. Eletto al parlamento europeo nell'elezioni del 1999, lo stesso anno, con alle spalle un deludente risultato elettorale per il partito, lasciò la segreteria in favore di Pierluigi Castagnetti.
In seguito, non ostacolò l'entrata nell'alleanza elettorale della Margherita delle elezioni politiche del 2001, che, trasformandosi in partito nel 2002, lo designa come responsabile organizzativo.
All'interno della Margherita, rappresenta i settori più centristi, inizialmente prudenti sull'idea del Partito Democratico. Nel confronto che ci fu nel maggio del 2005 tra Romano Prodi e Francesco Rutelli, Marini sostenne quest'ultimo affermando la necessità della Margherita di presentarsi da sola al proporzionale
Eletto senatore alle elezioni politiche del 2006, è stato scelto come candidato alla presidenza del senato, sfidante dell'altro candidato espresso dalla CdL, il senatore a vita Giulio Andreotti. Il 29 aprile 2006, con 165 voti, Marini diventa Presidente del Senato della Repubblica Italiana, con una votazione (la terza) molto seguita dagli stessi senatori, visto la possibilità che Andreotti vincesse, sostenuto dalla CdL, dal senatore Cossiga e dal senatore Marco Follini. Tuttavia è importante chiarire che da parte del centrodestra non vi era alcuna opposizione alla candidatura di Marini in sé, bensì al metodo con cui il successore di Marcello Pera fosse stato scelto: senza convergenza e spirito di unità nazionale, visto il risultato delle consultazioni elettorali che diedero un ridotto margine di maggioranza alla coalizione guidata da Romano Prodi.
 
Nel suo discorso di insediamento Franco Marini ha voluto richiamare i suoi colleghi all'unità dichiarando:
L'ex Presidente del Senato Franco Marini, con il Segretario Generale del Senato, dott. Antonio Malaschini (sua sin.), il suo addetto stampa, dott. Guelfo Fiore (sua destra) ed un agente addetto alla sicurezza, alla parata della Festa della Repubblica a Roma, il 2 giugno 2007.
« Sarò il presidente di tutto il Senato e in un dialogo fermo e mai abbandonato sarò il presidente di tutti voi con grande attenzione e rispetto per le prerogative della maggioranza e per quelle dell'opposizione come deve essere in una vera democrazia bipolare, che io credo di aver modestamente contribuito, anche con il mio apporto, a realizzare nel nostro Paese »
Il 21 febbraio del 2007, dopo le dimissioni del governo guidato da Romano Prodi, era stato indicato come possibile nuovo Presidente del Consiglio di un probabile governo tecnico, previsione che si è rivelata errata, dato che pochi giorni dopo il governo Prodi si è ripresentato alle camere incassando nuovamente la fiducia.
 
Nel novembre del 2007 è stato proposto dal senatore Lamberto Dini per sostituire Prodi in un eventuale governo istituzionale, ma il presidente ha immediatamente rigettato l'ipotesi. Conclude il mandato di presidente di Palazzo Madama il 28 aprile 2008, con l'elezione del suo successore, Renato Schifani
In seguito alla caduta del governo Prodi II, e nonostante il suo iniziale diniego ad assumere altri incarichi, il 30 gennaio 2008 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito a Marini un incarico finalizzato affinché verificasse, entro un breve spazio temporale, la possibilità di consenso da parte della maggioranza e dell'opposizione su una riforma della legge elettorale e su un governo che assumesse le decisioni più urgenti. Marini ha accettato l'incarico, parlando di «impegno non semplice, ma gravoso».[1]
 
Tuttavia, il 4 febbraio 2008, dopo quattro giorni di consultazioni con tutti i gruppi parlamentari e con alcune rappresentanze delle parti sociali, si è recato al Quirinale per rimettere il suo incarico nelle mani del Presidente della Repubblica «con molto rammarico per l'impossibilità di raggiungere l'obiettivo» «di trovare una maggioranza per modificare in pochi mesi la legge elettorale».
Marini ha partecipato alla fondazione del Partito Democratico ed attualmente è il principale referente della corrente de I Popolari di matrice democristiana e cristiano sociale. Alle elezioni primarie del 2009 ha sostenuto la candidatura di Dario Franceschini.


da wikipedia

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #336 il: 25 Febbraio 2013, 11:19:58 »
GIORGIO GABER

Giorgio Gaber, nome d'arte di Giorgio Gaberscik (Milano, 25 gennaio 1939 – Montemagno di Camaiore, 1º gennaio 2003),

............................... è stato un cantautore, commediografo, regista teatrale e attore teatrale e cinematografico italiano.


 Affettuosamente chiamato "Il Signor G" dai suoi estimatori, è stato anche un chitarrista di valore, tra i primi interpreti del rock and roll italiano (tra il 1958 e il 1960).
Molto apprezzate sono state anche le sue performance come autore ed attore teatrale; è stato iniziatore, assieme a Sandro Luporini, del "genere" del teatro canzone.
Nel 2004, a Giorgio Gaber viene intitolato il rinnovato auditorium sotterraneo del Grattacielo Pirelli di Milano.
Per Gaber... io ci sono è il titolo del triplo cd evento uscito il 13 novembre 2012, a quasi dieci anni dalla morte del grande cantautore milanese, con cinquanta artisti che hanno reinterpretato i suoi brani.

Nasce a Milano in via Londonio 28 da una famiglia piccolo-borghese.
Genitori (madre veneziana e padre istriano ) si sono conosciuti e sposati in Veneto.
Successivamente si sono trasferiti in Lombardia in cerca di fortuna. Il cognome Gaberscik, la grafia corretta è Gaberščik, proviene dalla regione del Goriziano sloveno.
 
Il padre Guido fa l'impiegato, la madre Carla Mazzoran è casalinga; il fratello maggiore Marcello compie gli studi di geometra e suona la chitarra. Lo stato di salute di Giorgio è cagionevole: durante l'infanzia si ammala più volte. Un brutto infortunio al braccio sinistro (che gli procura una lieve paralisi alla mano), occorsogli verso gli otto-nove anni, gli impone un'attività costante ai fini della rieducazione motoria: considerato che il fratello maggiore suona la chitarra, anche Giorgio impara a suonarla. L'idea dà buoni risultati, sia sotto il profilo medico che sotto quello artistico. Da adulto, Gaber dirà: “Tutta la mia carriera nasce da questa malattia”.
 
I suoi chitarristi modello sono i jazzisti statunitensi: Barney Kessel, Tal Farlow, Billy Bauer. Gaber, da adolescente, non pensa ancora a cantare: è essenzialmente uno strumentista. Vive la musica come momento di divertimento, di svago, essendo la sua attività principale quella di studente. Cerca di imparare anche dai musicisti italiani: a Milano può ascoltare dal vivo Franco Cerri, che si esibisce spesso alla Taverna Messicana.
La sua carriera da chitarrista inizia nel gruppo di Ghigo Agosti «Ghigo e gli arrabbiati», formazione che nasce all'Hot Club di Milano; ed esordisce al festival jazz del 1954. Non si fa ancora chiamare “Gaber”: si presenta al pubblico con il suo vero cognome, Gaberscik. Dopo due anni di serate, tra musica leggera (per guadagnare) e jazz (per passione) entra nei Rock Boys, il complesso di Adriano Celentano, in cui al pianoforte suona Enzo Jannacci. Nel 1957 il gruppo compare in televisione nella trasmissione abbinata alla Lotteria Italia Voci e volti della fortuna.
Conosce in questo periodo Luigi Tenco, trasferitosi a Milano da Genova. Con lui forma il suo primo gruppo, così composto: Jannacci al pianoforte, Tenco e Paolo Tomelleri al sax, Gaber e Gian Franco Reverberi alla chitarra. I Rocky Mountains Old Times Stompers (questo il nome completo del gruppo) si esibiscono nel celebre club milanese Santa Tecla. Gaber e Tenco compongono insieme alcuni brani, sviluppando parallelamente un'intensa amicizia. Tra il 1957 e il 1958 Gaber, Tenco, Jannacci, Tomelleri e Reverberi partecipano ad una tournée di Adriano Celentano in Germania.
Nel 1958, a 19 anni Gaber si diploma ragioniere. In estate parte per Genova, dove trascorre la stagione estiva suonando nei locali in un trio basso-chitarra-pianoforte con Tenco. Per la prima volta sperimenta le sue doti di cantante. In autunno si iscrive all'Università Bocconi di Milano, mantenendosi gli studi con il lavoro da chitarrista e cantante dei «Rocky Mountains» al Santa Tecla.
 
Viene notato da Nanni Ricordi, direttore artistico dell'omonima casa editrice musicale, che lo invita ad un provino. Gaber comincia la carriera da solista, con l'incisione per la neonata Dischi Ricordi, branca della storica casa editrice musicale per la musica leggera, di quattro canzoni, due originali in italiano: Ciao ti dirò (rock) e Da te era bello restar (lento), e due successi americani: Be-bop-a-lula e Love Me Forever. Sull'etichetta del 45 giri si legge: «Giorgio Gaber e la sua Rolling Crew». Per la prima volta appare il suo nome d'arte.
 
Firmata da Giorgio Calabrese e Gianfranco Reverberi Ciao ti dirò è uno dei primi brani rock in italiano; Gaber non fu accompagnato dal suo gruppo, ma da musicisti già sotto contratto per la Ricordi, tra cui Franco Cerri alla chitarra e Gianni Basso al sassofono, entrambi jazzisti.
Il primo disco frutterà a Gaber un'apparizione in tv alla trasmissione Il Musichiere condotto da Mario Riva (1959).
Nella primavera del 1959 Gaber partecipa, con tutti i nuovi artisti del momento – tra cui Mina, Celentano e Little Tony – a una serata rock al Palazzo del Ghiaccio di Milano. Nello stesso anno forma con Enzo Jannacci un duo, I Due Corsari, che debutta con il 45 giri 24 ore/Ehi! Stella. La formazione incide altri 45 giri: Una fetta di limone (1960) è uno dei loro maggiori successi]. Alla fine del 1959 Gaber si iscrive alla SIAE, come melodista e paroliere.Dopo i primi 45 giri, Gaber raggiunge il successo nel 1960 con il lento Non arrossire, con la quale partecipa alla Sei giorni della canzone; nello stesso anno incide la sua canzone più conosciuta tra quelle del primo periodo, La ballata del Cerutti, con il testo dello scrittore Umberto Simonetta. L'anno prima ha conosciuto Sandro Luporini, pittore viareggino, che diventerà il coautore di tutta la sua produzione musicale e teatrale più significativa. Tra le prime canzoni scritte insieme, Così felice e Barbera e champagne. Le canzoni di maggior successo, Trani a gogò (1962), Goganga, Porta Romana (1963), fruttano a Gaber molte apparizioni televisive. Durante gli anni sessanta i testi della maggior parte di tali canzoni sono scritti da Umberto Simonetta.
 
Gaber è attratto anche dalla canzone francese: ascolta gli chansonniers della Rive gauche parigina, cui riconosce uno spessore culturale, un'attenzione ai testi che manca nella musica leggera italiana. “Il mio maestro è stato Jacques Brel”. Gaber, come Gino Paoli, Sergio Endrigo, Umberto Bindi, Jannacci e Tenco sono alla ricerca di un punto di equilibrio tra le influenze americane (rock e jazz) e la canzone francese. Lo trovano nella canzone d'autore in italiano. I primi cantautori nostrani nascono in questo periodo, e Gaber è tra loro.
 
Dopo un sodalizio sentimentale-artistico con la cantante e attrice Maria Monti (insieme avevano scritto Non arrossire), il 12 aprile 1965 Gaber sposa Ombretta Colli, allora studentessa di lingue orientali (russo e cinese) all'Università degli Studi di Milano. Il 12 gennaio 1966 nasce la loro unica figlia, Dahlia Deborah, conosciuta come Dalia.
Negli anni sessanta Gaber partecipa a quattro edizioni di Sanremo:
 nel 1961 con il brano "Benzina e cerini" (scritto tra gli altri da Enzo Jannacci),
 nel 1964 presenta Così felice;
 nel 1966 con uno dei suoi successi più grandi, Mai, mai, mai (Valentina),
 nel 1967 con ... E allora dài!; questi ultimi due brani sono incisi per la Ri-Fi, etichetta a cui è passato dopo aver abbandonato la Ricordi e per cui pubblica nel 1965 un album insieme a Mina (dal titolo «Mina & Gaber: un'ora con loro»).
 
Nell'estate del 1966 partecipa al 14º Festival della Canzone Napoletana, dove si classifica al secondo posto con il brano di Alberto Testa e Giordano Bruno Martelli 'A Pizza, eseguito in coppia con Aurelio Fierro. Questo brano, insieme a Ballata de' suonne, di cui scrive la musica sulle parole di Riccardo de Vita, rappresenta l'unica incursione di Giorgio Gaber nella canzone napoletana
Nella stagione 1969-70 Gaber e Mina realizzano una serie di recital nei teatri di molte città italiane. Gaber si esibisce nel primo tempo, Mina nel secondo tempo. La tournée viene ripetuta nella stagione seguente. Nel 1970 esce l'album Sexus et politica (realizzato con Antonio Virgilio Savona del Quartetto Cetra, conosciuto durante la registrazione di Non cantare, spara), in cui Gaber esegue canzoni scritte su testi di autori latini. All'apice della popolarità, nel 1970 presenta il suo ultimo varietà televisivo: E noi qui, del sabato sera. Poi abbandona gli schermi tv e inizia una nuova carriera sul palcoscenico.
 
Nel frattempo, nasce un'amicizia con il cantautore Claudio Chieffo, di profonda fede cattolica. Gaber, non credente, di lui diceva: "Fa pensare".


« […] La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non [politici], che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po' una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d'accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l'attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo. »
 (G. Harari, «Giorgio Gaber», Rockstar, gennaio 1993.)
 
« […] Poi mi sono chiesto se [il] successo, la popolarità e il denaro che ne derivava dovessero condizionare la mia vita, le mie scelte. La risposta mi sembra risulti chiara: ho scoperto che il teatro mi era più congeniale, mi divertiva di più, mi permetteva un'espressione diretta, senza la mediazione del disco o di una telecamera frapposta tra l'artista e il suo pubblico. Le entrate erano sicuramente minori rispetto ai proventi derivanti dalla vendita dei dischi, ma guadagnavo abbastanza da non dover soffrire la scelta di campo. […] Rispetto al denaro, io penso che se si riesce a guadagnare una lira di più di quello che è necessario per vivere discretamente si è ricchi. »
 (C. Pino (a cura di), «Da Goganga al Dio Bambino», in Amico treno, Baldini & Castoldi, 1997)
 
Il debutto in teatro di Giorgio Gaber risale al 1959, al Teatro Girolamo con l'allora fidanzata Maria Monti. Il recital aveva per titolo Il Giorgio e la Maria. La Monti recitava dei monologhi su Milano, Gaber interveniva tra i monologhi con le sue canzoni. Nel 1960 Gaber incide un 45 giri con Dario Fo: Il mio amico Aldo, dove il primo canta e il secondo recita. Gaber conosce il teatro di Fo e se ne appassiona.
 
Il 1970 è l'anno della svolta: Gaber rinuncia all'enorme successo televisivo e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Si sentiva “ingabbiato” nella parte di cantante e di presentatore televisivo, costretto a recitare un ruolo. Lascia questo ambiente e si spoglia del ruolo di affabulatore. Il Gaber che tutti hanno conosciuto non c'è più: appartiene al passato. Riparte da capo e si presenta al pubblico così com'è.
 
Per questo crea il «Signor G», un personaggio che non recita più un ruolo: recita se stesso. Quindi “una persona piena di contraddizioni e di dolori”[17], un signore come tutti[18]. “Il signor G è un signor Gaber, che sono io, è Luporini, noi, insomma, che tentiamo una specie di spersonalizzazione per identificarci in tanta gente”[19]. Oltre a inventare un nuovo personaggio, crea un nuovo genere: lo spettacolo a tema con canzoni che lo sviluppano, inframmezzate da monologhi e racconti[20]. Con la sua nuova casa discografica, la Carosello, Gaber pubblica sia le registrazioni dal vivo degli spettacoli teatrali sia gli album registrati in studio.
« La scoperta del teatro, cioè di un mezzo che mi consentiva di dire quello che pensavo tramite il mio mestiere, è stata di enorme importanza. Le due ore di spettacolo, per esempio: guai se fosse un quarto d'ora, perché io ho problemi di sblocco iniziale, di accostamento a quella spudoratezza che ogni artista credo debba avere, e che a me arriva man mano che vado avanti, perché all'inizio dello spettacolo io scapperei via. Credo di avere, di base, una sorta di chiusura che mi fa quasi dire alla platea: "Scusate, io sono su e voi siete giù, ma è un fatto casuale, succede perché stavolta sono io che devo dirvi qualcosa". »
(F. Zampa, «Individuo vieni fuori», Il Messaggero, 29 ottobre 1983)
 
« La formula in un primo momento comprende solo canzoni, poiché ancora non recito, e piccoli interventi parlati che via via si trasformeranno in monologhi, dove si affronta un tema – la condizione schizoide piuttosto che la libertà obbligatoria, o la psicanalisi – come in uno spettacolo di prosa, sviluppato però attraverso canzoni e poi monologhi. Il mio approccio è già diverso da quello classico della musica leggera, che prevede che il pubblico venga a vedere uno spettacolo di canzoni che conosce già: da me si vengono a vedere canzoni che non si conoscono. »
 (G. Harari, «Giorgio Gaber», Rockstar, gennaio 1993)

« […] Mi pare che il discorso sia continuo. Parte con i reduci del '68 e descrive la crisi dell'individuo con la sua perdita d'identità, il suo non sapere chi è, il suo bisogno di avere una carta d'identità per riconoscersi e lo segue in tutti gli sforzi che fa per togliersi di dosso questo peso della produzione che lo schiaccia, la sua ricerca di libertà che troppo spesso si rivela non antagonistica al sistema e alla produzione. »
 (L. Lanza, «L'uomo spappolato», A, n. 52, dicembre 1976-gennaio 1977)
«Libertà obbligatoria» ha come tema principale il rapporto tra individuo e sistema. “Da un lato esistono persone che accettano passivamente tutto quanto viene loro propinato dal sistema. Dall'altro esistono quelli che credono di porsi in modo antagonistico al sistema, ma il loro antagonismo è fasullo e nel giro di breve tempo viene recuperato. Vedi la moda dei blue-jeans che ormai alimentano vere e proprie industrie. Entrambi i tipi non sfuggono alla massificazione”[26]. In questo spettacolo Gaber canta la memorabile Le elezioni. Un altro tema, che prende forma in questo spettacolo e che sarà ampliato in quelli successivi, è quello del rapporto tra l'individuo e il proprio corpo. Per Gaber/Luporini il sistema capitalistico è entrato talmente nella vita dell'uomo da modificare nell'individuo la coscienza del proprio corpo e dei propri bisogni.Polli d'allevamento (debutto il 3 ottobre a Parma) è il recital della vera e propria svolta: in un vortice di critiche crescenti che hanno il loro culmine in La festa e Quando è moda è moda (canzone finale dello spettacolo), Gaber esprime tutta la sua delusione verso quei giovani che affermano di lottare «contro» il sistema, mentre in realtà la loro è una finta battaglia, è un atteggiamento. Le mezze misure vengono abbandonate per lasciare posto all'assoluto distacco da tutto ciò che è stato, come se si sentisse il bisogno di isolarsi da una società in caduta libera per recuperare frammenti di individualità, di contatto reale con sé stessi. Lo spettacolo scatena una grande ondata di sdegno da parte di quelle aree del mondo politico[28] che avevano sempre tentato di tenere sotto controllo l'uragano mediatico scatenato dal Teatro-canzone.Gaber si consacra definitivamente come libero pensatore, in lotta contro qualsiasi parte politica: la canzone è uno sfogo che incarna i disagi di molti italiani, disillusi ma arrabbiati, ed esplica la sfiducia nei confronti dell'uomo che Gaber, sui modelli letterari di Céline e Giacomo Leopardi, applica alla sua arte.Lo spettacolo «Anni affollati» è un recital più conciso e colto, ma non per questo meno tagliente. Già dal pezzo di apertura, Anni affollati appunto, si riesce a percepire il distacco che ormai si è creato fra il fervore degli anni settanta e l'attuale condizione sociale; quasi tutti i monologhi prendono spunto da particolari estremamente divertenti ed irriverenti (“La masturbazione”, “L'anarchico”) per giungere a conclusioni terribili e disperate (“Il porcellino”). Infine, quando l'insostenibile peso dell'ipocrisia pare aver fatto traboccare il vaso, tutto l'astio verso le idiozie e le bassezze del mondo viene riversato nella spietata ed apocalittica invettiva della ormai celebre Io se fossi Dio.
 
Gaber dichiara: “Ho inserito 'Io se fossi Dio' nello spettacolo con qualche perplessità. Certo, pacificato non lo sono neanche oggi. Continuo a non leggere i giornali e a non votare
Stagione 1984/85 : Ritorna sulla scena con «Io se fossi Gaber». Il tema è l'appiattimento, la massificazione. Lo spettacolo debutta il 18 ottobre 1984 a Torino. Tra le novità c'è il ritorno del gruppo che suona dal vivo alle spalle del cantattore. Le canzoni: Gli altri, La massa, Qualcosa che cresce, Il deserto. Gaber dichiara: “Io se fossi Gaber nasce dalla polemica sul misterioso termine "massa", su quelli che hanno ceduto alla logica del mercato, sulla caduta di resistenza anche da parte degli ultimi che facevano il tifo per il gusto.
Stagione 1988/89 : Il decennio si conclude con il ritorno di Gaber ad uno spettacolo di prosa, il secondo dopo Il caso di Alessandro e Maria: si tratta di «Il Grigio», lungo monologo pubblicato anche su disco. È la storia di un topo “che si ritira da un mondo che non gli piace, va a vivere in una casa isolata: e lì è assalito da tutta la sua vita, gli tornano addosso tutte le ansie, è costretto a una continua autoanalisi.”[36]. Entra dentro se stesso “per guardarsi, per fare un bilancio. […] Quando l'uomo sprofonda nell'osservazione del sé, poi, riemerge, lentamente. È come la calma dopo la tempesta, si accetta. Tutto qui. Accettarsi.« Guardo molto dentro me stesso. Non è rabbia: è autoanalisi. Serve a farmi capire gli altri, ma serve anche a me per resistere all'omologazione imperante. »« Non sono cattolico. Ma il mistero c'è, eccome, e io sono un uomo di fede. La fede, mi ha detto una volta un prete, è una ferita che ci portiamo dentro e che dobbiamo cercar di rimarginare, pur sapendo che ciò non accadrà mai. Mi sta bene. »
Sagione 1991/92 : Gaber mette in scena uno spettacolo antologico, intitolato «Il teatro canzone», che ripercorre tutta la storia dei vent'anni precedenti. L'unico inedito è il monologo Qualcuno era comunista, lucida analisi di quello che il comunismo aveva significato per tante persone, in termini di speranze ma anche di illusioni, e di quello che la fine di quell'esperienza ha voluto dire per molti:
« [Qualcuno era comunista] perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché era solo una forza, un sogno, un volo, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. »
Già segnato dalla malattia, Gaber compare nello stesso anno nel programma 125 milioni di caz..te di e con il vecchio amico Adriano Celentano, insieme ad Antonio Albanese, Dario Fo, Enzo Jannacci e lo stesso Celentano in una surreale partita a carte: i cinque cantano insieme "Ho visto un re".
 
Inizia la lavorazione del nuovo disco, Io non mi sento italiano, che però viene pubblicato postumo: da tempo malato di cancro, si spegne nel pomeriggio del giorno di Capodanno del 2003 nella sua casa di campagna a Montemagno, località in provincia di Lucca. Il corpo riposa nel famedio del Cimitero Monumentale di Milano, come voluto dalla moglie Ombretta Colli.

da wikipedia

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #337 il: 25 Febbraio 2013, 11:42:17 »
SANDRO PERTINI


Alessandro Pertini detto Sandro (San Giovanni di Stella, 25 settembre 1896 – Roma, 24 febbraio 1990 - 93 ANNI )

....................................è stato un politico, giornalista e antifascista italiano. Fu il settimo presidente della Repubblica Italiana.


Presidente della Repubblica Italiana, in carica dal 1978 al 1985, il secondo socialista (dopo Giuseppe Saragat) a ricoprire la carica.
Durante la prima guerra mondiale, Pertini combatté sul fronte dell'Isonzo, e per diversi meriti sul campo gli fu conferita una medaglia d'argento al valor militare nel 1917. Congedato con il grado di capitano, nel dopoguerra aderì al Partito Socialista Italiano e si distinse per la sua energica opposizione al fascismo. Perseguitato per il suo impegno politico contro la dittatura di Mussolini, nel 1925 fu condannato a otto mesi di carcere, e quindi costretto a un periodo di esilio in Francia per evitare una seconda condanna. Continuò la sua attività antifascista anche all'estero e per questo, dopo essere rientrato sotto falso nome in Italia nel 1929, fu arrestato e condannato dal Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato prima alla reclusione e successivamente al confino.
 
Nel 1943, alla caduta del regime fascista, fu liberato, e partecipò alla battaglia di Porta San Paolo nel tentativo di difendere Roma dall'occupazione tedesca. Contribuì poi a ricostruire il vecchio PSI fondando insieme a Pietro Nenni il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Nello stesso anno fu catturato dalle SS e condannato a morte, ma riuscì a salvarsi grazie a un intervento dei partigiani delle Brigate Matteotti.
 
Divenne in seguito una delle personalità di primo piano della Resistenza italiana e fu membro della giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale in rappresentanza del PSIUP. Da partigiano fu attivo soprattutto a Roma, in Toscana, Val d'Aosta e Lombardia, distinguendosi in diverse azioni che gli valsero una medaglia d'oro al valor militare. Nell'aprile 1945 partecipò agli eventi che portarono alla liberazione dal nazifascismo, organizzando l'insurrezione di Milano, e votando il decreto che condannò a morte Mussolini e altri gerarchi fascisti.
 
Nell'Italia repubblicana fu eletto deputato all'Assemblea Costituente per i socialisti, quindi senatore nella prima legislatura e deputato in quelle successive, sempre rieletto dal 1953 al 1976. Ricoprì per due legislature consecutive, dal 1968 al 1976, la carica di Presidente della Camera dei deputati, per essere infine eletto Presidente della Repubblica Italiana l'8 luglio 1978.
 
Andando spesso oltre il semplice ruolo istituzionale, il suo mandato presidenziale fu caratterizzato da una forte impronta personale che gli valse una notevole popolarità, tanto da essere spesso ricordato come il "presidente più amato dagli italiani.

La Gioventù : Nacque da una famiglia benestante (il padre Alberto, che morì giovane, era proprietario terriero), quarto di cinque fratelli: il primogenito Luigi, pittore; Marion, che sposò un diplomatico italiano; Giuseppe, detto "Pippo", ufficiale di carriera; ed Eugenio, che durante la seconda guerra mondiale fu deportato e morì nel campo di concentramento di Flossenbürg.
 Sandro Pertini, molto legato alla madre Maria Muzio, fece i suoi primi studi presso il collegio dei salesiani "Don Bosco" di Varazze, e successivamente al Liceo Ginnasio "Gabriello Chiabrera" di Savona, dove ebbe come professore di filosofia Adelchi Baratono, socialista riformista e collaboratore di Critica Sociale di Filippo Turati, che contribuì ad avvicinarlo al socialismo ed agli ambienti del movimento operaio ligure[5]. Del professor Baratono Pertini conserverà un insegnamento al quale rimarrà fedele:
« Se non vuoi mai smarrire la strada giusta resta sempre a fianco della classe lavoratrice nei giorni di sole e nei giorni di tempesta. »
(Discorso del Presidente Pertini ai lavoratori dell'Italsider. Savona, 20 gennaio 1979[6][7])

Nel 1915, allo scoppio della Grande Guerra, venne chiamato alle armi nel 25º reggimento di artiglieria da campagna e inviato sul fronte dell'Isonzo nell'aprile di due anni dopo. Seppur diplomato, prestò inizialmente servizio come soldato semplice, essendosi rifiutato, come molti altri socialisti neutralisti del periodo, di fare il corso per ufficiali. Nel 1917 tuttavia, a seguito di una direttiva del Cadorna che obbligava tutti i possessori di titolo di studio a prestare servizio come ufficiali, frequentò il corso a Peri di Dolcè.[8]
Venne dunque inviato nuovamente sull'Isonzo come sottotenente di complemento, distinguendosi per alcuni atti di eroismo: fu decorato con la medaglia d'argento al valor militare per aver guidato, nell'agosto del 1917, un assalto al monte Jelenik durante la battaglia della Bainsizza.
Tuttavia, dopo la guerra, non gli fu consegnata la decorazione poiché il regime fascista occultò tale merito a causa della sua militanza socialista[9].
Nel 1918, a guerra finita, Sandro Pertini si iscrisse al Partito Socialista Italiano, nella federazione di Savona, aderendo alla corrente riformista di Filippo Turati. Nell'ottobre 1920 venne eletto consigliere comunale di Stella e nel 1921 fu tra i delegati al Congresso socialista di Livorno che sancì la scissione del partito e la nascita del Partito Comunista d'Italia[10]. Nel 1922 aderì infine alla scissione della corrente turatiana per aderire al neonato Partito Socialista Unitario[8].

Pertini nei primi anni venti:
Dopo aver sostenuto dodici esami a Genova, nel 1923 si iscrisse, ventisettenne, alla facoltà di giurisprudenza dell'ateneo di Modena: qui sostenne in tre mesi i rimanenti sei esami e si laureò (105 su 110) con una tesi su L'industria siderurgica in Italia[11].
 In seguito si trasferì a Firenze, ospite del fratello Luigi, e si iscrisse all'Istituto Universitario "Cesare Alfieri" conseguendo nel 1924 la seconda laurea, in scienze sociali, con una tesi dal titolo La Cooperazione. A Firenze, entrò in contatto con gli ambienti dell'interventismo democratico e socialista vicini a Gaetano Salvemini, ai fratelli Rosselli e a Ernesto Rossi, e in quel periodo aderì al movimento di opposizione al fascismo "Italia Libera".
Ostile fin dall'inizio al regime fascista, per la sua attività politica fu spesso bersaglio di aggressioni squadriste: il suo studio di avvocato a Savona fu devastato diverse volte[12], mentre in un'altra occasione fu picchiato perché indossava una cravatta rossa, oppure ancora per aver deposto una corona di alloro dedicata alla memoria di Giacomo Matteotti[13]. Il 22 maggio 1925 venne arrestato per aver distribuito un opuscolo clandestino, stampato a sue spese, dal titolo Sotto il barbaro dominio fascista[8], in cui denunciava le responsabilità della monarchia verso l'instaurazione del regime fascista, le illegalità e le violenze del fascismo stesso, nonché la sfiducia nell'operato del Senato del Regno, composto in maggioranza da filofascisti, chiamato a giudicare in Alta Corte di Giustizia l'eventuale complicità del generale Emilio De Bono riguardo all'omicidio di Giacomo Matteotti.
 Non si conosce molto dei fratelli di Pertini, tuttavia su due di essi, Giuseppe ed Eugenio, la cui vicenda si sviluppa appunto tra gli anni dell'antifascismo e della Resistenza, Sandro Pertini gettò una luce in una famosa intervista concessa ad Oriana Fallaci nel 1973.[14]
 Giuseppe Pertini, fratello maggiore di Sandro, fu ufficiale di carriera durante la prima guerra mondiale. Nel 1923 si iscrisse al Partito Fascista; tra i due fratelli si produsse così una totale frattura che si ricompose parzialmente solo nel 1925, dopo il primo arresto di Sandro. Dopo il secondo arresto, nel 1926, Giuseppe abbandonò definitivamente il fascismo. Di lì a poco sarebbe morto, a 41 anni, di infarto: "di crepacuore" dirà in seguito Pertini.
Eugenio Pertini Eugenio Pertini, quasi coetaneo di Sandro, era sempre stato molto legato a lui. Ancora giovane emigrò in America per lavoro, per tornare durante il periodo di prigionia del fratello. Un giorno del 1944 gli giunse la notizia che Sandro era stato fucilato a Forte Boccea[15]. In seguito a ciò Eugenio si iscrisse al Partito Comunista ed entrò nella Resistenza; arrestato mentre attaccava dei manifesti contro i nazisti fu portato prima nel campo di transito di Bolzano e quindi a Flossenbürg, dove morì, fucilato, il 25 aprile del 1945, proprio mentre avveniva l'insurrezione di Milano[16].
In seguito a questo, fu aperto a suo nome un fascicolo al Casellario Politico Centrale[17] e venne accusato di «istigazione all'odio tra le classi sociali» secondo l'articolo 120 del Codice Zanardelli, oltre che dei reati di stampa clandestina, oltraggio al Senato e lesa prerogativa della irresponsabilità del re per gli atti di governo.
Pertini, sia nell'interrogatorio dopo l'arresto, sia in quello condotto dal procuratore del Re, nonché all'udienza pubblica davanti al Tribunale di Savona, rivendicò il proprio operato assumendosi ogni responsabilità e dicendosi disposto a proseguire nella lotta contro il fascismo e per il socialismo e la libertà, qualunque fosse la condanna a cui andava incontro[18].
 
Fu condannato, il 3 giugno 1925, a otto mesi di detenzione e al pagamento di un'ammenda per i reati di stampa clandestina, oltraggio al Senato e lesa prerogativa regia, ma fu assolto per l'accusa di istigazione all'odio di classe. La condanna non attenuò la sua attività, che riprese appena liberato.
Nel novembre 1926, dopo il fallito attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, come altri antifascisti in tutta Italia, fu oggetto di nuove violenze da parte dei fascisti (il 31 ottobre 1926, dopo un comizio, durante un'aggressione di squadristi gli era stato spezzato il braccio destro[10]) e si trovò costretto ad abbandonare Savona per riparare a Milano. Il 4 dicembre 1926, in applicazione delle cosiddette leggi eccezionali "fascistissime", Pertini, definito «un avversario irriducibile dell'attuale Regime», venne assegnato al confino di polizia per la durata di cinque anni, il massimo della pena previsto dalla legge.
Per sfuggire alla cattura, il 12 dicembre 1926, da Milano espatriò clandestinamente verso la Francia assieme a Filippo Turati, con l'aiuto di Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Adriano Olivetti[20]. La fuga avvenne con una traversata in motoscafo guidato da Italo Oxilia[21] da Savona verso la Corsica; gli altri componenti del gruppo furono comunque arrestati e processati al loro rientro in Italia e gli stessi Pertini e Turati furono condannati in contumacia a dieci mesi di arresto[22].
Dopo aver passato alcuni mesi a Parigi, si stabilì definitivamente a Nizza, mantenendosi con lavori diversi (dal manovale al muratore e fino alla comparsa cinematografica), e divenne un esponente di spicco tra gli esiliati, svolgendo attività di propaganda contro il regime fascista, con scritti e conferenze, nonché partecipando alle riunioni della "'Lega Italiana dei Diritti dell'Uomo" e a quelle della "Concentrazione Antifascista"[23].
Nell'aprile del 1926 impiantò, in un villino preso in affitto ad Eza, vicino Nizza, una stazione radio clandestina allo scopo di mantenersi in corrispondenza con i compagni in Italia, per potere comunicare e ricevere notizie; ottenne i fondi dalla vendita di una sua masseria in Italia. Scoperto dalla polizia francese, subì un procedimento penale e fu condannato a un mese di reclusione, pena poi sospesa con la condizionale, dietro il pagamento di un'ammenda[24].
Il suo esilio francese terminò nel marzo 1929, quando partì da Nizza e, munito di passaporto falso portante la sua fotografia ed intestato al nome del cittadino svizzero Luigi Roncaglia, varcò la frontiera dalla stazione di Chiasso il 26 marzo 1929 e rientrò in Italia.
Il suo scopo era quello di riorganizzare le file del partito socialista e stabilire contatti con gli altri partiti antifascisti, tra cui i democratici di "Nuova Libertà".In contatto con gli antifascisti della "Concentrazione", visitò Novara, Torino, Genova, La Spezia, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Bologna, Roma, Firenze e Napoli, ed alla fine, nelle relazioni inviate a Parigi, comunicò che era possibile potenziare la rete socialista. Conclusione diversa da quella pessimista di Fernando De Rosa, che aveva viaggiato attraverso la penisola prima di lui.[25]
 
Si recò in seguito a Milano per progettare un attentato alla vita di Mussolini, ed incontrò a questo scopo l'ingegner Vincenzo Calace che, come dichiarò in seguito, «gli confidò di essere in grado di costruire bombe a orologeria ad alto potenziale». Il progetto prevedeva di servirsi delle fognature sotto Palazzo Venezia, ma fu scartato poiché attraverso amici di Ernesto Rossi si scoprì che erano sorvegliate e protette da allarmi. Pertini tentò comunque di proseguire nel suo intento: incontrò a Roma il socialista Giuseppe Bruno per raccogliere informazioni e, una volta rientrato a Milano, fissò un incontro con Rossi.[26] Il 14 aprile 1929 andò a Pisa per incontrarlo ma, in corso Vittorio Emanuele (attuale corso Italia), fu riconosciuto per caso da un esponente fascista di Savona, tale Icardio Saroldi, e fu quindi arrestato da un piccolo gruppo di camicie nere[24][27][28].
 
Il 30 novembre 1929 fu condannato dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato a dieci anni e nove mesi di reclusione e a tre anni di vigilanza speciale, per aver «svolto all'estero attività tali da recare nocumento agl'interessi nazionali», nonché per «contraffazione di passaporto straniero»[23]. Durante il processo Pertini rifiutò di difendersi, non riconoscendo l'autorità di quel tribunale e considerandolo solo un'espressione di partito, esortando invece la corte a passare direttamente alla condanna già stabilita. Durante la pronuncia della sentenza si alzò gridando: «Abbasso il fascismo! Viva il socialismo!»[10].Fu internato nel carcere dell'isola di Santo Stefano, ma dopo poco più di un anno di detenzione, il 10 dicembre 1930, fu trasferito, a causa delle precarie condizioni di salute, alla casa penale di Turi. A causare il trasferimento non fu estranea una campagna di proteste e denunce all'estero, in particolare in Francia, dopo che alcune notizie sulla sua salute erano trapelate all'esterno, grazie ad alcuni compagni di carcere comunisti[31].
 A Turi, unico socialista recluso, condivise la cella con Athos Lisa e Giovanni Lai. Conobbe inoltre Antonio Gramsci, al quale fu stretto da grande amicizia e ammirazione intellettuale e dalla condivisione delle sofferenze della reclusione: ne divenne confidente, amico e sostenitore. Pertini stesso fu anche autore di diverse proteste e lettere finalizzate ad alleviare le condizioni carcerarie cui era sottoposto Gramsci[10].
 Nel novembre del 1931 fu trasferito presso il sanatorio giudiziario di Pianosa ma, nonostante il trasferimento, le sue condizioni di salute non migliorarono ancora, al punto che la madre presentò domanda di grazia alle autorità. Pertini, non riconoscendo l'autorità fascista e quindi il tribunale che lo aveva condannato, si dissociò pubblicamente dalla domanda di grazia con parole molto dure, sia per la madre che per il presidente del Tribunale Speciale[10][32].
 « Perché mamma, perché? Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna - quale smarrimento ti ha sorpresa, perché tu abbia potuto compiere un simile atto di debolezza? E mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso che tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo? Ma, dunque, ti sei improvvisamente così allontanata da me, da non intendere più l'amore, che io sento per la mia idea?[33] »
 Il 10 settembre 1935, dopo sei anni di prigione, venne trasferito a Ponza come confinato politico[34] e il 20 settembre 1940, pur avendo ormai scontato la sua condanna, giudicato «elemento pericolosissimo per l'ordine nazionale», venne riassegnato al confino per altri cinque anni da trascorrere a Ventotene[35] dove incontrò, tra gli altri, Altiero Spinelli, Umberto Terracini, Pietro Secchia ed Ernesto Rossi.
Nel 1938, gli fu dedicata la tessera del PSI, assieme a Rodolfo Morandi e a Antonio Pesenti, prigionieri anche loro nelle carceri fasciste
Riacquistò la libertà solo il 13 agosto 1943, pochi giorni dopo la caduta del fascismo. Inizialmente il provvedimento avrebbe dovuto escludere i confinati comunisti; Pertini si adoperò comunque per ottenere in breve tempo anche la loro liberazione[37][38].
Andò a far visita alla madre e poi ritornò subito a Roma, per contribuire alla ricostruzione del partito socialista e riprendere la lotta antifascista; il 23 agosto partecipò infatti alla fondazione del PSIUP dall'unione del PSI con il MUP, con Pietro Nenni come segretario[39]. Il 25 fu eletto con Carlo Andreoni vicesegretario, per occuparsi dell'organizzazione militare del partito a Roma. In seguito fece parte della giunta militare del CLN con Giorgio Amendola (PCI), Riccardo Bauer (PdA), Giuseppe Spataro (DC), Manlio Brosio (PLI) e Mario Cevolotto (DL).
Pochi giorni dopo l'8 settembre, partecipò ai combattimenti contro i tedeschi a Porta San Paolo per la difesa di Roma, insieme a Luigi Longo, Emilio Lussu e Giuliano Vassalli.

vedi immagini

da wikipedia    segue seconda parte

« Ultima modifica: 25 Febbraio 2013, 12:21:45 da StefanoG »

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #338 il: 25 Febbraio 2013, 11:53:35 »
segue dalla prima

Il 15 ottobre, nuovamente in clandestinità, venne tuttavia catturato dalle SS, assieme a Giuseppe Saragat, e condannato a morte per la sua attività partigiana, ma la sentenza non venne eseguita grazie all'azione dei partigiani delle Brigate Matteotti che, il 25 gennaio 1944, permise la loro fuga dal carcere di Regina Coeli. L'azione, dai connotati rocamboleschi, fu ideata e diretta da Giuliano Vassalli, che si trovava presso il tribunale militare italiano, con l'aiuto di diversi partigiani socialisti, tra cui Giuseppe Gracceva, Massimo Severo Giannini, Filippo Lupis, Ugo Gala e il medico del carcere Alfredo Monaco[40][41]. Si riuscì così prima a far passare Saragat e Pertini dal "braccio" tedesco a quello italiano e quindi a produrre degli ordini di scarcerazione falsi, redatti dallo stesso Vassalli, per la loro liberazione (a conferma dell'ordine arrivò anche una falsa telefonata dalla questura, fatta da Marcella Monaco, moglie di Alfredo Monaco[42]). I due furono dunque scarcerati insieme a Luigi Andreoni e a quattro ufficiali badogliani. Pertini stesso narrò in seguito questi fatti anche in un'intervista rilasciata ad Oriana Fallaci nel 1973, aggiungendo che dovette impuntarsi per far uscire insieme a lui e Saragat anche i badogliani e che quando Nenni lo seppe sbottò: «Ma fate uscire Peppino! Sandro il carcere lo conosce, c'è abituato».[14]
Dopo un sanguinoso attacco condotto il 10 marzo 1944 dai GAP contro una colonna fascista in via Tomacelli, gli altri partiti del CLN si congratularono con i comunisti per l'audace azione condotta nel cuore di Roma[43]. Il successo delle azioni partigiane dei mesi precedenti portò quindi alla comune decisione di colpire nuovamente e più duramente i nazifascisti. In questo contesto, scrisse in seguito Amendola, «Pertini, che mordeva il freno e che, nel suo ben noto patriottismo di partito, era geloso delle prove crescenti di capacità e di audacia date dai Gap, chiese che si concordasse un'azione armata unitaria».
Fu pertanto concordato un attacco contemporaneo contro il carcere di via Tasso e contro il corteo fascista previsto per il 23 marzo, anniversario della fondazione del Fascio. L'annullamento all'ultim'ora del corteo fascista[44] e il ritardo nel pianificare l'assalto a via Tasso indussero i GAP, guidati da Amendola[45], ad attuare comunque un'azione da essi pianificata autonomamente e prevista per il 21 marzo[46]. Di tale azione gli altri membri della giunta del CLN (tra cui lo stesso Pertini) non furono informati preventivamente per «ragioni di sicurezza cospirativa», secondo quanto dichiarato dallo stesso Amendola[47].
Il 23 marzo 1944 fu così eseguito l'Attentato di via Rasella, cui i tedeschi reagirono (appena 21 ore dopo, il 24) con l'eccidio delle Fosse Ardeatine.
 Tre giorni dopo, il 26 marzo, una volta nota l'entità dell'eccidio, la giunta militare del CLN fu sul punto di spaccarsi: Amendola voleva che il comitato approvasse ufficialmente l'azione, ma il democristiano Spataro si oppose e chiese al contrario di emanare un comunicato di dissociazione. Pertini, per motivi opposti, adirato protestò per non essere stato avvertito[48], essendo previste proprio per quel giorno, carico di significato politico, le suddette azioni comuni. A quel punto, a fronte di possibili ripercussioni sulla coesione del CLN[49][50], Pertini, Bauer e Brosio respinsero la proposta di Spataro, ma la giunta non accolse neanche la richiesta del rappresentante comunista[45][51].
 Per il suo ruolo di membro della giunta militare del CLN, nel 1948 Pertini fu chiamato a testimoniare, insieme a Bauer ed Amendola, al processo di Herbert Kappler (il responsabile della strage delle Fosse Ardeatine). Al processo i tre confermarono che l'attacco fu conforme alle disposizioni del CLN.[52]
 Nel 1977, Pertini ribadì in un'intervista sia la sua estraneità alla decisione di sferrare l'attacco, sia la sua adesione alla stessa una volta realizzata[53][54]:
« Le azioni contro i tedeschi erano coperte dal segreto cospirativo. L'azione di via Rasella fu fatta dai Gap comunisti. Naturalmente io non ne ero al corrente. L'ho però totalmente approvata quando ne venni a conoscenza. Il nemico doveva essere colpito dovunque si trovava. Questa era la legge della guerra partigiana. Perciò fui d'accordo, a posteriori, con la decisione che era partita da Giorgio Amendola. »
 Anche Riccardo Bauer, in alcuni scritti raccolti da Arturo Colombo nel 1997, dichiarò che l'obiettivo del CLN era «rendere impossibile la vita a tedeschi e fascisti dentro e fuori la città di Roma» e che quindi l'attacco «appare come episodio organico», e precisando che l'attentato venne «preparato e attuato dai comunisti senza specifico accordo con la Giunta Militare», ma che a fatto compiuto «tutti i rappresentanti del CLN furono concordi nel considerarlo "legittima azione di guerra"».[55]
 Tuttavia, nel 1994, quattro anni dopo la morte di Pertini, l'ex ministro Matteo Matteotti, figlio di Giacomo ed a quell'epoca partigiano socialista, dichiarò che dopo la liberazione Pertini gli disse che «non era stato favorevole ad un'azione militare di gappisti contro un reparto militare perché temeva che ci fossero delle rappresaglie sproporzionate rispetto all'efficacia dell'azione», e che in quell'occasione «prevalse la tesi di Giorgio Amendola, che era convinto della necessità di dare una dimostrazione di forza». Matteotti affermò inoltre che «Pertini era invece favorevole ad una manifestazione davanti al Messaggero contro la prospettiva che Roma diventasse teatro di guerra e voleva che il coraggio della gente si potesse manifestare con una chiara protesta contro le truppe occupanti, ma con l'intento di non arrivare ad uno scontro armato».[56] Ancora, nel 1997, Massimo Caprara, ex segretario personale del fondatore del PCI Palmiro Togliatti, dichiarò che oltre allo stesso Togliatti «anche Sandro Pertini si rifiutò di dare la sua solidarietà» a chi partecipò all'azione.[57]
Nel maggio del 1944, si diresse dunque a Milano con Guido Mazzali per partecipare attivamente alla Resistenza come membro della giunta militare centrale del CLNAI e con l'intento politico di riorganizzare il partito socialista e la propaganda clandestina nelle regioni settentrionali[10].
Assieme a Ugo La Malfa fu uno strenuo oppositore della svolta di Salerno rispetto alla pregiudiziale repubblicana.[58]
Nel luglio del 1944, dopo la liberazione di Roma, venne richiamato da Nenni al rientro nella capitale. Gli ordini erano di mettersi in contatto, a Genova, con il monarchico Edgardo Sogno che lo avrebbe messo in contatto con gli alleati per farlo rientrare a Roma con un volo dalla Corsica. La situazione tuttavia si complicò: arrivato a Genova non trovò l'imbarcazione per raggiungere la Corsica, quindi cercò di attivarsi con Sogno per una soluzione alternativa[59].
Pertini, che aveva dei contatti con i partigiani di La Spezia, partì con l'intento di trovare nella città ligure il mezzo adatto al viaggio. E così fu, ma occorreva aspettare qualche giorno. Tornò a Genova ma venne a sapere che Sogno aveva già trovato un motoscafo ed era partito con altre persone per la Corsica lasciandolo al suo destino. Pertini si trovò quindi abbandonato, in territorio occupato, con una condanna a morte pendente e, nella sua Liguria, facilmente riconoscibile, con l'ordine di rientrare a Roma. Decise di riparare nuovamente alla Spezia per cercare comunque di raggiungere la capitale: riuscì ad ottenere, da un industriale che riforniva i tedeschi, un lasciapassare per raggiungere Prato, dopodiché da solo raggiunse Firenze a piedi.[59]
A Firenze si mise in contatto con il professore Gaetano Pieraccini, nel suo studio di via Cavour, grazie al quale riuscì a trovare rifugio in via Ghibellina. L'11 agosto prese parte agli scontri per la liberazione della città, organizzando l'azione del partito socialista e la stampa delle prime copie dell'Avanti!.
Arrivato a Roma capì presto che la sua presenza era inutile e manifestò l'intenzione di tornare al nord, dove era il segretario del Partito Socialista per tutta l'Italia occupata e faceva parte del Comitato di Liberazione Nazionale per l'Alta Italia in rappresentanza del partito[60].
Gli furono forniti dei documenti falsi, una patente di guida a nome di Nicola Durano, e con un volo aereo venne trasferito da Napoli a Lione, poi a Digione e, una volta arrivato a Chamonix, entrò in contatto con la Resistenza francese. Il percorso di rientro fu previsto attraverso il Monte Bianco e fu condotto sul Col du Midi assieme a Cerilo Spinelli, il fratello di Altiero, con una teleferica portamerci, per poi intraprendere l'attraversata del Mer de Glace e prendere contatto con i partigiani valdostani, grazie all'aiuto del campione francese di sci Émile Allais. Arrivò ad Aosta e poi ad Ivrea, evitando pattuglie e posti di blocco dei tedeschi, fino a Torino e quindi a Milano[61].
Il 29 marzo del 1945 costituì, con Leo Valiani per il Partito d'Azione ed Emilio Sereni per il PCI (supplente di Luigi Longo), un comitato militare insurrezionale in seno al CLNAI con lo scopo di preparare l'insurrezione di Milano e l'occupazione della città. Il 25 aprile 1945 fu lo stesso Pertini a proclamare alla radio[62] lo sciopero generale insurrezionale della città:
« Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire. »
Alle 8 del mattino del 25 aprile, il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia si riunì presso il collegio dei Salesiani in via Copernico a Milano. L'esecutivo, presieduto da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani (presenti tra gli altri anche Rodolfo Morandi – che venne designato presidente del CLNAI –, Giustino Arpesani e Achille Marazza), proclamò ufficialmente l'insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti[63] (tra cui ovviamente Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato tre giorni dopo). Il decreto, trasmesso via radio, recitava:
« I membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo colpevoli di aver soppresso le garanzie costituzionali e di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del Paese e di averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi con l'ergastolo. »
(Decreto del CLNAI, 25 aprile 1945)
Tale risoluzione era però in conflitto con l'articolo 29 dell'armistizio di Cassibile, secondo il quale Mussolini avrebbe dovuto essere consegnato agli Alleati:
« Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite. Tutti gli ordini impartiti dalle Nazioni Unite a questo riguardo verranno osservati.
Quello stesso giorno, presso l'arcivescovado di Milano, ci fu comunque un tentativo di mediazione richiesto da Mussolini e favorito dal cardinale Ildefonso Schuster. Don Giuseppe Bicchierai, segretario dell'arcivescovo, si curò di contattare il CLNAI; alla riunione con Mussolini (con lui, tra gli altri, Rodolfo Graziani e Carlo Tiengo), nel primo pomeriggio, parteciparono inizialmente Raffaele Cadorna (comandante del Corpo volontari della libertà), Riccardo Lombardi, Giustino Arpesani e Achille Marazza. Pertini non fu rintracciato in quanto era impegnato in un comizio nella fabbrica insorta della Borletti[65][66]. Nel colloquio cominciò a palesarsi la possibilità di un accordo: il CLNAI avrebbe accettato la resa, garantendo la vita ai fascisti, considerando Mussolini prigioniero di guerra e quindi consegnandolo agli Alleati[67]. Ad un certo punto però giunse la notizia che i tedeschi avevano già avviato trattative con gli alleati anglo-americani: Mussolini adirato disse di essere stato tradito dai tedeschi e abbandonò la riunione, con la promessa di comunicare entro un'ora le sue intenzioni.[68] In quegli istanti giunsero alla spicciolata Sandro Pertini, Leo Valiani ed Emilio Sereni, del comitato militare insurrezionale del CLNAI. Pertini, armato di pistola, incrociò sulle scale, per la prima e unica volta, Mussolini che scendeva, ma non lo riconobbe; in seguito scrisse sull'Avanti!: «lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia livida, distrutto».[69] Anni dopo, sulle colonne dello stesso giornale, dichiarò: «Se lo avessi riconosciuto lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella».[66]
Giunto nella sala dell'arcivescovado, si ebbe tra Pertini (appoggiato da Sereni) e gli altri un veemente scambio di battute: Pertini chiese alla delegazione perché non avessero arrestato subito Mussolini[68]; richiese inoltre che Mussolini, una volta arresosi al CLNAI, fosse consegnato ad un tribunale del popolo e non agli alleati[67]. Carlo Tiengo, che era rimasto in arcivescovado, a questo punto telefonò a Mussolini comunicandogli le intenzioni dei due delegati del PSIUP e del PCI; ottenuta la risposta comunicò ai delegati e all'arcivescovo il rifiuto ad arrendersi di Mussolini[67], che la sera stessa partì in direzione del Lago di Como.
Pertini associò sempre in massima parte a quell'intervento all'arcivescovado la causa del fallimento della trattativa e la conseguente morte del Duce. In particolare, nel 1965 scrisse:
« Da tutto questo appare chiaro che il mio intervento presso il cardinale (intervento appoggiato solo dal compagno Emilio Sereni, ma con molta energia) spinse Mussolini a non arrendersi. E soprattutto appare chiaro che se la sera del 25 aprile il compagno Sereni ed io non fossimo andati all'arcivescovado e se quindi Mussolini si fosse arreso al CLNAI sarebbe stato consegnato al colonnello inglese Max Salvado[70], il che voleva dire consegnarlo di fatto agli alleati (ed oggi sarebbe qui, a Montecitorio...)
Tuttavia, secondo altre fonti, tale evento non avrebbe avuto un'influenza decisiva su una decisione (quella della partenza), di fatto già stabilita[72].
 Il giorno dopo Pertini tenne un comizio in Piazza Duomo e poco dopo, a Radio Milano Libera, annunciò la vittoria dell'insurrezione e l'imminente fine della guerra. Il 27 aprile, fortemente convinto della necessità di condannare a morte il capo del fascismo, arrestato a Dongo il giorno precedente, disse alla radio:
 « Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera, è stato arrestato. Egli dovrà essere consegnato ad un tribunale del popolo, perché lo giudichi per direttissima. E per tutte le vittime del fascismo e per il popolo italiano dal fascismo gettato in tanta rovina egli dovrà essere e sarà giustiziato. Questo noi vogliamo, nonostante che pensiamo che per quest'uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore. Egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso.[73] »
 Il 28 aprile Mussolini fu fucilato ed il giorno dopo il suo cadavere, insieme a quello della sua compagna Claretta Petacci ed a quelli di altri gerarchi del regime sconfitto, fu esposto all'odio della folla a Piazzale Loreto. Pertini commentò: «L'insurrezione si è disonorata».[74]
In seguito, riguardo alle vicende finali della vita del dittatore, scrisse sulle colonne dell'Avanti!:
 « Mussolini si comportò come un vigliacco, senza un gesto, senza una parola di fierezza. Presentendo l'insurrezione si era rivolto al cardinale arcivescovo di Milano chiedendo di potersi ritirare in Valtellina con tremila dei suoi. Ai partigiani che lo arrestarono offrì un impero, che non aveva. Ancora all'ultimo momento piativa di aver salva la vita per parlare alla radio e denunciare Hitler che, a suo parere, lo aveva tradito nove volte.[69] »
In ottemperanza al decreto del CLN, ordinò inoltre la fucilazione del maresciallo Rodolfo Graziani al partigiano Corrado Bonfantini, comandante della Brigata Matteotti che lo arrestò il 28 aprile. Bonfantini si adoperò invece per salvare la vita al generale fascista, che il giorno dopo si consegnò agli alleati.
Gli ultimi scontri nella città si sarebbero conclusi solo il 30 aprile.[76] Per le sue attività durante la Resistenza, e in particolare per la difesa di Roma e le insurrezioni di Firenze e di Milano, verrà insignito della medaglia d'oro al valor militare.
 
Secondo Pertini, le emozioni provate durante la Liberazione di Milano furono un'esperienza che confermarono la sua idea della «capacità del popolo italiano di compiere le più grandi cose qualora fosse animato dal soffio della libertà e del socialismo»[69]. Tuttavia, come spesso egli ricordava malinconicamente, mentre il 25 aprile partecipava alla festa per l'avvenuta liberazione, suo fratello minore Eugenio veniva assassinato nel campo di concentramento di Flossenbürg[16].
 
Il partigiano Giuseppe Marozin, detto "Vero", ha scritto nelle sue memorie che sarebbe stato Pertini ad ordinargli la fucilazione dei famosi attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, avvenuta il 30 aprile in via Poliziano a Milano.[77] I due avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana; Valenti era un ufficiale della Xª Flottiglia MAS, ed erano entrambi accusati di aver partecipato alle azioni del gruppo di torturatori conosciuto come "Banda Koch". Secondo la ricostruzione dello scrittore Odoardo Reggiani, basata sulle dichiarazioni di Marozin al processo, Pertini avrebbe chiesto al partigiano: «A proposito, tu hai prigioniero anche Valenti?», ed alla sua risposta: «Sì, ho preso anche la Ferida. Li ho messi un poco fuori Milano, in un posto sicuro», avrebbe ordinato: «Allora fucilali; e non perdere tempo. Questo è l'ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene».[78][79][80]
 
L'8 giugno 1946 sposò la giornalista e staffetta partigiana Carla Voltolina, conosciuta pochi mesi prima, a Torino, dopo il passaggio del Monte Bianco per rientrare a Milano.

vedi immagini
da wikipedia ...segue terza parte

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #339 il: 25 Febbraio 2013, 12:20:43 »
segue dalla seconda :

Il Dopoguerra :
Nell'agosto del 1945 Pertini divenne segretario del PSIUP, carica che ricoprì fino al dicembre dello stesso anno.
Nelle file socialiste fu quindi eletto all'Assemblea Costituente[81] in cui intervenne nella stesura degli articoli del Titolo I, sui rapporti civili.
Appoggiò inoltre il lavoro delle commissioni di epurazione e fu subito decisamente avverso all'attuazione dell'amnistia voluta da Togliatti nei confronti dei reati politici commessi dai responsabili dei crimini fascisti[82][83]; in tal senso, durante i lavori dell'assemblea, intervenne il 22 luglio 1946 con un'interrogazione parlamentare nei confronti del ministro di Grazia e Giustizia Fausto Gullo, che verteva sulle motivazioni dell'interpretazione largheggiante del provvedimento di amnistia, sull'inadempimento del governo De Gasperi nell'applicare il decreto di reintegro dei lavoratori antifascisti allontanati dal lavoro per motivi politici durante il regime, sull'emanazione di provvedimenti atti a difendere la Repubblica contro i suoi nemici[84]. Il suo intervento si concluse con alcune parole molto dure nei confronti del provvedimento e del governo:
« Ricordiamo che l'epurazione è mancata: si disse che si doveva colpire in alto e non in basso, ma praticamente non si è colpito né in alto né in basso. Vediamo ora lo spettacolo di questa amnistia che raggiunge lo scopo contrario a quello per cui era stata emanata: pensiamo, quindi, che verrà un giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo e costituirà colpa essere stati in carcere e al confino per questo.[84] »
La sua azione politica in quel periodo mirava anche al raggiungimento delle riforme sociali necessarie al recupero del paese, devastato sia dall'esperienza fascista, sia dalle tragedie della guerra, ma soprattutto al tentativo di eliminare radicalmente qualsiasi possibile rigurgito del regime mussoliniano.[85]
Durante il XXV Congresso del Partito Socialista di Unità Proletaria, svoltosi a Roma tra il 9 ed il 13 gennaio 1947, Pertini cercò di evitare la scissione con l'ala democratico-riformista di Giuseppe Saragat. Per giorni si pose al centro delle dispute nel tentativo di mediare tra le due correnti ma nonostante i suoi sforzi «la forza delle cose», come la definì Pietro Nenni, portò alla scissione socialista, meglio nota come "scissione di palazzo Barberini", da cui nacque il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
Nonostante fosse fautore dell'unità del movimento dei lavoratori e dell'"unità d'azione" con il Partito Comunista Italiano, tuttavia era anche un fervido sostenitore dell'autonomia socialista nei confronti del PCI. In tal senso si oppose, in seno al Partito Socialista Italiano (nato dalle ceneri del PSIUP dopo la scissione di Palazzo Barberini), alla presentazione di liste unitarie e alla costituzione del Fronte Democratico Popolare per le elezioni del 1948. Al XXVI Congresso di Roma del 19-22 gennaio 1948 la sua mozione fu tuttavia minoritaria: al prevalere della linea di Nenni, si adeguò alla maggioranza[8].
Pertini rientrò nella direzione nazionale del partito con XXVIII Congresso di Firenze del maggio 1949, divenendo anche, dal 1955 nuovamente vicesegretario. Sarebbe rimasto nella direzione fino al 1957 quando, al XXXII Congresso di Venezia, anche in seguito alla invasione sovietica dell'Ungheria, venne interrotta la collaborazione con il PCI.
Nella I legislatura, fu nominato senatore della Repubblica, in ossequio alla 3ª disposizione transitoria e finale della Costituzione, e divenne presidente del gruppo parlamentare socialista al Senato. Il 27 marzo 1949, durante la 583ª seduta del Senato, Pertini dichiarò il voto contrario del suo partito all'adesione al Patto Atlantico, perché inteso come uno strumento di guerra e in funzione antisovietica nell'intento di dividere l'Europa e di scavare un solco sempre più profondo per separare il continente europeo.Nel 1953, alla morte di Stalin, il suo intervento, in qualità di presidente del gruppo senatoriale socialista, celebrò il capo dell'URSS.
« Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L'ultima sua parola è stata di pace. [...] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura che la morte pone nella sua giusta luce. Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto.[88] »
Fu successivamente eletto alla Camera dei deputati nel 1953, e poi ancora nel 1958, 1963, 1968, 1972 e nel 1976, nel collegio Genova-Imperia-La Spezia-Savona, per divenire presidente prima della Commissione Parlamentare per gli Affari Interni e poi di quella degli Affari Costituzionali, e nel 1963 vicepresidente della Camera dei deputati.Fu tra i politici che protestarono pubblicamente riguardo alla possibilità che si tenesse il congresso del Movimento Sociale Italiano nella città di Genova ed il 1º luglio 1960, denunciò alla Camera i soprusi delle forze dell'ordine nei confronti dei manifestanti, sia nel capoluogo ligure, sia in altre città d'Italia. I disordini portano pochi giorni dopo ai tragici fatti della Strage di Reggio Emilia.
Per dare un esempio del suo attaccamento ai valori della Resistenza e dell'antifascismo, va ricordato un episodio avvenuto poco dopo la strage di Piazza Fontana, quando Pertini, Presidente della Camera dei deputati, si recò a Milano in visita ufficiale e, incontrando l'allora questore Marcello Guida, si rifiutò pubblicamente di stringergli la mano, ricordando l'attività di Guida come direttore del confino di Ventotene nel ventennio fascista[10], con un gesto che ruppe il protocollo e che ebbe un forte rilievo mediatico. Tuttavia, pochi anni dopo, lo stesso Pertini, intervistato da Oriana Fallaci, aggiunse che a determinare quel gesto non fu estraneo il fatto che su Guida «gravava l'ombra della morte» dell'anarchico Giuseppe Pinelli[14], avvenuta appunto quando Guida era questore di Milano.
Politicamente fu tra coloro che non sostennero il centro-sinistra perché attraverso quell'accordo si sarebbero discriminati i comunisti, mettendo fine alla collaborazione tra i due principali partiti della sinistra. Ricostruì anzi in questa chiave (retrospettivamente, in una celebre intervista a Gianni Bisiach) le vicende del negoziato all'Arcivescovado che il CLNAI aveva tenuto con il cardinale Schuster per la fuga di Mussolini da Milano, prima del 25 aprile 1945: a suo dire si oppose al negoziato con l'argomento formale che il PCI di Longo non era stato invitato ai colloqui.
Pertini, peraltro, non costituì mai nel PSI una propria corrente e vantava rapporti travagliati (quando non pessimi) con quasi tutti gli esponenti socialisti (disse di lui il compagno di partito Riccardo Lombardi: «cuore di leone, cervello di gallina»[89]).
Fu inoltre direttore de L'Avanti dal 1946 al 1947 e dal 1949 al 1951. Dall'aprile del 1947 al giugno del 1968 fu anche direttore del quotidiano genovese Il Lavoro.
Nella V e VI Legislatura, ricoprì l'incarico di Presidente della Camera dei deputati, risultando il primo uomo politico non democristiano e di sinistra a ricoprire tale incarico. Durante l'elezione del Capo dello Stato del 1971, che si protraeva per molti scrutini senza alcun esito, da Presidente del Parlamento in seduta comune vietò il controllo del voto imposto dai notabili democristiani che pretendevano che i singoli parlamentari dc mostrassero la scheda bianca prima del suo deposito nell'urna: l'iniziativa, a salvaguardia della segretezza del voto, nell'immediato determinò una sollecitazione decisiva per lo scioglimento dei nodi politici che produssero l'elezione di Giovanni Leone, ma a lungo termine gli guadagnò la stima dell'opinione pubblica come Presidente d'Assemblea che svolgeva il suo compito in modo non notarile.
Il 10 marzo 1974, la Domenica del Corriere pubblicò un'intervista rilasciata da Pertini a Nantes Salvalaggio. In risposta a chi lo accusava di essere un po' squilibrato, Pertini rispondeva:
" Non mi meraviglia niente. So che il mio modo di fare può essere irritante. Per esempio, poco tempo fa mi sono rifiutato di firmare il decreto di aumento di indennità ai deputati. Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall'inflazione... voi date quest'esempio d'insensibilità? Io deploro l'iniziativa, ho detto. Ma ho subito aggiunto che, entro un'ora, potevano eleggere un altro presidente della Camera. Siete seicentoquaranta. Ne trovate subito seicentocinquanta che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo.[90] »
Nella primavera del 1978, durante il sequestro Moro, Pertini, a differenza della maggioranza del partito socialista, fu un sostenitore della cosiddetta «linea della fermezza» nei confronti dei sequestratori, ovvero il rifiuto totale della trattativa con le Brigate Rosse.L'elezione del settimo presidente della Repubblica iniziò il 29 giugno 1978 a seguito delle dimissioni di Giovanni Leone. Nei primi tre scrutini la DC optò per Guido Gonella e il PCI votò in modo pressoché unanime il proprio candidato, Giorgio Amendola, mentre l'ala parlamentare socialista concentrò i propri voti su Pietro Nenni. Fino al 13º scrutinio il PCI mantenne la candidatura di Amendola e il PSI propose Francesco De Martino, senza trovare consensi, ma al 16º scrutinio, l'8 luglio 1978, la convergenza dei tre maggiori partiti politici si trovò sul nome di Pertini, che fu eletto presidente della Repubblica Italiana con 832 voti su 995, a tutt'oggi la più ampia maggioranza nella votazione presidenziale nella storia italiana.
La sua elezione apparve subito un importante segno di cambiamento per il Paese, grazie al carisma e alla fiducia che esprimeva la sua figura di eroico combattente antifascista e padre fondatore della repubblica, in un Paese ancora scosso dalla vicenda del sequestro Moro.
Nel 1979 diede l'incarico (senza successo) di formare il governo a Bettino Craxi, suscitando scalpore negli ambienti politici e preparando così il terreno per il primo governo a guida socialista della Repubblica. Pertini fu comunque il primo presidente della Repubblica a conferire l'incarico di formare il governo ad una personalità non democristiana, Giovanni Spadolini, il quale presentò il Governo Spadolini I il 28 giugno 1981.La presidenza di Pertini favorì l'ascesa del primo socialista italiano alla guida di un governo. Già nel 1979 il presidente aveva dato un incarico (senza successo) a Bettino Craxi. Nel 1983, diede nuovamente l'incarico di formare il governo a Craxi, che stavolta realizzò l'intento di Pertini. Per due anni e per la prima volta nella storia d'Italia, furono socialisti sia il presidente della Repubblica, sia il presidente del Consiglio dei ministri. Ciò nonostante, Pertini ebbe con Craxi rapporti altalenanti, dovuti essenzialmente alla diversa formazione e temperamento. Pertini spesso non condivise le mosse politiche craxiane, come nel caso del XLIII Congresso a Verona, il 15 maggio 1984, in cui Bettino Craxi venne eletto segretario per acclamazione anziché con la consueta votazione. I rapporti tra i due politici comunque si mantennero su un piano di cordialità e rispetto, nonostante non si amassero. Antonio Ghirelli, allora portavoce del Quirinale, riporta che Pertini, il giorno in cui doveva conferire a Craxi l'incarico di presidente del Consiglio, notò che il segretario socialista si era presentato al Colle indossando dei jeans e gli intimò di ritornare con un abbigliamento adeguato.[104]
 Pertini mantenne comunque un forte senso dell'appartenenza al partito di cui Craxi era segretario. Racconta Lelio Lagorio, a proposito del secondo incarico a Craxi, che «al termine della legislatura 1979-83 il presidente non faceva che dirci: "Voi socialisti cercate di guadagnare voti alle elezioni ed io vi affido il governo". Fu così».
 Durante il suo mandato sciolse due volte il Parlamento, convocando le elezioni politiche italiane del 1979 che diedero vita alla VIII Legislatura e le elezioni politiche del 1983 che diedero vita alla IX Legislatura; diede l'incarico (in ordine cronologico) di formare i governi Andreotti V, Cossiga I, Cossiga II, Forlani, Spadolini I, Spadolini II, Fanfani V e Craxi I e nominò giudici costituzionali Virgilio Andrioli, Giuseppe Ferrari e Giovanni Conso.
 Nominò inoltre cinque senatori a vita: il politico e storico Leo Valiani, l'attore e commediografo Eduardo De Filippo, la politica ed ex-partigiana Camilla Ravera (prima donna a ricevere questa nomina), il critico letterario e rettore Carlo Bo ed il filosofo Norberto Bobbio. Con queste nomine i senatori a vita diventarono complessivamente sette
Durante e dopo il periodo presidenziale non rinnovò la tessera del Partito Socialista, al fine di presentarsi al di sopra delle parti, pur senza rinnegare il suo essere socialista; del resto, anche durante il mandato aveva difeso la bandiera del socialismo italiano, intervenendo con un commento autorizzato nella cosiddetta "lite delle comari" del governo Spadolini. Indipendente dal ruolo istituzionale che aveva ricoperto e legato piuttosto a un senso di reciproca lealtà democratica appare invece l'episodio che lo vide, nel 1988, visitare la camera ardente di Giorgio Almirante.Il 23 marzo 1987 fu colto da un malore durante i funerali del generale Licio Giorgieri, che era stato assassinato dalle Brigate Rosse, e fu ricoverato al Policlinico Umberto I; in quella occasione ricevette anche la visita del papa Giovanni Paolo II, al quale era legato da lunga amicizia[113], ma questi poté solo vederlo di sfuggita, poiché gli fu impedito dai medici, in quanto Pertini risultava sedato e non ancora fuori pericolo[114].
 Pertini si rimise completamente ma, la notte del 24 febbraio 1990, all'età di 93 anni, si spense per una complicazione in seguito ad una caduta di pochi giorni prima, a Roma nel suo appartamento privato, in una mansarda affacciata sulla Fontana di Trevi. Per suo espresso desiderio, il suo corpo fu cremato e le ceneri traslate nel cimitero del suo paese natale, San Giovanni.
 Pertini si era sempre dichiarato ateo; nonostante ciò, nel suo studio al Quirinale aveva sempre tenuto un crocifisso: sosteneva infatti di ammirare la figura di Gesù come uomo che ha sostenuto le sue idee a costo della morte.[115] In anni più recenti, un libro di Arturo Mari del 2007, fotografo pontificio, cercò di avvalorare la tesi che Pertini volesse convertirsi in punto di morte e che chiamò il Papa, cui fu impedito di entrare nella stanza di ospedale[116]. Tale circostanza però fu fermamente smentita dalla "Fondazione Sandro Pertini", che fornì all'emittente La7 alcune registrazioni di telefonate tra la moglie Carla Voltolina e il Papa del febbraio 1990 e rilevando come non ci fu nell'occasione alcun ricovero in ospedale, e indicando infine come la circostanza riportata fosse in realtà relativa alla visita del 1987[117].
 
Il suo appartamento, dopo la morte della moglie Carla nel 2005, non è più stato riaffittato ed è rimasto intatto.
Il giornalista Indro Montanelli, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 27 ottobre 1963, scrisse: «Non è necessario essere socialisti per amare e stimare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità.»[119] Tuttavia lo stesso Montanelli, rispondendo alla lettera di un lettore sul Corriere del 16 giugno 1997, scrisse un articolo critico sulla figura del defunto presidente dal titolo "Pertini? Sono altri i grandi d'Italia".Pertini fu tra i presidenti che scelsero di non abitare nel Palazzo del Quirinale, e mantenne la propria residenza nel suo appartamento romano, secondo lo stesso Pertini per espresso desiderio della moglie. Visse infatti per molti anni in una mansarda di 35 m2 che s'affaccia sulla fontana di Trevi. Gli abitanti del quartiere lo incontravano spesso, quando ogni mattina l'auto di servizio andava a prenderlo per condurlo "in ufficio" al Quirinale senza grandi apparati di sicurezza; per chi lo riconosceva e lo salutava, soprattutto i bambini, il Presidente aveva sempre un sorriso e un gesto di saluto.Era inoltre solito trascorrere le sue vacanze estive a Selva di Val Gardena, alloggiando nella locale caserma dei carabinieri, per non disturbare la cittadinanza con ulteriori misure di sicurezza durante la sua permanenza. Nella vicina Val di Fassa, nel comune di Campitello è stato costruito nel 1986 il "Rifugio Sandro Pertini", nel nome dell'amicizia che legava il Presidente e il gestore del rifugio.La sua costante presenza nei momenti cruciali della vita pubblica italiana, nelle situazioni piacevoli come nei momenti difficili, è stata probabilmente uno dei motivi della sua grande popolarità. Spesso è stato definito come il "presidente più amato dagli italiani"[2][3][4], ricordato per l'amore verso l'Italia, per il suo carisma, per il suo modo di fare schietto e ironico, per l'onestà, per l'amore verso i bambini (a cui prestava molta attenzione durante le visite giornaliere delle scolaresche al Quirinale) e per aver inaugurato un nuovo modo di rapportarsi con i cittadini, con uno stile diretto e amichevole («amici carissimi, non fate solo domande pertinenti, ma anche impertinenti: io mi chiamo Pertini... »). La schiettezza e la pragmaticità di Pertini si riflesse inoltre anche nella sua azione politica ed istituzionale, facendolo apparire come un presidente che puntava alla concretezza, rifiutando compromessi e imponendosi con il suo rigore morale.

da wikipedia
seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #340 il: 25 Febbraio 2013, 12:24:01 »
immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #341 il: 25 Febbraio 2013, 13:46:32 »
EDOARDO AMALDI

Edoardo Amaldi (Carpaneto Piacentino, 5 settembre 1908 – Roma, 5 dicembre 1989 - 81 anni )

..................................................... è stato un fisico italiano attivo nel campo della fisica nucleare.


Figlio del matematico Ugo e di Luisa Basini, sposò nel 1933 Ginestra Giovene.
Edoardo fece parte dei Ragazzi di via Panisperna, il gruppo di studio che, capitanato da Enrico Fermi, ottenne risultati fondamentali nella fisica del nucleo, coronati nel 1938 dall'assegnazione del premio Nobel a Fermi.
 
Nella fisica delle particelle, diede fondamentali contributi alla determinazione delle caratteristiche dei costituenti della radiazione cosmica e allo studio degli elementi subatomici della materia, promuovendo la realizzazione dei primi acceleratori di particelle in Italia nel secondo dopoguerra (elettrosincrotrone di Frascati).
 
Oltre alla fisica nucleare e delle particelle, Amaldi apportò avanzati studi sui fenomeni magnetici, elaborando la teoria dei monopoli magnetici e delle onde gravitazionali.
 
Contribuì in prima persona alla creazione dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), del Centro Europeo di Ricerche Nucleari (CERN) di Ginevra e dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Fu segretario generale del CERN negli anni 1952-1954, Presidente dell'INFN e Presidente dell'Accademia nazionale dei Lincei.
 
Ha ricoperto per oltre 40 anni la cattedra di Fisica sperimentale all'Università la Sapienza di Roma.
 
Per i suoi contributi in tale disciplina è considerato una delle figure preminenti della fisica italiana nella seconda metà del XX secolo.
 
Edoardo Amaldi è stato anche un affermato benefattore e operatore umanitario con la sua adesione al Pugwash Conferences on Science and World Affairs, movimento per lo smantellamento delle armi nucleari e all’ISODARCO (International School on Disarmament and Research on Conflicts).
 
Edoardo Amaldi è il padre del fisico Ugo e del biologo molecolare Francesco.

da wikipedia
segue immagine
« Ultima modifica: 25 Febbraio 2013, 13:57:13 da StefanoG »

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #342 il: 25 Febbraio 2013, 13:55:37 »
RICHARD TOLMAN

Richard Chace Tolman (West Newton, 4 marzo 1881 – Pasadena, 5 settembre 1948 - 67 anni )

............................................................. è stato un fisico, matematico e chimico statunitense.


Fu considerato un'autorità nella meccanica statistica e diede un contributo importante allo sviluppo nella nascente cosmologia.
Era professore di chimica fisica e fisica matematica al California Institute of Technology.
 
Nato a West Newton, nel Massachusetts, fratello maggiore dello psicologo Edward Tolman, Richard Tolman studiò ingegneria chimica al Massachusetts Institute of Technology, ricevendo il bachelor's degree nel 1903 e il Doctor of Philosophy (dottorato di ricerca) nel 1910.
 
Nel 1912, due anni dopo aver terminato la scuola, Tolman, più o meno distintamente, coniò il concetto di massa relativistica, affermando: “l'espressione m0(1 − v2/c2)−1/2 è la più adatta per la massa di un corpo in movimento”.
 
Tolman si iscrisse al California Institute of Technology nel 1922, dove divenne professore di chimica fisica e fisica matematica, e successivamente decano della facoltà universitaria. Un precoce studente della facoltà era lo statunitense Linus Pauling, al quale egli spiegò l'equazione di Schrödinger e la meccanica quantistica. A quell'epoca Tolman era un membro della Technical Alliance.
 
Come esperto di meccanica statistica, Tolman scrisse un libro nel 1927 nel quale criticò l'ambiente scientifico ancora legato alla vecchia teoria quantica. A questo seguì, nel 1938, un'opera completamente nuova, la quale includeva i dettagli dell'applicazione della meccanica statistica sia al sistema classico sia al sistema quantico. Quest'opera divenne la più utilizzata nel campo per diversi anni, ed è ancora oggi oggetto di studio. Tolman inoltre divenne incredibilmente interessato nelle applicazioni dei sistemi relativistici alla termodinamica e alla cosmologia. I suoi studi in questo campo inclusero indagini sull'ipotesi dell'universo oscillante; inoltre nel 1934 dimostrò che le radiazioni di un corpo nero in un universo in espansione si raffreddano ma rimangono termiche - un risultato vitale per le proprietà della radiazione cosmica di fondo.
 
Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come consigliere scientifico del generale Leslie Groves sul Progetto Manhattan, e al tempo della sua morte era capo consigliere di Bernard Baruch, il rappresentante statunitense alla Commissione delle Nazioni Unite per l'Energia Atomica.
 
Ogni anno la Tolman Medal, chiamata così in onore di Richard Tolman, è consegnata dalla sezione della California della American Chemical Society «in riconoscimento di eccezionali contributi alla chimica».

da wikipedia

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #343 il: 25 Febbraio 2013, 14:05:19 »
FREDERICK HEDGES

Frederick Albert Mitchell-Hedges conosciuto anche come Mike Hedges (22 ottobre 1882 – giugno 1959 - 76 anni )

....................................................................è stato un avventuriero e scrittore inglese.


Mitchell-Hedges ha trascorso diversi anni della sua vita viaggiando tra America Centrale, Regno Unito, Sudafrica e Stati Uniti. Alcune fonti affermano che sia stato un agente segreto britannico, mentre altre sostengono che fosse un benestante che viaggiava per passione. Alcune delle sue “spedizioni” in America Centrale furono finanziate dalla borghesia Britannica. Per un periodo fu finanziato dal Daily Mail. Fu appoggiato anche dal British Museum a cui donò numerosi reperti.
 
Mitchell-Hedges dichiarò ripetutamente di aver scoperto diverse tribù indiane e “città scomparse” la cui esistenza era già documentata da anni ed in alcuni casi da secoli. Affermò inoltre di aver scoperto la “culla della civiltà” sulla Costa dei Miskito del Nicaragua e che le Bay Islands in Honduras, sono le rovine della civiltà perduta di Atlantide.
 
Nel 1906 sposò Lillian Agnes Clarke, conosciuta come "Dolly". La coppia non ebbe figli, ma adottò una bambina canadese, Marie Guillon, oggi conosciuta come Anna Mitchell-Hedges.
 
Negli anni Trenta ha condotto uno show radiofonico settimanale, in onda a New York la domenica sera. Durante lo show, Mitchell-Hedges raccontava le sue avventure: fughe dalla morte nelle mani di indigeni o tra le grinfie di pericolosi animali come giaguari o iguana.
 
Durante una spedizione negli anni Venti in Honduras, tra le rovine Maya di Lubaantún (città che dichiarò di aver scoperto lui stesso), Mitchell-Hedges scoprì il Teschio di cristallo, conosciuto in un primo momento come “teschio della rovina, ma in seguito ribattezzato Teschio dell’Amore. Non fece menzione della scoperta fino agli anni Quaranta, non molto tempo dopo che un altro teschio di cristallo fu messo all’asta da Sydney Burney per conto della Sotheby’s, nel 1943.
Un consistente corpo di scritti legati alle culture popolari e mitologie New Age ruota attorno ai racconti del Teschio di Cristallo “Mitichell-Hedges”, al punto da rendere famoso il suo scopritore fino ai giorni d'oggi.[1]
 
Il Teschio di Cristallo è rimasto nelle mani della figlia adottiva di Mitchell-Hedges, Anna, fino alla sua morte, l'11 aprile 2007, all'età di 100 anni. Durante questi anni la donna ha più volte esibito pubblicamente il teschio, ponendo l'accento sui suoi presunti e indimostrati poteri e la sua misteriosa origine. Anche dopo la morte di Anna, il teschio di cristallo continua a essere esibito e ammirato.[1] Il proprietario attuale è Bill Homann.
 
La realizzazione nel 2008 del film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo ha ravvivato la coscienza pubblica attorno alla mitologia legata al teschio e al suo scopritore, F. A. Mitchell-Hedges. Proprio lui è stato uno di modelli d’ispirazione per creare il personaggio di Indiana Jones.

da wikipedia

seguono immagini

Offline StefanoG

  • Cavaliere di San Dunillo
  • *****
  • Post: 2241
    • Mostra profilo
    • E-mail
Re:Il fumatore di pipa
« Risposta #344 il: 25 Febbraio 2013, 14:07:48 »
altre immagini