Autore Topic: Autori con la pipa in bocca  (Letto 364491 volte)

Offline Aqualong

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #180 il: 07 Ottobre 2007, 00:18:19 »
Pipe fantastiche
Questo pezzo ci dice che in un lontano futuro,ci sarà ancora chi fuma la pipa e chi è schifato dal fumo.

Gordon R. Dickson
1 novembre 1923 – 31 gennaio 2001

Nato in Canada, si trasferì a Minneapolis, Minnesota, all'età di 13 anni. Le sua opere più celebri sono il ciclo fantascientifico dei Dorsai e la serie del Cavaliere del drago. Nella sua carriera vinse tre premi Hugo.

Sul Pianeta Degli Orsi

L'Estremamente Onorevole Joshua Guy, Ambasciatore Plenipotenziario su Dilbia, stava fumando tabacco con la pipa: abitudine vecchiotta e volga-re per un gentiluomo tanto conservatore e rispettato. I fumi della pipa fa-cevano tossire John Tardy, gli toglievano il fiato. O, forse, erano i fumi combinati con ciò che l'Estr. On. Josh Guy gli aveva appena detto.
«Signore?», ansimò John Tardy.
«Chiedo scusa», disse il diplomatico, piccolo e arzillo. «Credevo che avessi già capito». Picchiettò la sua maledetta pipa su un posacenere, fatto a mano, di legno dilbiano. La brace continuò ad ardere, emanando un feto-re solo un tantino meno schifoso rispetto a pochi istanti prima. «Stavo dicendo che, ovviamente, non appena abbiamo saputo che tu eri disponibile per il lavoro, abbiamo fatto passare parola, sicché ora ai dilbiani risulta che sei molto attaccato alla ragazza. Che la ami, insomma».
Jhon inghiottì aria. Stavano parlando tutti e due in dilbiano, per miglio-rare la pratica di John, che aveva imparato la lingua per via ipnotica durante il viaggio dalla Cintura Stellare. Sulle labbra gli spuntò automa-ticamente il soprannome che i dilbiani avevano affibbiato alla sociologa terrestre scomparsa.
«Sarei innamorato di Faccia Unta?».
«La signorina Ty Lamorc», lo corresse Joshua, passando tranquillamente alla lingua comune terrestre per poi tornare al dilbiano. «Faccia Unta per gli indigeni di Dilbia, naturalmente.
«Qui», disse Joshua, «i nomi hanno un valore fondamentale, come indice di ciò che i dilbiani pensano di un individuo. A me è stata appioppata l'etichetta di Piccolo Morso; e non c'è dubbio che anche tu, tra non molto, riceverai il battesimo del soprannome».
«Io?», esclamò John, stupito. Poi pensò ai capelli rossi che gli coronava-no il corpo snello, da atleta. Gli aveva sempre fatto schifo sentirsi chiama-re «Rosso».
«Non sarà un nome troppo umiliante, ammesso che tu stia attento a non renderti ridicolo. Heinie, ad esempio...».
«Prego?»
«Oh, scusami», rispose Joshua, ricominciando a riempire la pipa. «Do-vevo usare il suo nome intero. Heiner Schlaff». L'ambasciatore lanciò nu-volette di fumo nell'aria dell'ufficio piccolo, lindo, con le pareti in legno. «Ha perso la testa la prima volta che è uscito per strada da solo. Un dilbiano di uno dei clan delle montagne, siccome non aveva mai visto un essere umano, lo ha sollevato da terra. Heinie ha perso completamente la testa. Dopo di che, non è più riuscito a ficcare il naso fuori di casa senza che un dilbiano lo alzasse in aria per sentirlo gridare. Lo hanno chiamato il Puzzone Che Urla. Una pessima pubblicità, per noi umani.
Per caso ti dà fastidio la pipa, ragazzo mio?».
«No, no», rispose John, tossendo discretamente. «Nemmeno per idea».
«Dovrò spegnerla, quando vedremo Papà Ginocchia di Marmellata e Due Risposte. I dilbiani sono molto sensibili agli odori umani, persino ai profumi delicati come quello della pipa.

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #181 il: 07 Ottobre 2007, 23:03:55 »
Vladimir Nabokov
Quando descrive le sue fumate e quando parla di pipe
evoca in chì legge il profumo dei tabacchi più aromatici.

Lolita

Quando frequentavo l'università, aLondra e a Parigi, mi bastavano
quelle prezzolate. I miei studi, anche senon particolarmente fruttuosi,
erano meticolosi e intensi. In un primomomento progettai di laurearmi
in psichiatria, come fanno tanti talentimanqués; ma io ero troppo
manqué anche per quello.
Un peculiare sfinimento, mi sento così oppresso, dottore, si impadronì di me, e passai
così alla letteratura inglese, dove vanno a finire, in qualità di professori
tutti pipa e tweed, tanti poeti frustrati. Parigi mi andava a genio.

Stavolta ho guadagnato una posizione strategica sulla sedia a dondolo della
loggia, con giornale obeso e pipa nuova, prima della comparsa di L. Con
mia cocente delusione è arrivata con sua madre, entrambe in due pezzi
neri, nuovi come la mia pipa. Il mio tesoro, la mia passione mi si è fermata
accanto per un attimo (voleva la pagina dei fumetti), e aveva quasi
l'identico odore dell'altra, quella della Costa Azzurra, ma più intenso, con
sfumature più crude – un torrido afrore che ha subito messo in moto la mia
virilità; ma già mi aveva strappato l'agognata rubrica e s'era ritirata sulla
stuoia, accanto a mamma foca.



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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #182 il: 08 Ottobre 2007, 23:02:25 »
Dove si parla di altri autori con la pipa

Natalia Ginzburg
la volontà di scrivere "come un uomo", in modo che le sue frasi fossero per il lettore una continua e perenne frustata.

Lessico famigliare

Leggeva
però con la più viva attenzione; e intanto fumava la pipa, e spazzava via la
cenere dalla pagina. Quando tornava da qualche viaggio, aveva sempre con
sé romanzi polizieschi, che comprava sulle bancarelle delle stazioni; e
finiva di leggerli là nel suo studio, la sera. Erano, di solito, in inglese o in
tedesco: sembrandogli forse meno frivolo leggere quei romanzi in una
lingua straniera. – Un sempiezzo, – diceva alzando le spalle; e leggeva
tuttavia fino all'ultima riga. Più tardi, quando cominciarono a uscire i
romanzi di Simenon, mio padre ne divenne un lettore assiduo.
– Non è mica male Simenon, – diceva. – Descrive bene quella provincia
francese.

Pavese spiegava che veniva là non per coraggio, perché lui di coraggio
non ne aveva; e nemmeno per spirito di sacrificio. Veniva perché se no
non avrebbe saputo come passar le serate; e non tollerava di passar le
serate in solitudine.
E spiegava che non veniva per sentir parlare di politica, perché, lui, della
politica, «se ne infischiava».
A volte fumava la pipa, tutta la sera, in silenzio. A volte, avviluppandosi
i capelli attorno alle dita, raccontava i fatti suoi.

A mezzanotte, Pavese agguantava dall'attaccapanni la sua sciarpa, se la
buttava svelto intorno al collo; e agguantava il paltò. Se ne andava giù per
il corso Francia, alto, pallido, col bavero alzato, la pipa spenta fra i denti
bianchi e robusti, il passo lungo e rapido, la spalla scontrosa.

Pavese stava al tavolo, con la pipa, e rivedeva bozze con la
rapidità d'un fulmine. Leggeva l'Iliade in greco, nelle ore d'ozio,
salmodiando i versi ad alta voce con triste cantilena. Oppure scriveva,
cancellando con rapidità e con violenza, i suoi romanzi. Era diventato uno
scrittore famoso.

Balbo parlava, parlava, e Pavese fumava
la pipa, e s'arricciolava intorno al dito i capelli.
Pavese diceva: – Mi sembra una proposta cretina! Difenditi dai cretini!

Balbo, quando smetteva un momento di discutere con quei suoi amici,
esponeva a Pavese e a me le sue idee sul nostro modo di scrivere. Pavese
lo ascoltava seduto in poltrona, sotto il lume, fumando la pipa, con un
sorriso maligno: e di tutte le cose che Balbo gli diceva, lui diceva che già
le sapeva da lunghissimo tempo.
Ascoltava, tuttavia, con vivo piacere.
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« Risposta #183 il: 09 Ottobre 2007, 00:22:50 »
Giulio Gianelli
La mia novella preferita di quando ero bambino

Storia di Pipino
nato vecchio e morto bambino


Sul tavolo c'erano due cose importantissime: una pipa e un piccolo bozzetto in creta, che raffigurava un vecchio. La notte era alta, forse scoccavano le tre del mattino quando la pipa notò la presenza del vecchietto immobile presso di lei appoggiato alla sua testa.
Regnava nell'ampia stanza un silenzio profondo, come pure sul tavolino ingombro di matite, penne, temperini, libri e fogli di carta. Due farfalle che avevano roteato per alcune ore intorno al lume ora dormivano, l'una dentro la vocale O sul frontispizio di un libro italiano e stava bene, l'altra sopra due sillabe di lingua greca e si trovava male.
Quella pipa era una pipa di buon cuore; come tutte le donne, un po' sentimentale. Il suo padrone aveva da poco smesso di fumare ed essa calda tuttora, pensando ai bei ghirigori di fumo usciti dalla sua bella testa durante il giorno, con la coscienza tranquilla del compiuto dovere, aspettava di prender sonno. Ma l'idea del vecchietto la distoglieva.
- Se lo riscaldassi? Se provassi a dargli la vita col mio calore? A cambiarlo da creta in carne umana?
Ci voleva un prodigio né più né meno. Ma chi desidera giovare al prossimo, può tutto: anche dal nulla deriva meraviglie.
La buona pipa trattenne il respiro, fece una mossa leggerissima per collocare la sua testa dove ardevano le ultime briciole di tabacco, vicino al cuore del vecchierello. Passò un'ora. Ed ecco cominciava a sciogliersi il torpore delle piccole membra. Prima di tutto il vecchio mosse un piede: un solletico forte, pungente, continuo, non gli permetteva più di tenerlo fermo. Il medesimo solletico dal piede destro si trasportò al sinistro con esito eguale.
Una mano che pendeva sull'orlo all'imboccatura della pipa, sentì scottarsi e si levò in alto; l'altra mano, venuta in soccorso della sorella per carezzarla sulla scottatura, si sentì viva, senza saperlo, solo per istinto d'amore.
Allora libero nei suoi movimenti, il vecchietto si stiracchiò, poi si stropicciò gli occhi, i quali si aprirono: due occhi un po' dolorosi ma belli e lucenti come due stelle.
Gli mancava la parola. Ma proprio in quell'istante il calore attraverso le vene giunse al suo cuore ed egli parlò:
- Io sono nato! Eccomi qui.
Pieno di meraviglia si passò la mano sulla barba bianca.
- Dove sono? Chi sono?
Una voce rispose: - Ti dirò tutto se prometti di ubbidirmi.
- Prometto di ubbidire, parola d'onore, ma chi mi parla?
      Io
Egli guardò intorno:
- Come, una pipa?
- Sicuro, io pipa ti parlo. Tu eri poco fa un semplice impasto di creta: io ti svegliai alla vita col mio calore. Credevo di farti piacere.
- Infatti, ne sono contento. Grazie, grazie; ti amerò come una mamma.
- Mi commuovi nel più profondo della mia cannetta:
tu senti la gratitudine. E io ti seguirò dovunque. Lasciami piangere di consolazione almeno per un minuto e mezzo.
- Fa pure, mamma pipa.


la buona pipa, a dirlo tra noi, desiderava di risentire il gusto del tabacco. Che belle ore passavano in famiglia, Pipa e Pipino! Dopo l'ovo della cena, egli diceva:
- Mamma, io fumo.
E la mamma gli volava in mano con tutta la sollecitudine premurosa che hanno le mamme, e rispondeva:
- Pipino, fumiamo.
Tabacco ce n'era in abbondanza, e quando la pipa era ben carica, diceva:
- Accendimi!
E Pipino, acceso il fiammifero, lo avvicinava alla testa della mamma con precauzione, badando a dar fuoco al tabacco senza sfiorare con la fiamma l'orlo di legno. Ci riusciva sempre, perché lo faceva proprio con delicato amore. Mai la pipa ebbe a gridare: «Ahi! mi bruci». Mai.
Il fumo usciva dalla bocca di Pipino e dalla bocca della pipa, allegro, vivace, azzurro; coronava l'uno e l'altra come di un'aureola, saliva, si stendeva nella camera formando una specie di cielo grigio pieno di nuvolette erranti. A quelle nuvole altre si aggiungevano, penetrandole, scacciandole scherzosamente.
Diceva mamma Pipa:
- Che buon tabacco! Soggiungeva Pipino:
- Guarda che belle nuvole, mi divertono un mondo.
Lo spettacolo era bello davvero. La luce proiettava a traverso il fumo dei piccoli raggi destando vivacissimi colori. Il fumo ora pareva lana bianca, ora seta celeste, ora un vetro appannato.
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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #184 il: 09 Ottobre 2007, 23:36:51 »
Fleming, Ian 


Moonraker


Entrando, Bond vide che M era seduto alla sua ampia scrivania e si stava accendendo la pipa. Fece un gesto vago col fiammifero acceso in direzione della poltrona che si trovava dall’altra parte della scrivania e Bond vi si sedette. M gli lanciò un’occhiata penetrante attraverso il fumo, poi gettò la scatola di fiammiferi sulla superficie di cuoio rosso di fronte a sé.
«Hai passato delle buone ferie?» chiese improvvisamente.
«Sì, grazie, signore,» disse Bond.
«Ancora abbronzato, vedo.» La sua disapprovazione era evidente. Non intendeva certo rimproverargli una vacanza che era stata, in parte, una convalescenza. La sfumatura di critica sorgeva da quel fondo di puritanesimo e di gesuitismo presente in tutti coloro che comandano uomini.
«Sì, signore,» disse Bond vagamente. «Fa molto caldo vicino all’Equatore.»
«É vero,» disse M. «Un riposo ben meritato.» Strizzò gli occhi ma senza ombra di umorismo. «Spero che l’abbronzatura non durerà a lungo. In Inghilterra, diffido sempre degli uomini abbronzati. O non hanno niente da fare o si procurano la tintarella con una lampada al quarzo.» Con un brusco strattone alla pipa, dichiarò chiuso l’argomento.
Se la rimise in bocca e aspirò con aria assorta. La pipa era spenta; prese i fiammiferi e gli ci volle un po’ di tempo per riaccenderla.
Per un momento ci fu silenzio. M fissava il fornello della sua pipa. Dalle finestre aperte entrava il frastuono lontano del traffico londinese. Un piccione si posò su uno dei davanzali con un vivace sbattimento d’ali e volò via quasi subito. Bond tentò di leggere qualcosa su quel viso segnato dalle fatiche che egli conosceva così bene e che si era assicurato la sua fedeltà. Ma gli occhi grigi erano tranquilli e la vena che batteva sempre sulla tempia destra di M quando era teso, non dava segno di vita. Tutt’a un tratto, Bond ebbe il sospetto che M fosse imbarazzato. Aveva la sensazione che non sapesse da dove incominciare. Volle aiutarlo; si mosse sulla poltrona e distolse gli occhi da lui. Li abbassò sulle proprie mani e, con fare indifferente, prese a rosicchiarsi un’unghia.
M alzò gli occhi dalla pipa e si schiarì la gola.



Una cascata di diamanti



M prese la pipa e cominciò a caricarla. «E ora ne sai quanto me, sui diamanti.»
Dalla sua poltrona, Bond guardò distrattamente le buste di carta velina e le pietre luccicanti sparse sulla superficie di cuoio rosso della scrivania, e si chiese dove M volesse arrivare.
M sfregò un fiammifero sulla scatola, calcò il tabacco combusto nella pipa, rimise in tasca la scatola e inclinò la poltrona nella posizione favorita che adottava per le riflessioni.
Bond consultò l’orologio. Erano le undici e trenta. Pensò con gioia alla pila di documenti contrassegnati «Segretissimo» che attendevano di essere evasi e che egli aveva abbandonato assai volentieri quando, un’ora prima, il telefono rosso lo aveva convocato. Ora era quasi certo che li avrebbe abbandonati definitivamente. «Credo che si tratti di una missione,» aveva risposto il Capo del personale alla domanda di Bond. «Il Capo ha dato ordine di non passargli nessuna telefonata fino all’ora di pranzo e ha preso un appuntamento per te alle due con Scotland Yard. Spicciati.» Bond aveva preso la giacca ed era entrato nell’ufficio della sua segretaria appena in tempo per vederla ricevere un’altra pila di scartoffie con la stampigliatura «Urgentissimo». «M,» spiegò Bond alla segretaria che gli rivolgeva uno sguardo interrogativo. «Bill dice che deve trattarsi di una missione. E così, non credere di avere il piacere di scaricare sul mio tavolo tutte quelle cartacce. Per quello che mi riguarda, potresti benissimo mandarle al Daily Express.» Le rivolse una smorfia. «Quel tale Sefton Delmer, non è forse un tuo amico, Lil? É proprio il genere di roba che fa per lui, immagino.» La ragazza lo esaminò. «Hai la cravatta storta,» disse freddamente. «E d’altronde, lo conosco appena.» Poi si curvò sul suo lavoro. Bond uscì nel corridoio pensando che era fortunato ad avere una segretaria così bella. La poltrona di M scricchiolò e Bond guardò l’uomo che si era conquistato gran parte del suo affetto e al quale aveva dedicato tutta la sua lealtà e la sua obbedienza. Gli occhi grigi lo osservavano pensierosi. M si tolse la pipa di bocca. «Da quanto tempo sei tornato dalla tua vacanza in Francia?» «Da due settimane, signore.» «Ti sei divertito?» «Mica male, signore. Ma alla fine mi stavo annoiando.» M non fece alcun commento. «Stavo dando un’occhiata al tuo curriculum. Sembra che tu te la sappia cavare, con la pistola. Anche per quanto riguarda il corpo a corpo senza armi, le tue prestazioni sono soddisfacenti. E per finire, l’ultimo referto medico indica che ti trovi in ottima forma.» M fece una pausa. «Il fatto è che ti dovrei affidare una missione piuttosto difficile. Volevo essere sicuro che saresti stato in grado di badare a te stesso.» «Naturalmente, signore.» Bond era stato punto sul vivo. «Non sottovalutare questa missione, 007,» disse seccamente M. «Quando dico che sarà una missione difficile, non ho intenzione di fare il melodrammatico. Ci sono molte persone scaltre che tu non conosci ancora, e qualcuna di queste può aver messo lo zampino nella faccenda. Forse, qualcuna tra le più scaltre. Per cui, non metterti a fare il permaloso, se ci penso due volte prima di farti intervenire.» «Chiedo scusa, signore.» «Va bene.» M posò la pipa e si chinò in avanti appoggiando le braccia incrociate alla scrivania. «Prima ti racconterò tutta la storia e poi mi dirai se vorrai interessartene o no.»


Vivi e lascia morire


M si fermò per riempire la pipa ed accenderla. Non invitò Bond a fumare, né egli osava certo farlo di sua iniziativa.
«E quale enorme tesoro deve essere. Negli ultimi due mesi sono apparse negli Stati Uniti quasi un migliaio di queste monete ed altre simili. E se la sezione speciale del Ministero delle Finanze e la F.B.I. ne hanno rintracciato un migliaio, quante altre saranno state fuse o saranno scomparse nelle collezioni private? E continuano a fluire, ad arrivare alle banche, ai commercianti in preziosi, ai negozi di antichità, ma soprattutto, naturalmente, alla gente che concede prestiti su pegni. La F.B.I. è in un bel pasticcio: se le monete vengono iscritte sui fogli di segnalazione della polizia sotto la denominazione “refurtiva”, sa che la sorgente dovrà finire per inaridirsi. Le monete verrebbero fuse in lingotti d’oro e incanalate direttamente verso il mercato dei preziosi: si sacrificherebbe il valore dei pezzi autentici in sé, come rarità, ma l’oro andrebbe a finire difilato nei canali della distribuzione clandestina. Così, invece, c’è qualcuno che si serve dei negri, dei facchini, degli inservienti dei vagoni letto, dei conducenti di autocarri, e attraverso questa catena di collaborazioni riesce a far circolare il denaro in tutti gli Stati Uniti. Ed è sempre gente innocente quella di cui si serve. Ecco un caso tipico».
M aperse una cartelletta di cuoio bruno, con la stella rossa che indicava «massimo segreto» e scelse un foglio. Mentre teneva sollevato il documento, Bond riuscì, dal rovescio, a decifrarne in trasparenza la testata: «Dipartimento di Giustizia. Ufficio federale di investigazione». M lesse:
«Zachary Smith, di anni trentacinque, razza negra, facente parte della squadra facchini addetti al servizio dei vagoni letto, indirizzo: 90 b West 126esima Strada, New York City». (M alzò gli occhi e lasciò cadere una parola: «Harlem».) «Il soggetto venne identificato da Arthur Fein della Fein Jewels Inc. 870 Lenox Avenue, per aver offerto in vendita il 21 novembre scorso quattro monete d’oro del sedicesimo e diciassettesimo secolo. (Accludiamo i particolari del fatto.) Fein offrì cento dollari che vennero subito accettati. Interrogato, più tardi, Smith dichiarò che le monete gli erano state vendute al Settimo Cielo, un bar molto noto ad Harlem, per venti dollari l’una da un negro che non aveva mai visto prima né più incontrato dopo.
«Il venditore gli aveva detto che valevano 50 dollari l’una da Tiffany, ma che lui, il venditore, voleva denaro in contanti e che comunque Tiffany stava troppo lontano. Smith ne comprò una per venti dollari e avendo scoperto che il padrone d’un banco di pegni delle vicinanze gli avrebbe dato venticinque dollari, ritornò al bar e comperò le rimanenti tre monete per sessanta dollari. Il mattino seguente le portò a Fein. Il soggetto non ha precedenti penali».
M ripose il foglio nella cartelletta marrone.
«È tipico», osservò. «Parecchie volte sono riusciti ad arrivare fino al secondo anello della catena, l’uomo che aveva acquistato le monete a prezzo di affezione, e hanno scoperto che in un certo caso, ad esempio, ne aveva comperato addirittura cento, da qualcuno che, presumibilmente, doveva averle avute a prezzo anche più
favorevole. Tutte queste vendite e compere hanno avuto luogo ad Harlem o in Florida. Il secondo anello della catena era sempre rappresentato da un negro sconosciuto, generalmente un professionista, agiato, di una certa cultura, il quale asseriva di esser convinto che le monete avessero fatto parte di un antico tesoro, quello del Barbanera, ad esempio.
«Questa storia dell’antico tesoro potrebbe reggere a molte indagini», assicurò M, «perché vi è ragione fondata di credere che parte di quello del Barbanera appunto sia stata portata alla luce poco prima del Natale del 1928, in una località denominata Plum Point. Si tratta di una stretta striscia di terra che fa parte della Contea di Beaufort, nella Carolina del Nord, dove un torrente chiamato Bath Creek si getta nel fiume Pamlico. Non crediate che io sia un pozzo di scienza», soggiunse ridendo. «Tutto questo è scritto nel “dossier” e potete leggerlo voi stesso. Così, in teoria, sarebbe stato logico e plausibile, da parte di quei fortunati cacciatori di tesori, nascondere il bottino finché la faccenda fosse caduta nel dimenticatoio e gettarlo poi all’improvviso sul mercato. Oppure potrebbe darsi che l’avessero venduto tutto in blocco a quel tempo, o più tardi, e l’acquirente avesse deciso di convertirlo in denaro. Comunque, sarebbe stata una storia abbastanza attendibile, se non fosse per due particolari».
M fece una pausa e riaccese la pipa.
«Prima di tutto, Barbanera lavorò dal 1690 al 1710 e nessuna delle sue monete può essere coniata dopo il 1650. Inoltre, come ho detto, è molto improbabile che il suo tesoro contenesse delle Rose Noble di Edoardo Quarto, poiché non abbiamo notizia di alcun piroscafo inglese con un carico di denaro catturato mentre era in rotta per la Giamaica. I fratelli della costa non si sarebbero arrischiati a farlo. Le navi avevano una scorta troppo forte. C’erano molti vascelli più facili da derubare in quei giorni se si navigava “in conto saccheggio”, come dicevano allora.
«In secondo luogo», M osservò il soffitto e poi ritornò con lo sguardo a Bond, «io so dove si trova il tesoro. Per lo meno sono quasi sicuro di saperlo. E non è in America. È in Giamaica, proviene da Bloody Morgan. A mio parere è uno dei più preziosi tesori della storia».
«Oh Dio», esclamò Bond. «Dove... come c’entriamo noi?»
M alzò la mano: «Troverete tutti i particolari qua dentro», e posò la mano sulla cartelletta marrone.
«In breve la Sezione C si è interessata di uno yacht Diesel, il Secatur, che faceva rotta da un’isoletta sulla costa nord della Giamaica, e, attraverso la Florida Keyrs, risaliva nel Golfo del Messico, fino ad un porto chiamato Saint Petersburg; una specie di stazione di villeggiatura, vicino a Tampa. Sulla costa ovest della Florida. Con l’aiuto della F.B.I. abbiamo identificato il proprietario dell’imbarcazione e dell’isola. È un certo Mister Big, un gangster negro. Vive ad Harlem. L’avete mai sentito nominare?»
«No», disse Bond.
«È cosa abbastanza strana». La voce di M era più morbida e più suadente. «Un biglietto da venti dollari che uno dei tanti negri aveva dato in cambio di una moneta d’oro e il cui numero era stato annotato per il Peaka Peow, il gioco dei numeri, venne speso da uno dei luogotenenti di Mister Big. E venne speso», M puntò la pipa verso 12
Bond, «per pagare alcune informazioni ricevute da un agente della F.B.I. che conduce il doppio giuoco, ed è membro del Partito Comunista».

 



007 - Octopussy

M aspirò una boccata di fumo dalla pipa. Il suo sguardo, attraverso il fumo, non sembrava particolarmente interessato.
Ora otterrà il pagamento delle sue informazioni in una volta sola per mezzo di quel gioiello. Tutto fila a perfezione.»
M tirò a sé il posacenere ricavato dal bossolo di un proiettile da dodici pollici e vi vuotò la pipa, assumendo l'espressione di un uomo soddisfatto del proprio lavoro pomeridiano.
Bond si sistemò meglio sulla sedia. Aveva una gran voglia di fumare, ma non si sarebbe mai permesso di accendere una sigaretta.
«Non ha bisogno di istruzioni,» rispose M infastidito, trafficando con la pipa. «Le è stato sufficiente essersi impadronita del cifrario viola.

« Ultima modifica: 03 Aprile 2009, 00:32:41 da Aqualong »
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« Risposta #185 il: 11 Ottobre 2007, 21:25:39 »
Oliver Sacks
Nei suoi romanzi, Sacks descrive i casi clinici con pochi dettagli tecnici, concentrandosi preferenzialmente sull'esperienza personale dei pazienti - in un caso, egli stesso. Molti dei casi che racconta sono incurabili e il racconto è quello dei diversi modi in cui le persone si adattano alle loro diverse disabilità.

Da un suo famoso libro, Risvegli, è stato tratto un film in cui Sacks è stato impersonato da Robin Williams e uno dei suoi pazienti da Robert De Niro.

L'uomo che scambiò la moglie per un cappello



Sono tutti senza naso i figli caduti di Eva...
Oh, l'allegro odore dell'acqua,
l'ardito odore del sasso!

Di recente ho incontrato una specie di corollario a questo caso: un uomo di grande intelligenza e talento che in seguito a una lesione alla testa aveva subito un grave danno alle fibre olfattive (vulnerabilissime nel loro lungo percorso attraverso la fossa anteriore) e di conseguenza aveva completamente perduto l'olfatto. Gli effetti di tale perdita l'avevano stupefatto e sconvolto: «L'olfatto? » mi disse. «Non me n'ero mai curato. Di solito uno non ci pensa. Ma quando lo persi, fu
se fossi diventato di colpo cieco. La vita perse molto del suo sapore...non ci si rende conto di quanto il “sapore” sia in realtà olfatto. Si odora la gente, si odorano i libri, si odora la città, si odora la primavera, forse non in modo consapevole, ma come uno sfondo ricco e inconscio che sta dietro a ogni cosa. D'improvviso tutto il mio mondo s'impoverì radicalmente». C'era un acuto senso di perdita, un acuto struggimento, un autentica osmalgia: il desiderio di ricordare il mondo olfattivo al quale
ione cosciente ma che, come ora capiva, era stato una specie di «basso ostinato» della vita. Poi, qualche mese più tardi, con sua sorpresa e gioia il caffè della colazione, che era diventato «insipido», cominciò a riacquistare il suo sapore. Provò con la pipa, che non toccava da mesi, e anche lì colse un vago accenno del ricco aroma che tanto gli piaceva. Eccitatissimo - i neurologi non gli avevano prospettato alcuna speranza di guarigione -, tornò dal suo medico. Ma questi, dopo un esame completo fatto con una tecnica a doppio cieco, disse: «No, mi dispiace, non c'è traccia di guarigione. L'anosmia è ancora totale. Strano però che lei ora “senta l'odore” della sua pipa e del caffè...». Il fa
e fibre olfattive e non la corteccia - con lo sviluppo di una vigorosissima fantasia olfattiva, quasi, si direbbe, di un'allucinosi controllata, così che nel bere il caffè o nell'accendere la pipa - situazioni normalmente e precedentemente cariche di associazioni olfattive - egli è ora in grado di evocare, o rievocare, inconsciamente queste associazioni, e con un'intensità tale che esse gli paiono, in un primo momento, «reali».

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Autori con la pipa in bocca
« Risposta #186 il: 11 Ottobre 2007, 21:54:38 »
Citazione da: "Aqualong"
Dove si parla di altri autori con la pipa

Natalia Ginzburg
la volontà di scrivere "come un uomo", in modo che le sue frasi fossero per il lettore una continua e perenne frustata.

Lessico famigliare

Leggeva
però con la più viva attenzione; e intanto fumava la pipa, e spazzava via la
cenere dalla pagina. Quando tornava da qualche viaggio, aveva sempre con
sé romanzi polizieschi, che comprava sulle bancarelle delle stazioni; e
finiva di leggerli là nel suo studio, la sera. Erano, di solito, in inglese o in
tedesco: sembrandogli forse meno frivolo leggere quei romanzi in una
lingua straniera. – Un sempiezzo, – diceva alzando le spalle; e leggeva
tuttavia fino all'ultima riga. Più tardi, quando cominciarono a uscire i
romanzi di Simenon, mio padre ne divenne un lettore assiduo.
– Non è mica male Simenon, – diceva. – Descrive bene quella provincia
francese.

Pavese spiegava che veniva là non per coraggio, perché lui di coraggio
non ne aveva; e nemmeno per spirito di sacrificio. Veniva perché se no
non avrebbe saputo come passar le serate; e non tollerava di passar le
serate in solitudine.
E spiegava che non veniva per sentir parlare di politica, perché, lui, della
politica, «se ne infischiava».
A volte fumava la pipa, tutta la sera, in silenzio. A volte, avviluppandosi
i capelli attorno alle dita, raccontava i fatti suoi.

A mezzanotte, Pavese agguantava dall'attaccapanni la sua sciarpa, se la
buttava svelto intorno al collo; e agguantava il paltò. Se ne andava giù per
il corso Francia, alto, pallido, col bavero alzato, la pipa spenta fra i denti
bianchi e robusti, il passo lungo e rapido, la spalla scontrosa.

Pavese stava al tavolo, con la pipa, e rivedeva bozze con la
rapidità d'un fulmine. Leggeva l'Iliade in greco, nelle ore d'ozio,
salmodiando i versi ad alta voce con triste cantilena. Oppure scriveva,
cancellando con rapidità e con violenza, i suoi romanzi. Era diventato uno
scrittore famoso.

Balbo parlava, parlava, e Pavese fumava
la pipa, e s'arricciolava intorno al dito i capelli.
Pavese diceva: – Mi sembra una proposta cretina! Difenditi dai cretini!

Balbo, quando smetteva un momento di discutere con quei suoi amici,
esponeva a Pavese e a me le sue idee sul nostro modo di scrivere. Pavese
lo ascoltava seduto in poltrona, sotto il lume, fumando la pipa, con un
sorriso maligno: e di tutte le cose che Balbo gli diceva, lui diceva che già
le sapeva da lunghissimo tempo.
Ascoltava, tuttavia, con vivo piacere.
bellissimo ritratto di Pavese.

Nabokov: la pipa a due pezzi!!!
"Bohhh tieniti le tue adorate dunhill e pipe da snobe i tuoi tabacchi da bancarella del mercato" Cit. toscano f.e.

Cave Secretarium

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« Risposta #187 il: 18 Ottobre 2007, 18:53:30 »
Dapprima Dio creò l'uomo, poi la donna.
Dopo, l'uomo gli fece pena e gli diede il tabacco.
Mark Twain
Amplius invenies in sylvis quam in scriptis

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« Risposta #188 il: 18 Ottobre 2007, 23:36:46 »
Edmund Cooper
autore grandissimo nel suo genere che pochi ricordano troppo preoccupati a seguire la falsa poesia di Bruce Sterling, William Gibson e compagni. E. Cooper è nato nel 1926 in Inghilterra, ha studiato presso la Grammar School di Manchester e prima di diventare scrittore professionista si è provato per diverso tempo in svariate attività concernenti il commercio marittimo. La sua carriera letteraria ebbe inizio nel 1951 con il racconto The Unicorn; grazie al successo di critica ottenuto con questo suo primo racconto, Cooper decise di intraprendere l'attività letteraria a tempo pieno riuscendo a portare a termine qualcosa come una quindicina di romanzi.
 
Uomini E Androidi

Il professor Hyggens tolse di tasca una vecchia pipa e cominciò a riempirla di tabacco. «Brutta abitudine. Antigienica. Disgustosa. Provoca il cancro, la tubercolosi, l'indurimento delle arterie, e il buon senso. Vuoi fumare?»
«Grazie, no. Fumo sigarette.»
«È piacevole essere antigienici, vero?» disse il professore.
Dal gruppo si levò un mormorio di assenso. Il professor Hyggens soffiò una grossa nuvola di fumo verso la lanterna schermata, poi si tolse a malincuore la pipa dalle labbra.

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« Risposta #189 il: 18 Ottobre 2007, 23:53:44 »
Simon Beckett  

Dopo aver fatto il percussionista in gruppo rock, frequenta un Master in Letteratura inglese e insegna in Spagna. Tornato in patria, dal 1992 scrive come editorialista e giornalista freelance su “The Times”, “The Independent on Sunday Review”, “The Daily Telegraph”, “The Observer” e altri importanti quotidiani e periodici inglesi. Memorabili le sue inchieste in prima linea durante i raid antidroga della polizia, nel sordido mondo dei bordelli o tra i segreti del Centro ricerche di Antropologia forense in Tennessee. Come romanziere ha pubblicato Fine Lines (1994), Animals (1995, vincitore del premio Marlowe della Chandler Society come Best international crime novel), Where There’s Smoke (1997), e Owning Jacob (1998)

La Chimica Della Morte

Presto capirà che, da queste parti, i cambiamenti non vengono apprezzati.» Prese la pipa e una busta di tabacco dalla scrivania. «Le dispiace se fumo?»
«No. Ma è un piacere più grande se evita di farlo.»
Scoppiò a ridere. «Bella risposta. Però non sono uno dei suoi pazienti. Non lo dimentichi.»
Si interruppe per un attimo, accostando il fiammifero al fornello della pipa. «Dunque...» disse, tirando una boccata. «Per lei, sarà un bel cambia-mento visto che ha lavorato in un'università, esatto? E Manham non è certo Londra.» Mi guardò da sopra la pipa. Attendevo che mi interrogasse approfonditamente sulla mia precedente carriera. Ma non lo fece. «Se le resta ancora qualche dubbio, questo è il momento per parlarne.»
«Nessun dubbio,» replicai.
Lui annuì, soddisfatto. «D'accordo.
«Mi sembrava il soggetto adatto. Buone doti professionali, referenze eccellenti... Disposto a venire a lavorare in una landa desolata per la miseria che posso offrire.»
«Mi aspettavo un colloquio.»
Respinse quell'osservazione con un movimento della pipa, circondandosi di una nube di fumo. «I colloqui richiedono tempo. Cercavo qualcuno che potesse cominciare il più presto possibile. Inoltre, mi fido del mio intuito.»
La sua sicurezza mi tranquillizzava. Soltanto molto tempo dopo, quando non ci fu più alcun dubbio sulla mia permanenza, davanti a un whisky mi confidò allegramente che ero stato l'unico candidato per quel posto.


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« Risposta #190 il: 19 Ottobre 2007, 00:23:14 »
David Case

Nato nello Stato di New York, ha trascorso molto tempo a Londra e in Grecia. Conta al suo attivo oltre trecento libri tra romanzi e antologie di racconti che spaziano in tutti i campi

Fengriffen

Quella notte stentai a prendere sonno. Hypnos è un dio sfuggente quan-do la mente è eccitata, e il racconto di Fengriffen mi aveva messo in quella condizione. Mi sedetti alla finestra, a fumare la pipa e a osservare la landa illuminata dalla luna. Il paesaggio era silenzioso e terrificante, racchiuso in schemi d'argento e di nero. Pensieri s'affacciavano a casaccio nel mio cervello. Non cercavo una soluzione... sapevo che fino a quel momento non potevano esserci che congetture, ma i pensieri sembravano dotati di volon-tà propria, mi tentavano con vaghe sollecitazioni; un momento prima mi dicevano che era ovvio, lei non lo amava più, e un momento dopo che c'era un qualche mistero più profondo da scoprire. Mi ricordai dei curiosi commenti della signora Lune, del ritratto mancante e del sorriso amaro di Ca-therine, pensai allo strano freddo che mi aveva assalito quando avevo visto per la prima volta la casa. Tuttavia non cercavo affatto di mettere in rela-zione quei fattori. Si muovevano a un livello inferiore a quello del raziocinio e i miei pensieri controllati si mantenvano ben al di sopra. Continuai a guardare la landa e a fumare. La pipa si spense e io la ricaricai e la riaccesi. Il tabacco è alleato della contentezza e io dovevo essere contento, mi dissi: il camino era ancora acceso e il vento ululava inoffensivo fuori dalla finestra, scuotendo gli alberi con furia ma incapace di afferrare me...


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« Risposta #191 il: 27 Ottobre 2007, 13:12:49 »
Terry Goodkind
Nato a Omaha, nel Nebraska (USA), nel 1949. Goodkind soffre di una rara forma di dislessia, che gli ha complicato molto la vita fin dall’infanzia. Dopo essersi comunque diplomato, Goodkind lasciò il college e si mise a fare una serie inusitata di mestieri tra i più stravaganti. Durante tutto questo tempo è sempre rimasto un appassionato di pittura, tanto che sono suoi anche alcuni dei disegni inseriti nei suoi libri.

La Pietra Delle Lacrime

Un uomo prese una pipa e un lungo bastoncino dalla tasca. Avvicinò il bastoncino alla fiamma della lampada, lo usò per accendere la pipa e co-minciò a fumare osservando la donna che rispose alla sua occhiata spor-gendo il mento in avanti fissandolo con uno sguardo carico d'odio. Il fumo si fece più denso quando l'uomo prese ad aspirare con maggiore forza.
Richard rimase appoggiato contro il muro con le braccia incrociate sul grembo in modo da nascondere la mano destra che teneva stretta intorno all'elsa della spada. Il quarto uomo tornò con una scodella di terracotta con un piccolo foro in cima e dei simboli bianchi dipinti lungo i lati.

L'aria calda saliva dalla mensa lungo le scale accompagnata dal brusio della gente. L'aroma della carne arrostita si mischiava con il dolce profumo del tabacco da pipa. Zedd si passò una mano sullo stomaco chiedendosi se avrebbe avuto il tempo di mangiare qualcosa.
Alla fine della scala c'era un grosso cestino che conteneva tre bastoni da passeggio e Zedd prese quello più appariscente: un bastone nero con un pomello d'argento lavorato. Lo batté a terra per provarne il bilanciamento e la lunghezza. Mi sembra leggermente pesante, pensò, ma va bene.

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« Risposta #192 il: 27 Ottobre 2007, 14:19:19 »
Alan Dean Foster  

Fu Alan Dean Foster a fungere da "ghost-writer" per la versione scritta delle avventure di Luke Skywalker e compagni. Il primo romanzo porta la dicitura "Dal Giornale degli Whill" e poi "Alien" e tantissime scenggiature di films.

La Battaglia Di JoTroom

Il sole riusciva spesso a liberarsi dalle nuvole che lo occultavano, per splendere piacevolmente sulla loro faccia. Fino a sera, sembrava non esserci nessuna probabilità di pioggia.
«Hai detto tre giorni per arrivare ai piedi della montagna?»
«Esatto, uomo!», rispose Bribbens senza guardare in faccia Jon-Tom, con il braccio destro avvolto intorno all'asse del remo di guida e gli occhi fissi sul fiume davanti. Sedeva su una sedia sistemata sul parapetto a poppa. Una lunga pipa, curva e sottile pendeva dalle sue spesse labbra. La brezza del fiume spingeva il sottile fumo dalla piccola cavità bianca della pipa su nel cielo.
«Per quanto ancora il fiume prosegue tra le montagne?» Flor stava in gi-nocchio e guardava avanti alla barca. Il tono della sua voce era ansioso ed agitato.
«Chi lo sa?», disse Bribbens. «Per leghe: forse ci vorranno settimane, o forse solo poche ore.»
Il barcaiolo fumava la sua pipa soddisfatto. «Un gruppetto di passeggeri davvero interessanti... molto più del solito.» Svuotò il residuo di tabacco picchiettando la pipa sul ponte, poi fermò in posizione il remo di guida ed incominciò a riempirla di nuovo. «Mi meraviglio che finora non vi siate ancora uccisi l'un l'altro.»
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« Risposta #193 il: 27 Ottobre 2007, 14:42:50 »
Karl Jacobi
Matematico tedesco, considerato da molti il più convincente e stimolante docente del suo tempo.
Nacque da famiglia ebraica nel 1804 a Potsdam. Studiò all'Università di Berlino, dove ottenne il titolo di dottorato nel 1825, con una dissertazione contenente una discussione analitica della teoria delle frazioni. Nel 1827 divenne professore straordinario e nel 1829 professore ordinario di matematica a Königsberg, e conservò questa cattedra fino al 1842. Jacobi soffrì per un tracollo fisico causato dal troppo lavoro nel 1843 e si trasferì in Italia per alcuni mesi per riacquistare la salute. Al suo ritorno si spostò a Berlino, dove visse come gentiluomo reale fino alla sua morte nel 1851.

IL PESCE DI CARNABY

Salì i gradini, inserì la chiave nella serratura con mani tremanti e rientrò nella casa.
Il silenzio dell'interno rimasto chiuso tanto a lungo lo avvolse come un mantello, calmando i suoi nervi scossi. Accese una lampada, la portò in soggiorno e la posò sul tavolo. Poi tirò fuori la pipa e cominciò a fumare, a lente boccate.
Era impazzito, si chiese, oppure ciò che aveva visto era soltanto il riflesso di un sogno? Aveva assistito a una fantasmagoria creata dall'acqua e dall'oscurità, che i suoi sensi storditi avevano trasformato in un capriccio dell'inconscio? Una cosa era certa. Se avesse raccontato la sua avventura
agli abitanti di La Piante, avrebbe dovuto rinunciare a ogni speranza di vendere la proprietà.
Come al solito, il fumo del tabacco lo calmò un poco.
Mr. Carnaby rimase seduto a lungo a guardare nel vuoto. Finalmente infilò in tasca la pipa e rimise il manoscritto sullo scaffale. Spense la lampada e uscì dalla casa per salire sul calesse. Si avviò sulla via del ritorno, lentamente, immerso in pensieri profondi e turbati.

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« Risposta #194 il: 29 Ottobre 2007, 15:44:45 »
Robert Jordan

nome d'arte di James Oliver Rigney (17 ottobre 1948 - 16 settembre 2007)
E' stato uno scrittore statunitense di romanzi fantasy e storici.
Consegue una laurea in Fisica presso il Citadel Military College della Carolina del Sud, ed in seguito parte per Guerra del Vietnam durante la quale riceve tre decorazioni al valore.
Inizia a scrivere agli inizi degli anni ottanta .

L'Occhio Del Mondo

Quando Rand e Mat, con i primi due barili, attraversarono la sala comu-ne, mastro al'Vere riempiva due boccali della sua miglior birra scura, spillandola da una delle botti allineate lungo la parete. Scratch, il fulvo gatto della locanda, se ne stava accucciato sopra la botte, con gli occhi chiusi e la coda raccolta intorno alle zampe. Tam si era accomodato di fronte al grande camino di pietra e pressava nel fornello della pipa il tabacco preso dal barattolo che il locandiere teneva sempre sulla mensola. Il camino, alto quasi quanto una persona, occupava metà parete dell'ampia sala quadrata; il fuoco scoppiettante teneva a bada il freddo dell'esterno.
«Ho proprio voglia di una pipata e di un boccale di birra al caldo» ammise Tam. A un tratto ridacchiò. «E sono sicuro che sei ansioso di rivedere Egwene.»
Rand rispose con un sorriso stentato. Di tutte le cose a cui voleva pensare in quel momento, la figlia del sindaco era all'ultimo posto. Non voleva altra confusione.
«Voglio un fuoco caldo, la pipa e un boccale della tua birra migliore.» Si mise in spalla il secondo barilotto. «Sono sicuro che Rand ti ringrazierà per l'aiuto, Matrim. Ricorda, più presto il sidro è in cantina...»
Cenn compreso, sedevano sulle seggiole dall'alta spalliera poste davanti al fuoco, con in mano un bocca-le e la testa avvolta dal fumo grigiazzurro delle pipe. Una volta tanto, nessun tavoliere per il gioco dei sassolini era in funzione e i libri di Bran ripo-savano sullo scaffale di fronte al camino. I presenti non parlavano nemmeno, si limitavano a scrutare in silenzio la birra e a battere sui denti il cannello della pipa; con impazienza, in attesa che Bran e Tam si unissero a loro.
«Il menestrello!» mormorò Egwene, piena d'entusiasmo.
L'uomo dai capelli bianchi si girò, facendo ruotare il mantello. Indossava una lunga giubba con maniche a sbuffo e ampie tasche. Aveva un paio di baffoni, anch'essi bianchi, il viso pieno di rughe come il tronco d'un albero che avesse visto tempi brutti. Rivolse un gesto imperioso a Rand e agli altri, muovendo la pipa dal lungo cannello, riccamente intagliata, che lasciava uscire un ricciolo di fumo.
«Che razza di posto!» disse il menestrello, con voce che pareva più forte di quella d'un uomo normale: anche all'aperto, sembrava riempire un'ampia stanza e rimbalzare contro le pareti. «I bifolchi di quel villaggio sulla collina mi dicono che posso arrivare qui prima che faccia buio, ma non precisano che devo partire molto prima di mezzogiorno. Quando infine arrivo, gelato fino al midollo e pronto per un letto caldo, il locandiere brontola per l'ora tarda, come se fossi un porcaro e il vostro Consiglio del Villaggio non m'avesse chiesto di esibire la mia arte a questa vostra festa. E non mi ha nemmeno detto d'essere il sindaco.» S'interruppe per riprendere fiato, guardandoli con un'unica occhiata astiosa, ma subito continuò: «Scendo al pianterreno per fumare la pipa davanti al camino e bere un boccale di birra, e tutti mi fissano come se fossi il cognato più antipatico venuto a chiedere un prestito.
«Ti sembro un ambulante, ragazzo?» brontolò, battendo la pipa sul palmo. Con un rapido gesto la fece scomparire, nel mantello o nella giubba. «Sono un menestrello, non un gazzettino.
«Non si può neppure fumare in pace» brontolò. «Farò meglio ad accertarmi che qualche contadino non mi rubi il mantello per tenere al caldo la mucca. Almeno, fuori posso accendere la pipa.

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