Ricerca su vecchi documenti,ma con la pipa in bocca.
Arturo Pérez ReverteDopo aver conseguito una laurea in Scienze politiche e Giornalismo, ha lavorato per circa vent'anni, dal 1973 al 1994, come reporter per i giornali, la radio e la televisione.
Dal suo romanzo Il club Dumas, pubblicato nel 1997, è stato tratto il film La nona porta di Roman Polanski, interpretato da Johnny Depp.
Il 12 giugno 2003 è diventato membro della Real Academia Española de la Lengua, la più alta istituzione spagnola nella lingua e la letteratura.
La tavola fiamminga«Di niente.» Álvaro si appoggiò allo schienale della poltrona, estrasse dalla
scrivania una scatola di tabacco e si mise a riempire la pipa. «Logicamente, la dama
seduta alla finestra, con l’iscrizione BEATRIX BURG. OST. D. non può che essere
Beatrice di Borgogna, duchessa consorte. Vedi?... Beatrice si sposò con Fernando
Altenhoffen nel 1464, all’età di ventiquattro anni.»
«Per amore?» domandò Julia con un sorriso ineffabile, guardando la fotografia.
Anche Álvaro sorrise appena, un po’ forzatamente.
«Sai che pochi di questi matrimoni si facevano per amore... Le loro nozze furono
un tentativo dello zio di Beatrice, Filippo il Buono, duca di Borgogna, di stringere
un’alleanza con l’Ostenburgo contro la Francia, che cercava di annettersi entrambi i
ducati.» Guardò a sua volta la fotografia e si mise la pipa tra i denti. «A Fernando di
Ostenburgo andò bene perché lei era bellissima. Almeno così dicono gli Annali
Borgognoni di Nicolas Flavin, il più importante cronista dell’epoca. Il tuo Van Huys
sembra condividere quest’opinione. A quanto pare, l’aveva già ritratta in precedenza,
perché c’è un documento, citato da Pijoan, secondo il quale Van Huys fu per qualche
tempo il pittore di corte in Ostenburgo... Nel 1463 Fernando Altenhoffen gli assegnò
una pensione di cento libbre all’anno, da pagarsi metà per San Giovanni e metà a
Natale. Nello stesso documento figura l’incarico di eseguire un ritratto a Beatrice che,
all’epoca, era ancora la fidanzata del duca, bien au vif.»
«Ci sono altri riferimenti?»
«Parecchi. Van Huys diventò un pittore molto importante.» Álvaro estrasse una
cartelletta da uno schedario. «Jean Lemaire, nella sua Couronne Margaridique, scritta
in onore di Margherita d’Austria, governatrice dei Paesi Bassi, cita Pierre de Brugge
(Van Huys), Hughes de Gand (Van der Goes) e Dieric de Louvain (Dietric Bouts)
insieme a quello che considera il re dei pittori fiamminghi, Johannes (Van Eyck). Nel
poema scrive, cito alla lettera: “Pierre de Brugge, qui tant eut les traits utez”, dai tratti
così nitidi... Quando fu scritto questo testo, Van Huys era morto da venticinque
anni.» Controllò con attenzione altre schede. «Ci sono citazioni più antiche che lo
riguardano. Per esempio, negli inventari del Regno di Valencia risulta che Alfonso V
il Magnanimo possedeva opere di Van Huys, Van Eyck ed altri maestri ponentini,
tutte andate perdute... Nel 1454 lo menziona anche Bartolomeo Fazio, cortigiano
vicino ad Alfonso V, nel suo De viribus illustris, alludendo a lui come “Pietrus
Husyus, insignis pictor”. Altri autori, soprattutto italiani, lo chiamano “Magister
Piero Van Hus, pictori in Bruggia”. C’è una menzione del 1470, in cui Guido
Rasofalco cita un suo quadro, che, come altri, non ci è pervenuto, una Crocifissione,
come “Opera buona di mano di un chiamato Piero di Juys, pictor famoso in Fiandra”.
E un altro autore italiano, anonimo, fa riferimento a un quadro di Van Huys, che
invece è stato conservato, Il cavaliere e il Diavolo, precisando che “A Magistro
Pietrus Juisus magno et famoso flandesco futi depictum”... Tieni conto che nel XVI
secolo lo citano Guicciardini e Van Mander, e nel XIX James Weale nei suoi libri sui
grandi pittori fiamminghi.» Raccolse le schede riponendole con cura nella cartelletta,
quindi infilò quest’ultima nello schedario. Poi si rilassò sulla poltrona e guardò Julia,
sorridente. «Soddisfatta?»
«Molto.» La giovane aveva annotato tutto e cercava di tirare le somme. Dopo un
primo istante alzò la testa e si scostò i capelli dal viso, guardando Álvaro con
curiosità. «Si potrebbe pensare che avessi già la lezione bell’e pronta. Sono
letteralmente senza parole.»
Il sorriso del cattedratico si smorzò un po’ e i suoi occhi evitarono quelli di Julia.
Sembrava che una delle schede sparse sul tavolo avesse attratto di colpo la sua
attenzione.
«È il mio lavoro» disse. E lei non riuscì a capire se il suo tono era distratto o
evasivo. Senza sapere bene il perché, si sentì a disagio.
«Questo significa che sei sempre un professionista di classe...» l’osservò per
qualche secondo, con curiosità, prima di tornare ai suoi appunti. «Abbiamo
abbondanti riferimenti all’autore e a due dei personaggi...» Si chinò sulla
riproduzione del quadro e indicò il secondo giocatore. «Ci manca lui.»
Tutto preso dall’accensione della pipa, Álvaro tardò a rispondere. Aveva aggrottato
la fronte.
«È difficile stabilirne l’identità con precisione» disse tra una boccata di fumo e
l’altra. «L’iscrizione non è molto esplicita, anche se basta per formulare un’ipotesi:
RUTGIER AR. PREUX...» fece una pausa e osservò il fornello della pipa come se si
aspettasse di trovarvi una conferma. «Rutgier può essere Roger, Rogelio o Ruggiero;
diverse forme, ci sono almeno dieci varianti, di un nome comune all’epoca... Preux
può essere un cognome o un nome di famiglia, e in questo caso ci troveremmo
davanti a un vicolo cieco, perché non ci risulta nessun Preux che abbia compiuto
imprese tali da renderlo degno di figurare nelle cronache. Tuttavia, preux si usava
anche nell’Alto medioevo come titolo onorifico, nell’accezione di prode,
cavalleresco. Lancillotto e Orlando, per farti due esempi illustri, vengono chiamati
così... In Francia e in Inghilterra, quando si armava un cavaliere, lo si ammoniva con
la formula soyez preux, che significa “siate leale, valoroso”. Era un titolo raro, con
cui si designava il fior fiore della cavalleria.»
Senza rendersene conto, per deformazione professionale, Álvaro aveva adottato un
tono persuasivo, quasi dottrinale, come faceva sempre quando la conversazione
toccava temi di sua competenza. Julia se ne rese conto con una specie di turbamento;
quel tono risvegliava vecchi ricordi, braci dimenticate di una tenerezza che aveva
avuto un posto nel tempo e nello spazio, influendo sulla formazione del suo carattere,
portandola ad essere come era. Residui di un’altra vita e di sentimenti che erano stati
smorzati con meticoloso impegno e a fatica, e accantonati come un libro messo su
uno scaffale perché la polvere lo ricopra, senza più alcuna intenzione di riaprirlo, ma
che, nonostante tutto, rimane sempre lì.
Davanti a questa sfida, Julia lo sapeva, servivano solo gli espedienti. Mantenere la
mente occupata in questioni immediate. Parlare, domandare dettagli foss’anche
irrilevanti. Chinarsi sul tavolo, fingendo una grande concentrazione sugli appunti.
Pensare che si trovava davanti a un Álvaro diverso, del resto era indubbiamente così.
Convincersi che tutto era successo in un’epoca remota, in un tempo e un luogo ormai
lontani. Reagire, comportandosi come se i ricordi non appartenessero a loro, ma ad
altre persone di cui una volta avevano sentito parlare e la cui sorte non li riguardava.
Accendersi una sigaretta poteva essere un diversivo, e Julia lo fece. Il fumo del
tabacco che le entrava nei polmoni la riconciliava con se stessa, le concedeva piccole
dosi d’indifferenza. Lo fece con gesti calmi, rilassandosi nel rituale meccanico. Poi
guardò Álvaro, pronta a proseguire.
«Qual è la tua ipotesi, allora?» Il tono della sua voce le sembrò accettabile, così si
sentì molto più tranquilla. «Per come la vedo io» aggiunse «se Preux non fosse il
cognome, la chiave sarebbe nell’abbreviazione ar.»
Álvaro si disse d’accordo. Stringendo gli occhi a causa del fumo della pipa, cercò
tra le pagine di un altro libro fino a trovare un nome.
